Esercizi spirituali nella filosofia antica (Pierre Hadot)

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Esercizi spirituali nella filosofia antica (Pierre Hadot)


"Fare il proprio volo ogni giorno! Almeno un momento che può essere breve, purché sia intenso. Ogni giorno un «esercizio spirituale», da solo o in compagnia di una persona che vuole parimenti migliorare. Esercizi spirituali. Uscire dalla durata. Sforzarsi di spogliarsi delle proprie passioni, delle vanità, del desiderio di rumore intorno al proprio nome (che di tanto in tanto prude come un male cronico). Fuggire la maldicenza. Deporre la pietà e l'odio. Amare tutti gli uomini liberi. Eternarsi superandosi.
Questo sforzo su di sé è necessario, questa ambizione giusta. Numerosi sono quelli che si immergono interamente nella politica militante, nella preparazione della rivoluzione sociale. Rari, rarissimi quelli che, per preparare la rivoluzione, se ne vogliono rendere degni".

A parte le ultime righe, questo testo non pare un'imitazione di Marco Aurelio? È di G. Friedmann, ed è certamente possibile che l'autore, scrivendolo, non fosse consapevole di questa somiglianza. D'altronde nel resto del suo libro, cercando «quali siano le proprie fonti», giunge alla conclusione che non esiste nessuna tradizione (ebraica, cristiana, orientale) che sia- compatibile con le esigenze della situazione spirituale contemporanea. Ma, curiosamente, non si chiede quale sia il valore della tradizione filosofica dell'antichità greco-romana, mentre le poche linee che abbiamo citato mostrano fino a che punto, inconsciamente, la tradizione antica continui a vivere in lui come in ciascuno di noi.
«Esercizi spirituali». L'espressione svia un poco il lettore contemporanei. In primo luogo non è più elegantissimo, oggi, l'uso della parola «spirituale». Ma dobbiamo pur rassegnarci a impiegare questo termine, poiché gli altri aggettivi o specificazioni possibili - «psichico», «morale», «etico», «intellettuale», «di pensiero», «dell'anima» - non coprono tutti gli aspetti della realtà che vogliamo descrivere. Si potrebbe evidentemente parlare di esercizi di pensiero, poiché, in tali esercizi, il pensiero fa in qualche modo di se stesso la propria materia, e cerca di modificare se stesso. Ma la parola «pensiero» non indica in maniera abbastanza chiara il fatto che l'immaginazione e la sensibilità intervengano in questi esercizi in un modo molto importante. Per gli stessi motivi, non possiamo accontentarci di «esercizi intellettuali», sebbene gli aspetti intellettuali (definizione, suddivisione, ragionamento, lettura, ricerca, amplificazione retorica) vi svolgano una parte molto importante. «Esercizi etici» sarebbe un'espressione abbastanza seducente, poiché, come vedremo, gli esercizi in questione contribuiscono fortemente alla terapia delle passioni e si riferiscono alla condotta della vita. Eppure anche questa sarebbe una visione troppo limitata. In realtà tali esercizi (il testo di G. Friedmann ce lo fa intravvedere) corrispondono a una trasformazione della visione del mondo e a una metamorfosi della personalità. La parola «spirituale» permette, a nostro avviso, di fare capire come tali esercizi siano opera non solo del pensiero, ma di tutto lo psichismo dell'individuo, e, soprattutto, rivela le vere dimensioni di questi esercizi: grazie ad essi, l'individuo si eleva alla vita dello Spirito oggettivo, ossia si colloca nella prospettiva del Tutto («eternarsi superandosi»).
Accettiamo, se è necessario, questa espressione «esercizi spirituali», dirà il nostro lettore. Ma si tratta degli Exercitia spiritualia di Ignazio da Loyola? Quale rapporto esiste fra le meditazioni di Ignazio e il programma di G. Friedmann: «Uscire dalla durata... eternarsi superandosi»? La nostra risposta, semplicissima, sarà: gli Exercitia spiritualia non sono che una versione cristiana di una tradizione greco-romana, di cui dovremo mostrare l'ampiezza. In primo luogo, il concetto e l'espressione «esercitium spirituale» sono testimoniati, ben prima di Ignazio da Loyola, nell'antico cristianesimo latino, e corrispondono all'ασκησις del cristianesimo greco. Ma, a sua volta, questa 
ασκησις, che non deve essere intesa nel senso di ascetismo, bensì come pratica di esercizi spirituali, esiste già nella tradizione filosofica dell'antichità. È dunque a quest'ultima che occorre infine risalire, per spiegare l'origine e il significato di questo concetto di esercizio spirituale che è sempre vivo, come testimonia G. Friedmann, nella coscienza contemporanea. Il presente studio non vorrebbe solo ricordare l'esistenza di esercizi spirituali nell'antichità greco-latina, vorrebbe soprattutto precisare l'intera portata e importanza di tale fenomeno, e mostrare le conseguenze che ne derivano per la comprensione del pensiero antico e della filosofia stessa.

1. Imparare a vivere

È nelle scuole di filosofia ellenistiche e romane che è più facile osservare il fenomeno. Per esempio gli stoici lo dichiarano esplicitamente: per loro la filosofia è un «esercizio». Ai loro occhi la filosofia non consiste nell'insegnamento di una teoria astratta, e meno ancora in un'esegesi di testi, ma in un'arte di vivere, in un atteggiamento concreto, in uno stile di vita determinato, che impegna tutta l'esistenza. L'atto filosofico non si situa solo nell'ordine della conoscenza, ma nell'ordine del «Sé» e dell'essere: è un progresso che ci fa essere più pienamente, che ci rende migliori. È una conversione che sconvolge la vita intera, che cambia l'essere di colui che la compie. Lo fa passare dallo stato di una vita inautentica, oscurata dall'incoscienza, rosa dalla cura, dalle preoccupazioni, allo stato di una vita autentica, dove l'uomo raggiunge la coscienza di sé, la visione esatta del mondo, la pace e la libertà interiori.
Per tutte le scuole filosofiche, la principale causa di sofferenza, di disordine, di incoscienza, per l'uomo, è costituita dalle passioni: desideri disordinati, timori esagerati. Il dominio della cura, delle preoccupazioni, gli impedisce di vivere veramente. La filosofia appare dunque in primo luogo come una terapia delle passioni («Sforzarsi di spogliarsi delle proprie passioni», scrive G. Friedmann). Ogni scuola ha il metodo terapeutico suo proprio, ma tutte collegano questa terapia a una trasformazione profonda della maniera di vedere e di essere dell'individuo. Gli esercizi spirituali avranno precisamente lo scopo di realizzare tale trasformazione.
Prendiamo in primo luogo l'esempio degli stoici. Secondo loro, tutta l'infelicità dell'uomo deriva dal fatto che cerchino di conseguire o conservare beni che rischiano di non ottenere o di perdere, e che cerchino di evitare mali che spesso sono inevitabili. La filosofia educherà dunque l'uomo affinché non cerchi di conseguire che il bene che può ottenere, e affinché non cerchi di evitare che il male che può evitare.
Questo bene che si può sempre ottenere, questo male che si può sempre evitare, devono, per essere tali, dipendere unicamente dalla libertà dell'uomo: sono dunque il bene morale e il male morale. Essi soltanto dipendono da noi, tutto il resto non dipende da noi. Dunque il resto, ciò che non dipende da noi, corrisponde alla concatenazione necessaria delle cause e degli effetti che sfugge alla nostra libertà. Ci deve essere indifferente, nel senso che non dobbiamo introdurvi differenza alcuna, ma accettarlo tutto intero in quanto è voluto dal destino. È il dominio della natura. Si tratta dunque di un totale rovesciamento della maniera abituale di vedere le cose. Si passa da una visione «umana» della realtà, visione per cui i valori dipendono dalle passioni, a una visione «naturale» delle cose che colloca ogni evento nella prospettiva della natura universale.
Questo cambiamento di visione è difficile. È precisamente lí che devono intervenire gli esercizi spirituali, al fine di operare a poco a poco la trasformazione interiore che è indispensabile. Non possediamo nessun trattato sistematico che codifichi un insegnamento e una tecnica degli esercizi spirituali. Tuttavia le allusioni all'una o all'altra di queste attività interiori sono molto frequenti negli scritti dell'epoca ellenistica e romana. Se ne deve trarre la conclusione che tali esercizi erano ben noti, che bastava alludervi, perché appartenevano alla vita quotidiana delle scuole filosofiche, e dunque facevano parte di un insegnamento orale tradizionale.
Grazie a Filone di Alessandria, possediamo nondimeno due elenchi di esercizi. Non coincidono perfettamente, ma hanno il merito di offrirci un panorama abbastanza completo di una terapia filosofica di ispirazione stoico-platonica. Una di queste liste elenca: la ricerca (ζητησις), l'esame approfondito (σκεψις), la lettura, l'ascolto, l'attenzione (πρσοχη), il dominio di sé (εγρατεια), l'indifferenza alle cose indifferenti. L'altra nomina successivamente: le letture, le meditazioni (μελεται), le terapie delle passioni, i ricordi di ciò che è bene, il dominio di sé (
εγρατεια), il compimento dei doveri. Con l'aiuto di questi elenchi, potremo fare una breve descrizione degli esercizi spirituali stoici, studiando successivamente i gruppi seguenti: anzitutto l'attenzione, poi le meditazioni e i «ricordi di ciò che è bene», poi quegli esercizi più intellettuali che sono la lettura, l'ascolto, la ricerca, l'esame approfondito, infine quegli esercizi più attivi che sono il dominio di sé, il compimento dei doveri, l'indifferenza alle cose indifferenti.
L'attenzione (
πρσοχη) è l'atteggiamento spirituale fondamentale dello stoico. Sta in una vigilanza e una presenza di spirito continue, una coscienza di sé sempre desta, una costante tensione dello spirito. Grazie ad essa il filosofo sa e vuole pienamente ciò che fa in ogni istante. Grazie a questa vigilanza dello spirito, la regola di vita fondamentale, ossia la distinzione fra ciò che dipende da noi e quello che non dipende da noi, è sempre «sottomano» (προχειρον). È essenziale allo stoicismo (come d'altronde all'epicureismo) l'istanza di fornire ai suoi adepti un principio fondamentale, estremamente semplice e chiaro, formulabile in poche parole, precisamente affinché tale principio possa restare facilmente presente alla mente ed essere applicato con la sicurezza e la costanza di un riflesso: «Tu non devi separarti da tali principi né quando dormi né quando ti alzi né quando mangi o bevi o ti intrattieni con gli uomini». Questa stessa vigilanza mentale permette di applicare la regola fondamentale alle situazioni particolari della vita, e di fare sempre «a proposito» ciò che si fa. Si può anche definire tale vigilanza come la concentrazione sul momento presente: «In tutte le cose e in ogni istante, dipende da te compiacerti devotamente di ciò che accade presentemente, comportarti con giustizia con gli uomini presenti ed esaminare con metodo la rappresentazione presente, per non ammettere nel pensiero nulla che sia inammissibile». Questa attenzione al momento presente è in qualche modo il segreto degli esercizi spirituali. Libera dalla passione che è sempre provocata dal passato o dal futuro che non dipendono da noi; facilita la vigilanza concentrandola sul minuscolo momento presente, sempre padroneggiabile, sempre sopportabile, nella sua esiguità; infine apre la nostra coscienza alla coscienza cosmica rendendoci attenti al valore infinito di ogni istante, facendoci accettare ogni momento dell'esistenza nella prospettiva della legge universale del κοσμος.
L'attenzione (
πρσοχη) permette di rispondere immediatamente agli eventi come a domande che ci fossero bruscamente poste. A tale scopo occorre che i principi fondamentali siano sempre «sottomano» (προχειρονv). Si tratta di impregnarsi della regola di vita (κανων) applicandola col pensiero alle diverse circostanze della vita, così come si assimila, mediante esercizi, una regola di grammatica o di aritmetica, applicandola a casi particolari. Ma qui non si tratta di un semplice sapere, si tratta di una trasformazione della personalità. L'immaginazione e l'affettività devono essere associate all'esercizio del pensiero. Tutti i mezzi psicagogici della retorica, tutti i metodi di amplificazione devono essere qui mobilitati. Si tratta di formulare a se stessi la regola di vita nella maniera più viva, più concreta, occorre «mettersi davanti agli occhi» gli eventi della vita, visti alla luce della regola fondamentale. Tale è l'esercizio di memorizzazione (μνημη) e di meditazione (μελετη) della regola di vita.
Questo esercizio di meditazione permetterà di essere pronti nel momento in cui sorgerà una circostanza inattesa, e forse drammatica. Ci si rappresenteranno in anticipo le difficoltà della vita (sarà la «praemeditatio malorum»): la povertà, la sofferenza, la morte; le si guarderanno in faccia, ricordando come non siano dei mali, poiché non dipendono da noi; si fisseranno nella propria memoria le massime icastiche che, giunto il momento, ci aiuteranno ad accettare quegli eventi che fanno parte del corso della natura. Si avranno dunque «sottomano» tali massime e sentenze. Saranno formule o argomentazioni persuasive (επιλογισμοι) che si potranno dire a se stessi nelle circostanze difficili, per arrestare un moto di timore o di collera o di tristezza. Al mattino, si esaminerà in anticipo ciò che si deve fare nel corso della giornata, e si fisseranno in anticipo i principi che dirigeranno e ispireranno le azioni. Alla sera il soggetto si esaminerà nuovamente, per rendersi conto delle colpe o dei progressi compiuti. Si esamineranno anche i propri sogni.
Come si può vedere, l'esercizio della meditazione si sforza di padroneggiare il discorso interno, per renderlo coerente, per ordinarlo a partire da quel principio semplice e universale che è la distinzione fra ciò che dipende da noi e ciò che non dipende da noi, fra la libertà e la natura. Con il dialogo con se stesso o con altri, anche scrivendo, colui che vuole progredire si sforza di «condurre con ordine i suoi pensieri» e di approdare così a una trasformazione totale della sua rappresentazione del mondo, della sua atmosfera interiore, ma anche del suo comportamento esterno. Tali metodi rivelano una grande conoscenza del potere terapeutico della parola.
Questo esercizio di meditazione e di memorizzazione chiede di essere alimentato. È qui che incontriamo gli esercizi più propriamente intellettuali elencati da Filone: la lettura, l'ascolto, la ricerca, l'esame approfondito. La meditazione si nutrirà in un modo ancora abbastanza semplice della lettura delle sentenze dei poeti e dei filosofi o degli apoftegmi. Ma la lettura potrà anche essere la spiegazione di testi propriamente filosofici, di opere redatte dai maestri della scuola. E potrà essere fatta o ascoltata nell'ambito dell'insegnamento filosofico impartito da un professore. Grazie a questo insegnamento, tutto l'edificio speculativo che sostiene e giustifica la regola fondamentale, tutte le ricerche fisiche e logiche, di cui essa è il riassunto, potranno essere studiati con precisione. La «ricerca» e l'«esame approfondito» saranno allora l'applicazione concreta di tale insegnamento. Per esempio ci si abituerà a definire gli oggetti e gli eventi in una prospettiva «fisica», dunque a vederli così come sono situati nel tutto cosmico. O ancora li si divideranno per riconoscere gli elementi a cui si riducono.
Vengono infine gli esercizi pratici destinati a creare abitudini. Alcuni sono ancora molto «interiori», ancora vicinissimi agli esercizi di pensiero, mentali di cui abbiamo parlato: tale è, per esempio, l'indifferenza alle cose indifferenti, che non è che l'applicazione della regola di vita fondamentale. Altri presuppongono comportamenti pratici: la padronanza di sé, il compimento dei doveri della vita sociale. Ritroviamo qui i temi di G. Friedmann: «Sforzarsi di spogliarsi delle proprie passioni, delle vanità, del desiderio di rumore intorno al proprio nome... Fuggire la maldicenza. Deporre la pietà e l'odio. Amare tutti gli uomini liberi». Troviamo, in Plutarco, un gran numero di trattati che si riferiscono a tali esercizi: De cohibenda ira, De tranquillitate animi, De fraterno amore, De amore prolis, De garrulitate, De curiositate, De cupiditate divitiarum, De vitioso pudore, De invidia et odio. Anche Seneca ha composto trattati dello stesso genere: De ira, De beneficiis, De tranquillitate animi, De otio. Un principio molto semplice è sempre raccomandato in questo, genere di esercizi: cominciare a esercitarsi nelle cose più facili, per acquisire a poco a poco un'abitudine stabile e solida.
Per gli stoici filosofare è dunque esercitarsi a «vivere», ossia a vivere coscientemente e liberamente: coscientemente, superando i limiti dell'individualità per riconoscersi parte di un 
κοσμοςc animato dalla ragione; liberamente, rinunciando a desiderare ciò che non dipende da noi e che ci sfugge, per non tenere che a ciò che da noi dipende: l'azione retta conforme alla ragione.
Si può ben capire che una filosofia come lo stoicismo, che esige vigilanza, energia, tensione dell'anima, consista essenzialmente di esercizi spirituali. Ma forse sorprenderà constatare che l'epicureismo, considerato abitualmente come una filosofia del piacere, fa posto non meno dello stoicismo a pratiche precise che non sono altro che esercizi spirituali. Il fatto è che per Epicuro, come per gli stoici, la filosofia è una terapia: «La nostra sola occupazione deve essere la nostra guarigione». Ma questa volta la guarigione consisterà nel liberare l'anima dalle preoccupazioni della vita, per condurla alla semplice gioia di esistere. L'infelicità degli uomini deriva dal fatto che temano cose che non devono essere temute e che desiderino cose che non è necessario desiderare e che sfuggono loro. così la loro vita si consuma nel turbamento dei timori ingiustificati e dei desideri insoddisfatti. Sono dunque privati di quello che è l'unico piacere autentico, del piacere di essere. È perciò che la fisica epicurea libererà dalla paura mostrando che gli dei non agiscono affatto sul corso del mondo, e che la morte, essendo una disgregazione totale, non fa parte della vita. L'etica epicurea libererà dai desideri insaziabili, distinguendo tra desideri naturali e necessari, desideri naturali e non necessari, e desideri né naturali né necessari. La soddisfazione dei primi, la rinuncia agli ultimi ed eventualmente ai secondi sarà sufficiente per assicurare l'assenza di turbamento e per fare comparire il benessere, la soddisfazione di esistere: «Grida la carne: non aver fame non aver sete non aver freddo; chi abbia queste cose e speri di averle, anche con Zeus può gareggiare in felicità». Donde quel sentimento di gratitudine, quasi inatteso, che illumina quella che potremmo chiamare la pietà epicurea verso le cose: «sia reso grazie alla beata natura che fece le cose necessarie facilmente procacciabili, quelle difficilmente procacciabili non necessarie».
Per approdare alla guarigione dell'anima saranno dunque necessari esercizi spirituali. Come gli stoici, gli epicurei assimileranno, mediteranno, «giorno e notte», brevi sentenze o riassunti che permetteranno di avere «sottomano» i dogmi fondamentali. Per esempio il famoso τετραφαρμακον, il rimedio quadruplice: «Gli dei non sono da temersi, la morte è senza rischio, il bene facile da acquistarsi, il male facile da sopportarsi». L'abbondanza di raccolte di sentenze epicuree corrisponde a questa esigenza dell'esercizio spirituale della meditazione. Ma – come nel caso degli stoici – lo studio dei grandi trattati dogmatici dei maestri della scuola sarà anche un esercizio destinato ad alimentare la meditazione, a meglio impregnare l'anima dell'intuizione fondamentale. Lo studio della fisica è così un esercizio spirituale particolarmente importante: «... si deve credere che della conoscenza dei fenomeni celesti... l'unico scopo è la tranquillità [= αταραξια] e la sicura fiducia, così come anche per le altre cose». La contemplazione del mondo fisico, l'immaginazione dell'infinito, elemento capitale della fisica epicurea, provocano un cambiamento totale della maniera di vedere le cose (l'universo chiuso si dilata all'infinito) e un piacere spirituale di qualità unica: «Le mura del mondo si aprono, vedo nel vuoto dell'universo prodursi le cose... Allora a questo spettacolo s'impossessa di me una sorta di piacere divino e un brivido, in quanto la natura, per il tuo potere – (ossia grazie ad Epicuro) – scoprendosi con tanta evidenza, è così liberata dai suoi veli in ogni sua parte».
Ma la meditazione, semplice o dotta, non è l'unico esercizio spirituale epicureo. Diversamente dalla tesi degli stoici, per guarire l'anima non bisogna esercitarla a tendersi, ma, al contrario, esercitarla a distendersi. Anziché rappresentarci i mali in anticipo, per prepararci a subirli, dobbiamo, al contrario, staccare la nostra mente dalla visione delle cose dolorose, e fissare lo sguardo sui piaceri. Occorre fare rivivere il ricordo dei piaceri passati e godere dei piaceri del presente, riconoscendo quanto siano grandi e gradevoli tali piaceri del presente. Si tratta di un esercizio spirituale ben determinato: non più la vigilanza continua dello stoico, che si sforza di essere sempre pronto a salvaguardare, ogni istante, la sua libertà morale, ma la scelta deliberata, sempre rinnovata, della distensione e della serenità, e una gratitudine profonda verso la natura e la vita che, se sappiamo trovarli, ci offrono incessantemente il piacere e la gioia. Analogamente, l'esercizio spirituale che consiste nello sforzo di vivere nel momento presente è molto diverso negli stoici e negli epicurei. Per i primi è tensione dello spirito, veglia costante della coscienza morale; per i secondi è, ancora una volta, invito alla distensione e alla serenità: la cura, la preoccupazione volta al futuro, che ci lacera, ci nasconde il valore incomparabile del semplice fatto di esistere: «Si nasce una volta, due volte non è concesso, ed è necessario non essere più in eterno; tu, pur non essendo padrone del tuo domani procrastini la gioia, ma la vita trascorre nell'indugiare e ciascuno di noi muore senza aver mai goduto della pace». È il famoso verso di Orazio: «carpe diem». «Mentre noi parliamo, è fuggito il tempo invidioso: cogli l'oggi, senza àlcuna fiducia nel futuro!». Infine per gli epicurei proprio il piacere è esercizio spirituale: piacere intellettuale della contemplazione della natura, pensiero del piacere passato e presente, infine piacere dell'amicizia. L'amicizia, nella comunità epicurea, ha anch'essa i suoi esercizi spirituali che si compiono in un'atmosfera lieta e distesa: la confessione pubblica delle proprie colpe, la correzione fraterna, legate all'esame di coscienza. Ma soprattutto l'amicizia stessa è in certo qual modo l'esercizio spirituale per eccellenza: «Ciascuno doveva tendere a creare l'atmosfera dove si espandevano i cuori. Si trattava anzitutto di essere felici, e l'affetto reciproco, la fiducia con cui si poggiava l'uno sull'altro contribuivano più di ogni altra cosa alla felicità»

2. Imparare a dialogare

Probabilmente la pratica degli esercizi spirituali si radica in tradizioni che risalgono a tempi immemorabili. Ma è la figura di Socrate a farla emergere nella coscienza occidentale, poiché questa figura è stata e rimane il richiamo che desta la coscienza morale. E notevole il fatto che questo richiamo risuoni in una certa forma di dialogo. Nel dialogo «socratico», la vera questione che è in gioco non è ciò di cui si parla, ma colui che parla: «Quando ci si avvicina molto a Socrate e ci si è addentrati nel dialogo con lui, anche se dapprima si è iniziato a parlare con lui di tutt'altro, di necessità egli ci trascina incessantemente in un discorso che presenta ogni specie di giri, di deviazioni, di tortuosità, finché non sí giunga a dovere rendere conto di sé, sia quanto al modo in cui si vive attualmente che a quello in cui si è vissuta la propria esistenza passata. Quando si è arrivati a questo punto, Socrate non vi lascerà prima di avere sottoposto tutto ciò alla prova del suo controllo, ben bene e bene a fondo. ... Io non vedo nessun male nel fatto che mi si ricordi che ho agito o che agisco in una maniera che non è buona. Colui che non lo evita sarà necessariamente più prudente per il resto della vita». Nel dialogo «socratico» l'interlocutore di Socrate non impara nulla, e Socrate non ha la pretesa di insegnargli qualcosa; d'altronde continua a ripetere, a chi vuole sentire, che la sola cosa che sappia è di non sapere nulla. Ma, come un tafano instancabile, Socrate assillai suoi interlocutori con domande che li mettono in questione, che li obbligano a fare attenzione a se stessi, a preoccuparsi di sé: «O tu che sei il migliore degli uomini, tu che sei ateniese, cittadino della più grande città e più rinomata per scienza e potenza, non ti vergogni tu di darti pensiero delle ricchezze per ammassarne quante più puoi, e della fama e degli onori; mentre del tuo pensiero (φρονεσις), della tua verità (αληθεια), della tua anima (ψυχη), che si tratterebbe di migliorare, tu non ti dai affatto pensiero né cura». La missione di Socrate consiste nell'invitare i suoi contemporanei a esaminare la loro coscienza, a preoccuparsi dei loro progressi interiori: «Non mi curo affatto di ciò di cui si cura la maggioranza delle persone, questioni di denaro, amministrazione dei beni, comandi militari, successi oratori in pubblico, magistrature, congiure, fazioni politiche. Mi sono impegnato, non in questo senso... ma in quello per cui, a ognuno di voi in particolare, arrecherò il massimo beneficio cercando di persuaderlo a preoccuparsi meno di ciò che ha che di ciò che è, per diventare eccellente e ragionevole tanto quanto è possibile». L'Alcibiade del Convito di Platone esprime così l'effetto esercitato su di lui dal dialogo con Socrate: «Socrate mi costringe a confessare a me stesso che, mentre sono così carente per tanti punti, persisto a non curarmi di me stesso... più volte ha fatto sì che mi trovassi in uno stato tale da non ritenere possibile vivere comportandomi come mi comporto».
Il dialogo socratico appare dunque come un esercizio spirituale praticato in comune che invita all'esercizio spirituale interiore, ossia all'esame di coscienza, all'attenzione a sé, insomma al famoso «Conosci te stesso». Se è difficile individuare il significato originario di questa formula, non resta meno vero che essa invita a un rapporto di sé con sé che costituisce il fondamento di ogni esercizio spirituale. Conoscere se stesso significa o conoscersi come non sapiente (vale a dire non come σοφος, ma come un 
φιλο-σοφος che in quanto tale cammina verso la sapienza, o conoscersi nel proprio essere essenziale (ossia separare ciò che non è noi da ciò che è noi stessi), oppure conoscersi nel proprio stato morale autentico (vale a dire esaminare la propria coscienza).
Maestro del dialogo con altri, Socrate – nel ritratto che ne tracciano Platone e Aristofane – pare essere anche un maestro del dialogo con sé, dunque un maestro nella pratica degli esercizi spirituali. Ci è presentato come capace di una straordinaria concentrazione mentale. Arriva in ritardo al convito di Agatone, perché, «applicando in qualche modo la sua mente a se stesso, era rimasto indietro». E Alcibiade racconta che, alla spedizione di Potidea, Socrate rimase in piedi un giorno e una notte, «concentrato nei suoi pensieri». Nelle Nuvole, anche Aristofane pare alludere a queste pratiche socratiche: «Medita adesso, e concentrati profondamente; con tutti i mezzi, avvolgiti su te stesso concentrandoti. Se cadi in qualche difficoltà, corri svelto in un altro punto... Non ricondurre sempre il tuo pensiero a te stesso, ma lascia che la tua mente prenda il volo nell'aria, come uno scarabeo che un filo trattiene per una zampa».
Questa pratica del dialogo con se stesso che è la meditazione sembra fosse in onore tra i discepoli di Socrate. Quando si chiese ad Antistene quale profitto avesse tratto dalla filosofia, rispose: «Quello che consiste nel poter conversare con me stesso». Questa intima connessione fra il dialogo con altri e il dialogo con sé ha un significato profondo. Solo colui che è capace di un vero incontro con altri è capace di un incontro autentico con se stesso, e l'inverso è ugualmente vero. Il dialogo non è davvero dialogo se non in presenza di altri e di sé. Da questo punto di vista, ogni esercizio spirituale è dialogico, nella misura in cui è esercizio di presenza autentico, a sé e agli altri.
È impossibile determinare la frontiera tra il dialogo «socratico» e il dialogo «platonico». Ma il dialogo platonico resta sempre «socratico» nella sua ispirazione, poiché è un esercizio intellettuale e, in definitiva, spirituale. Questa caratteristica del dialogo platonico deve essere sottolineata.
I dialoghi platonici sono esercizi-modelli. Modelli, poiché non stenografano dei dialoghi reali, sono invece composizioni letterarie che immaginano un dialogo ideale. Esercizi, precisamente perché sono dialoghi: abbiamo già intravvisto, a proposito di Socrate, il carattere dialogico di ogni esercizio spirituale. Un dialogo è un itinerario del pensiero la cui via è tracciata dall'accordo, costantemente mantenuto, fra una persona che interroga e una che risponde. Contrapponendo il suo metodo a quello dell'eristica, Platone sottolinea energicamente questo punto: «Quando due amici, come tu ed io, hanno voglia di discutere, occorre farlo in una maniera meno aspra e più dialettica. E mi pare che "più dialettica" significhi che non solo si danno risposte vere, ma che si fonda la propria risposta su ciò che l'interlocutore riconosce di sapere egli stesso». La dimensione dell'interlocutore è dunque essenziale. Impedisce al dialogo di essere un'esposizione teorica e dogmatica, e lo costringe a essere un esercizio concreto e pratico, precisamente perché non si tratta di esporre una dottrina, ma di condurre un interlocutore a un determinato atteggiamento mentale: è una lotta, amichevole ma reale. E ciò che accade in ogni esercizio spirituale - dobbiamo osservare: occorre fare cambiare a se stessi il punto di vista, l'atteggiamento, la convinzione, dunque dialogare con se stessi, dunque lottare con se stessi. È perciò che i metodi del dialogo platonico possiedono, in questa prospettiva; un interesse fondamentale: «Checché sia stato detto in proposito, il pensiero platonico non assomiglia affatto alla colomba leggera a cui non costa nulla lasciare il suolo per librarsi nello spazio puro dell'utopia... Ogni istante la colomba deve dibattersi contro l'anima di chi risponde, che è piena di piombo. Ogni elevazione è conquistata». Per vincere in questa lotta, non basta esporre la verità, non basta neanche dimostrarla, occorre persuadere, dunque utilizzare la psicagogia, l'arte di sedurre le anime; e, inoltre, non è sufficiente la retorica, che cerca di persuadere per così dire di lontano, con un discorso continuo; è necessaria anche e soprattutto la dialettica, che esige ogni momento l'accordo esplicito dell'interlocutore. La dialettica deve dunque scegliere abilmente una via indiretta, o, meglio, una serie di vie apparentemente divergenti, eppure convergenti, per portare l'interlocutore a scoprire le contraddizioni della propria posizione o ad ammettere una conclusione imprevista. I circuiti, i giri, i détours, le suddivisioni senza fine, le digressioni, le sottigliezze se non i cavilli, che disorientano il lettore moderno dei Dialoghi, sono destinati a fare percorrere un certo cammino all'interlocutore e al lettore antichi. Grazie ad essi, «a stento, ogni elemento (nomi, definizioni, immagini visive e percezioni) viene sfregato con gli altri», «ci si dedica a lungo ai problemi», «si vive con essi», finché non scaturisca la luce. Dunque ci si esercita pazientemente: «La misura di discussioni come queste è la vita intera, per le persone assennate». Ciò che conta non è la soluzione di un problema particolare, è il cammino percorso per raggiungerla, cammino dove l'interlocutore, il discepolo, il lettore, formano il loro pensiero, lo rendono più atto a scoprire da solo la verità («il dialogo vuole formare piuttosto che informare»: «– Se ci si interrogasse sulle scuole dove s'impara a leggere, diremmo che quando uno vi è chiamato a rispondere di quali lettere sia composto un nome qualsiasi, gli si fa fare questa ricerca in vista di quel solo problema, o perché diventi più capace di risolvere tutti i possibili problemi di grammatica? – Tutti i problemi possibili, evidentemente. – E a che scopo d'altra parte noi ora conduciamo la ricerca sull'uomo politico? Forse ce la siamo proposta proprio per interesse allo stesso uomo politico, piuttosto che per diventare migliori dialettici in tutti gli argomenti possibili? – Anche qui è chiaro, per diventare migliori dialettici in tutti gli argomenti possibili». Il tema del dialogo dunque conta meno del metodo che vi è applicato, la soluzione del problema vale meno del cammino percorso in comune per risolverlo. Non si tratta di trovare la soluzione per primi e più in fretta, ma di esercitarsi nella maniera più efficace possibile nell'applicazione concreta di un metodo: «Quanto alla soluzione del problema posto, trovarla nel modo più facile e più rapido possibile non deve essere che una preoccupazione secondaria e non lo scopo principale, se prestiamo fede alla ragione che ci prescrive di apprezzare e di considerare principale valore piuttosto il metodo che insegna a suddividere secondo le specie, e, anche quando un discorso fosse molto lungo, di svilupparlo decisamente, se deve rendere l'ascoltatore più capace di trovare quello che cerca».
Esercizio dialettico, il dialogo platonico corrisponde esattamente a un esercizio spirituale, per due motivi. In primo luogo, porta l'interlocutore (e il lettore) alla conversione, discretamente ma realmente. Infatti il dialogo non è possibile che se l'interlocutore vuole veramente dialogare, ossia se vuole realmente trovare la verità, se vuole, con tutta la sua anima, il bene, se accetta di sottomettersi alle esigenze razionali del logos. Il suo atto di fede deve corrispondere a quello di Socrate: «E perché ho fede nella verità che sono deciso a cercare con te che cosa sia la virtú». Lo sforzo dialettico di fatto è una salita comune verso la verità e verso il bene «che ogni anima desidera». D'altra parte, agli occhi di Platone ogni esercizio dialettico, precisamente perché è sottomissione alle esigenze del logos, esercizio del pensiero puro, allontana l'anima dal sensibile e le permette di convertirsi alla ricerca del bene. E un itinerario dello spirito verso il divino.

3. Imparare a morire

C'è un misterioso legame fra il linguaggio e la morte. Era uno dei temi preferiti del pensiero del compianto Brice Parain: «Il linguaggio non si sviluppa che sulla morte degli individui». Il fatto è che il logos rappresenta un'esigenza di razionalità universale (presuppone un mondo di norme immutabili) che si contrappone al perpetuo divenire e ai mutevoli appetiti della vita corporea individuale. In questo conflitto, colui che resta fedele al logos rischia di perdere la vita. Fu la storia di Socrate. Socrate è morto per la sua fedeltà al logos.
La morte di Socrate è l'avvenimento radicale che fonda il platonismo. E infatti l'essenza del platonismo non sta forse nell'affermazione che la ragione ultima degli esseri è il Bene? Come dice un neoplatonico del secolo « Se tutti gli esseri non sono esseri che per la bontà e se partecipano del Bene, è necessario che il primo principio sia un Bene che trascende l'essere. Ecco una prova eminente: le anime di valore disprezzano l'essere a causa del Bene, quando affrontano spontaneamente il pericolo per la loro patria, per coloro che amano o per la virtù». Socrate si è esposto alla morte per amore della virtù. Ha preferito morire, piuttosto che rinunciare alle esigenze della sua coscienza'; ha dunque preferito il Bene all'essere, ha preferito la coscienza e il pensiero alla vita del suo corpo. Questa scelta è precisamente la scelta filosofica fondamentale, e si può dunque dire che la filosofia è esercizio e tirocinio della morte, se è vero che subordina la volontà di vivere del corpo alle esigenze superiori del pensiero. Dice il Socrate del Fedone: «E dunque vero che coloro i quali filosofano dirittamente si esercitano a morire, e che la morte è per loro cosa meno paurosa che per chiunque altro degli uomini». La morte di cui si tratta qui è una separazione spirituale dell'anima e del corpo: «... adoperarsi in ogni modo di tenere separata l'anima dal corpo, e abituarla a raccogliersi e a racchiudersi in se medesima fuori da ogni elemento corporeo, e a restarsene, per quanto è possibile, anche nella vita presente, come nella futura, tutta solitaria in se stessa, intesa a questa sua liberazione dal corpo come da catene». Tale è l'esercizio spirituale platonico. Ma bisogna comprenderlo bene, e non separarlo, specialmente, dalla morte filosofica di Socrate la cui presenza domina tutto il Fedone. La separazione di anima e corpo di cui si tratta qui – quale che sia stata la sua preistoria – non ha assolutamente più nulla a che fare con uno stato di trance o di catalessia, in cui il corpo perderebbe coscienza e grazie a cui l'anima sarebbe in uno stato di veggenza soprannaturale. Tutti gli sviluppi del Fedone che precedono e che seguono il nostro passo mostrano come si tratti, per l'anima, di liberarsi, di spogliarsi dalle passioni legate ai sensi corporei, per acquistare l'indipendenza del pensiero. Di fatto ci rappresenteremo meglio questo esercizio spirituale se lo intenderemo come uno sforzo per liberarsi dal punto di vista.parziale e passionale, legato al corpo e ai sensi, e per elevarsi al punto di vista universale e normativo del pensiero, per sottomettersi alle esigenze del logos e alla norma del bene. Esercitarsi a morire significa esercitarsi a morire alla propria individualità, alle proprie passioni, per vedere le cose nella prospettiva dell'universalità e dell'oggettività. Evidentemente un esercizio siffatto presuppone una concentrazione del pensiero in se stesso, uno sforzo di meditazione, un dialogo interiore. Platone vi allude nella Repubblica, ancora una volta a proposito della tirannia delle passioni individuali. Questa tirannia del desiderio si rivela in modo particolarissimo nel sogno, dice: «La parte ferina e selvaggia del nostro essere... non esita a tentare, nell'immaginazione, di unirsi alla propria madre o a qualunque altro essere, uomo, dio, bestia; non c'è assassinio di cui non si macchi, né alimento da cui si astenga; insomma, non c'è follia né spudoratezza che si vieti». Per liberarsi da questa tirannia, si ricorrerà a un esercizio spirituale dello stesso tipo di quello che è stato descritto nel Fedone: «Non cedere al sonno che dopo avere destata la parte razionale del nostro essere e averla nutrita con bei pensieri e belle ricerche, concentrandoci su noi stessi, dopo avere anche calmata la parte appetitiva del nostro essere... e ammansita la parte irascibile; dopo avere dunque placate queste due ultime e stimolata la prima, in cui ha sede il pensiero, è allora che l'anima meglio raggiunge la verità».
Ci sia consentita una breve digressione. Presentare la filosofia come un «esercizio della morte» era una decisione estremamente importante. L'interlocutore di Socrate nel Fedone lo fa notare immediatamente: ciò si presta abbastanza alla derisione, e i profani avranno ragione di trattare i filosofi da «moribondi» che, se sono messi a morte, hanno meritato la loro sorte. Nondimeno, per chi prenda sul serio la filosofia, questa formula platonica è di una verità profondissima; d'altronde ha avuto un'eco immensa nella filosofia occidentale; l'hanno ripresa persino avversari del platonismo come Epicuro e Heidegger. Di fronte a questa formula, sembrano ben vuote tutte le chiacchiere filosofiche, del passato e di oggi. «Né il sole né la morte si possono guardare fissamente». Vi si avventurano solo i filosofi; sotto le loro rappresentazioni diverse della morte, si ritrova un'unica virtù: la lucidità. Per Platone, il fatto di essere strappato alla vita sensibile non può spaventare chi abbia già assaggiato l'immortalità del pensiero. Per l'epicureo, il pensiero della morte è coscienza della finitezza dell'esistenza, e quest'ultima rende ogni istante infinitamente prezioso; ogni momento della vita sorge carico di un valore incommensurabile: «Supponi che ogni giorno che brilla sia per te l'ultimo; sarà allora con gratitudine che riceverai ogni ora insperata». Lo stoico ritroverà, in questo tirocinio della morte, il tirocinio della libertà. Come dice Montaigne, copiando Seneca, in uno dei suoi saggi più celebri (Che filosofare è imparare a morire): «Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire». Il pensiero della morte trasforma il tono e il livello della vita interiore: «Che la morte ti sia davanti agli occhi ogni giorno, - dice Epitteto, - e non avrai mai nessun pensiero basso né alcun desiderio eccessivo». Questo tema filosofico si ricollega a quello del valore infinito del momento presente che occorre vivere come se fosse insieme il primo e l'ultimo. Ancora per Heidegger, la filosofia è «esercizio della morte»: l'autenticità dell'esistenza sta nella lucida anticipazione della morte. A ciascuno la scelta fra la lucidità e il divertimento.
Per Platone, l'esercizio della morte è un esercizio spirituale che consiste nel cambiare di prospettiva, nel passare da una visione delle cose dominata dalle passioni individuali a una rappresentazione del mondo governata dall'universalità e dall'oggettività del pensiero. È una conversione (μεταστροφη) che si realizza con la totalità dell'anima. In questa prospettiva del pensiero puro, le cose «umane, troppo umane», appaiono ben piccole. E un tema fondamentale degli esercizi spirituali platonici. Consentirà di conservare la serenità nella sventura: «La legge razionale dice che nulla è più bello che conservare la maggior calma possibile nella sventura e non rivoltarsi, poiché non si sa che cosa vi sia di bene e di male in simili accidenti, e poi non si guadagna nulla a irritarsi, insegna che nessuna delle cose umane merita che le si attribuisca grande importanza, e che il dolore ostacola ciò che in siffatte circostanze dovrebbe venire al più presto in nostro soccorso. - A che cosa ti riferisci?, chiese. - Alla riflessione sull'accaduto, risposi. Qui come nel gioco dei dadi, contro i colpi del caso occorre ristabilire la propria posizione con i mezzi che la ragione dimostra essere i migliori... Bisogna abituare sempre l'anima a medicare e a raddrizzare con la massima prontezza ciò che è malato e caduto, e a eliminare i piagnistei con l'applicazione del rimedio». Si potrebbe dire che questo esercizio spirituale è già stoico, poiché vi vediamo l'impiego di principi e di massime destinati ad «abituare l'anima» e a liberarla dalle passioni. Tra queste massime, svolge un ruolo importante quella che afferma la piccolezza delle cose umane. Ma non è precisamente altro che la conseguenza del movimento, descritto nel Fedone, per cui l'anima si eleva al livello del pensiero puro, ossia dall'individualità all'universalità. Nel testo che citeremo ora, sono legati molto chiaramente insieme l'idea della piccolezza delle cose umane, il disprezzo della morte e la visione universale che è propria del pensiero puro: «- C'è poi da esaminare un altro punto, quando devi distinguere le nature filosofiche da quelle che non lo sono. - Quale? - Che l'anima non celi alcuna bassezza, poiché la piccineria è incompatibile con un'anima che deve incessantemente tendere ad abbracciare l'insieme e l'universalità del divino e dell'umano... - Ora ritieni che l'anima a cui appartengono l'elevatezza del pensiero e la contemplazione della totalità del tempo e dell'essere faccia gran caso della vita umana?... - Quindi un uomo siffatto non riterrà che la morte sia una cosa temibile». Dunque qui l'«esercizio della morte» è legato alla contemplazione della totalità, all'elevazione del pensiero, che passa dalla soggettività individuale e passionale all'oggettività della prospettiva universale, ossia all'esercizio del pensiero puro. Questa caratteristica del filosofo riceve qui per la prima volta un nome che conserverà in tutta la tradizione antica: la grandezza d'animo. La grandezza d'animo è il frutto dell'universalità del pensiero. Tutto il lavoro speculativo e contemplativo del filosofo diventa così esercizio spirituale nella misura in cui, elevando il pensiero fino alla prospettiva del tutto, lo libera dalle illusioni dell'individualità («Uscire dalla durata... eternarsi superandosi», dice G. Friedmann).
In questa prospettiva, la fisica stessa diventa un esercizio spirituale che – precisiamo – può situarsi a tre livelli. In primo luogo la fisica può essere un'attività contemplativa che ha il proprio fine in se stessa e procura all'anima, liberandola dalle preoccupazioni quotidiane, gioia e serenità. E lo spirito della fisica aristotelica: «La natura riserva a chi studia le sue produzioni piaceri meravigliosi, purché sia capace di risalire alle cause e sia veramente filosofo». In questa contemplazione della natura, l'epicureo Lucrezio trovava una «voluttà divina», come abbiamo visto. Per lo stoico Epitteto, il senso della nostra esistenza risiede in questa contemplazione: siamo stati messi al mondo per contemplare le opere divine, e non bisogna morire senza avere visto tali meraviglie ed essere vissuti in armonia con la natura. Evidentemente la precisione scientifica di una siffatta contemplazione della natura varia molto da una filosofia all'altra; la fisica aristotelica è lontana dal sentimento della natura che si trova per esempio in Filone d'Alessandria e in Plutarco. Ma è interessante notare come gli ultimi due autori parlino con entusiasmo della loro fisica immaginativa. Dice Filone: «Tutti coloro che... si esercitano nella saggezza... contemplano la natura e tutto ciò che si trova in essa, esplorano attentamente la terra, il mare, l'aria, il cielo e tutte le nature che vi si trovano, accompagnano col pensiero la luna, il sole, le evoluzioni degli altri astri erranti o fissi, e, se i loro corpi restano sulla terra, danno ali alle loro anime affinché, elevandosi nell'etere, osservino le potenze che vi si trovano, come si addice a coloro che sono divenuti realmente cittadini del mondo... così, colmi di perfetta eccellenza, abituati a non tenere più conto dei mali del corpo e dei mali esterni... è ovvio che per gli uomini siffatti, che trovano il piacere nella virtù, tutta la vita sia una festa». Le ultime parole sono un'allusione a un aforisma di Diogene il Cinico che è citato da Plutarco: «Un uomo dabbene non celebra forse una festa ogni giorno?» «E una festa splendida, – continua Plutarco, – se siamo virtuosi. Il mondo è il più sacro e il più divino di tutti i templi. L'uomo vi è introdotto dalla nascita per essere lo spettatore non già di statue artificiali e inanimate, ma di quelle immagini sensibili delle essenze intelligibili... che sono il sole, la luna, le stelle, i fiumi la cui acqua scorre sempre nuova e la terra che fa crescere l'alimento delle piante e degli animali. Una vita che sia iniziazione a questi misteri e rivelazione perfetta deve essere colma di lode e di gioia».
Ma questo esercizio spirituale della fisica può anche assumere la forma di un «sorvolo» immaginativo, che fa attribuire scarsa importanza alle cose umane. Si trova questo tema in Marco Aurelio: «Supponi di trovarti improvvisamente a un'eccelsa altezza, e di contemplare di lassù le cose umane e la loro diversità; quanto le disprezzeresti quando vedessi in un solo colpo d'occhio l'immenso spazio popolato degli esseri dell'aria e dell'etere! ». Questo tema si trova in Seneca: «L'anima raggiunge la pienezza della felicità quando, dopo avere calpestato tutto ciò che è male, raggiunge l'eccelsa altezza e penetra fin nelle pieghe più riposte della natura. È allora, quando vaga tra gli astri, che si compiace di ridere delle pavimentazioni dei ricchi... Ma tutto questo lusso dei ricchi, l'anima non può disprezzarlo prima di avere fatto il giro del mondo, di avere gettato dall'alto del cielo uno sguardo sdegnoso sulla stretta terra, ed essersi detto: È dunque quello il punto che tanti popoli si dividono col ferro e col fuoco? Quanto sono ridicole le frontiere che gli uomini stabiliscono tra di essi!».
Si riconoscerà un terzo grado di questo esercizio spirituale nella visione della totalità, nell'elevazione del pensiero al livello del pensiero universale; qui siamo più vicini al tema platonico che abbiamo assunto come punto di partenza: «Non limitarti più, - scrive Marco Aurelio, - a co-respirare l'aria che ti circonda, ma d'ora in poi co-pensa col pensiero che ingloba tutte le cose. Poiché la forza del pensiero non è meno diffusa ovunque, non s'insinua meno in ogni essere capace di lasciarla penetrare, che l'aria in colui che è capace di respirarla... Un immenso campo libero si schiuderà davanti a te, poiché tu col pensiero abbracci la totalità dell'universo, percorri l'eternità della durata». E evidentemente a questo livello che si può dire che si muore alla propria individualità per accedere insieme all'interiorità della coscienza e all'universalità del pensiero del tutto: «Tu eri già il tutto, - scrive Plotino, - ma, poiché qualche cosa ti si è aggiunta in più del tutto, tu sei diventato minore del tutto per questa aggiunta stessa. Tale aggiunta non aveva nulla di positivo (infatti che cosa si potrebbe aggiungere a ciò che è tutto?), era interamente negativa. Chi diventa qualcuno non è più il tutto, gli aggiunge una negazione. E ciò dura finché non si scarti tale negazione. Dunque tu ingrandisci rimuovendo tutto ciò che è altro dal tutto: se lo rimuovi, il tutto ti sarà presente... Non ha bisogno di venire per essere presente. Se non è presente, è perché tu ti sei allontanato da lui. Allontanarsi, non significa lasciarlo per andare altrove, poiché è li; ma è voltargli le spalle, quando è presente».
Con Plotino torniamo al platonismo. La tradizione platonica è stata fedele agli esercizi spirituali di Platone. Si può solo precisare che, nel neoplatonismo, il concetto di progresso spirituale svolge un ruolo molto più esplicito, rispetto allo stesso Platone. Le tappe del progresso spirituale corrispondono a gradi di virtù la cui gerarchia è descritta in più testi neoplatonici e costituisce segnatamente lo schema della Vita di Proclo scritta da Marino di Neapoli. L'editore degli scritti di Plotino, Porfirio, ha classificato sistematicamente le opere del suo maestro secondo le tappe di tale progresso spirituale: purificazione dell'anima col distacco dal corpo, poi conoscenza e superamento del mondo sensibile, infine conversione verso l'Intelletto e l'Uno.
La realizzazione di tale progresso spirituale esige dunque esercizi. Porfirio riassume abbastanza bene la tradizione neoplatonica dicendo che ci si deve dedicare a due esercizi (
μελεται): da un lato si deve allontanare il pensiero da tutto ciò che è mortale e carnale, d'altro lato ci si deve volgere verso l'attività dell'Intelletto. Nel neoplatonismo, il primo esercizio comprende aspetti fortemente ascetici nel senso moderno del termine, e in particolare un regime vegetariano. Nello stesso contesto, Porfirio insiste fortemente sull'importanza degli esercizi spirituali: la contemplazione (θεωρια) che arreca la felicità non consiste in un'accumulazione di discorsi e di insegnamenti astratti, neanche se vertono sugli esseri veri e autentici, ma occorre aggiungere uno sforzo affinché tali insegnamenti diventino in noi «natura e vita».
L'importanza degli esercizi spirituali nella filosofia di Plotino è capitale. Forse il migliore esempio si troverà nel modo in cui Plotino definisce l'essenza dell'anima e la sua immortalità. Se si dubita dell'immaterialità e dell'immortalità dell'anima, è perché si è abituati a vedere l'anima colma di desideri irrazionali, di sentimenti violenti e di passioni. «Ma se si vuole conoscere l'essenza di una cosa, occorre esaminarla considerandola allo stato puro, poiché ogni aggiunta a una cosa è un ostacolo alla conoscenza di questa cosa. Esaminala dunque togliendole ciò che non è essa stessa, o piuttosto togliti le tue macchie ed esaminati, e avrai fede nella tua immortalità». «Se non vedi ancora la tua propria bellezza, fai come lo scultore di una statua che deve diventare bella: toglie questo, raschia quello, rende liscio un certo posto, ne pulisce un altro, fino a fare apparire il bel volto nella statua. Allo stesso modo anche tu togli tutto ciò che è superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purificando tutto ciò che è tenebroso per renderlo brillante, e non cessare di scolpire la tua propria statua finché non brilli in te la chiarezza divina della virtù... Se sei diventato questo,... senza avere più, interiormente, qualcosa di estraneo che sia mescolato a te,... se ti vedi divenuto tale,... guarda tendendo il tuo sguardo. Poiché solo un occhio siffatto può contemplare la Bellezza». Vediamo qui come la dimostrazione dell'immortalità dell'anima si muti in esperienza. Solo colui che si libera e purifica dalle passioni - che nascondono l'autentica realtà dell'anima - può comprendere come l'anima sia immateriale e immortale. Qui la conoscenza è esercizio spirituale. Solo chi compie la propria purificazione morale può comprendere. È ancora agli esercizi spirituali che bisognerà ricorrere per conoscere non più l'anima, ma l'Intelletto, e soprattutto l'Uno principio di tutte le cose. In quest'ultimo caso, Plotino distingue nettamente fra l'«insegnamento» che parla, in maniera esteriore, del suo oggetto, e il «cammino» che conduce realmente alla conoscenza concreta del Bene: «Ci danno un insegnamento che lo concerne le analogie, le negazioni, la conoscenza delle cose che derivano da lui; ci conducono a lui le purificazioni, le virtù, i riordinamenti interiori, l'ascesa nel mondo intelligibile». Numerose sono le pagine di Plotino che descrivono tali esercizi spirituali che non hanno solo lo scopo di conoscere il Bene, ma anche quello di diventare identici con lui, in un'esplosione totale dell'individualità. Si deve evitare di pensare a una forma determinata, spogliare l'anima di ogni forma particolare, scartare tutte le cose. Allora si compie, in un lampo fuggevole, la metamorfosi dell'Io: «Allora il veggente non vede più il suo oggetto, poiché, in quell'istante, non se ne distingue più; non si rappresenta più due cose, ma in qualche modo è diventato altro, non è più se stesso né a se stesso, ma è uno con l'Uno, come il centro di un cerchio coincide con un altro centro».

4. Imparare a leggere

Brevemente, troppo brevemente, abbiamo descritto la ricchezza e la varietà della pratica degli esercizi spirituali nell'antichità. Abbiamo potuto constatare come presentassero apparentemente una certa diversità: gli uni non erano che pratiche destinate ad acquistare buone abitudini morali (gli εθισμοι di Plutarco per frenare la curiosità, la collera o la chiacchiera), altri esigevano una forte concentrazione mentale (le meditazioni, specialmente nella tradizione platonica), altri volgevano l'anima verso il cosmo (la contemplazione della natura, comune a tutte queste scuole), infine altri, rari ed eccezionali, approdavano a una trasfigurazione della personalità (le esperienze di Plotino). Abbiamo potuto parimenti vedere come le tonalità affettive e i contenuti concettuali di tali esercizi fossero molto diversi a seconda delle scuole: mobilitazione dell'energia e consenso al destino per gli stoici, distensione e distacco per gli epicurei, concentrazione mentale e rinuncia al sensibile per i platonici.
Tuttavia, sotto questa apparente diversità, c'è un'unità profonda, nei mezzi impiegati, e nel fine cercato. I mezzi impiegati sono le tecniche dialettiche e retoriche di persuasione, le prove di padroneggiamento del linguaggio interiore, la concentrazione mentale. Il fine cercato in tali esercizi da tutte le scuole filosofiche è il miglioramento, la realizzazione di sé. Tutte le scuole concordano nell'ammettere che l'uomo, prima della conversione filosofica, si trova in uno stato di inquietudine infelice, che è vittima della cura, delle preoccupazioni, lacerato dalle passioni, che non vive veramente, che non è se stesso. Tutte le scuole concordano anche nel credere che l'uomo possa essere liberato da questo stato, che possa accedere alla vera vita, migliorare, trasformarsi, raggiungere uno stato di perfezione. Gli esercizi spirituali sono precisamente destinati a questa educazione di sé, a questa παιδεια, che ci insegnerà a vivere non già conforme ai pregiudizi umani e alle convenzioni sociali (poiché la vita sociale è essa stessa un prodotto delle passioni), ma conforme alla natura dell'uomo, che non è altro che la ragione. Tutte le scuole, ciascuna a suo modo, credono dunque nella libertà della volontà, grazie a cui l'uomo ha la possibilità di modificare se stesso, di migliorare, di realizzarsi. Alla base di questo c'è un parallelismo tra esercizio fisico ed esercizio spirituale: come, con esercizi fisici ripetuti, l'atleta dà al suo corpo una forma e una forza nuove, così, con gli esercizi spirituali, il filosofo sviluppa la sua forza d'animo, trasforma la sua atmosfera interiore, cambia la sua visione del mondo e infine l'intero suo essere. L'analogia poteva parere tanto più evidente in quanto proprio nel γιμνασιον, ossia nel luogo dove si praticavano gli esercizi fisici, si tenevano anche le lezioni di filosofia, ossia si praticava l'allenamento alla ginnastica spirituale.
Un'espressione plotiniana simboleggia bene questa finalità degli esercizi spirituali, questa ricerca della realizzazione di sé: scolpire la propria statua. D'altronde spesso è fraintesa, poiché si immagina facilmente che tale espressione corrisponda a una specie di estetismo morale; significherebbe: assumere una certa posa, scegliere un atteggiamento, costruire il proprio personaggio. Le cose non stanno affatto così. Infatti per gli antichi la scultura è un'arte che «leva, toglie», contrariamente alla pittura che è un'arte che «aggiunge»: la statua preesiste nel blocco di marmo, e basta togliere il superfluo per farla apparire. Questa rappresentazione è comune a tutte le scuole filosofiche: l'uomo è infelice perché è schiavo delle passioni, ossia perché desidera cose che gli possono sfuggire, poiché gli sono esterne, estranee, superflue. La felicità consiste dunque nell'indipendenza, nella libertà, nell'autonomia, vale a dire nel ritorno all'essenziale, a ciò che è veramente «noi stessi» e a ciò che dipende da noi. Ciò è evidente nel caso del platonismo, dove s'incontra la famosa immagine del dio marino Glauco, dio che vive nelle profondità del mare: è irriconoscibile, poiché è ricoperto di limo, di alghe, di conchiglie e di sassolini; così l'anima: per essa il corpo è una specie di scorza spessa e grossolana che la deforma completamente; la sua vera natura si mostrerebbe se uscisse dal mare gettando lungi da sé tutto ciò che le è estraneo. L'esercizio spirituale del tirocinio della morte, che consiste nel separarsi dal corpo, dai suoi desideri, dalle sue passioni, purifica l'anima da tutte queste aggiunte superflue, e basta praticarlo perché l'anima ritrovi la sua vera natura e si dedichi unicamente all'esercizio del pensiero puro. Ciò è ugualmente vero nel caso dello stoicismo. Grazie all'antitesi fra ciò che non dipende da noi e ciò che dipende da noi, possiamo respingere tutto ciò che ci è estraneo per tornare al nostro Io autentico: la libertà morale. Infine ciò è vero per l'epicureismo: scartando i desideri non naturali e non necessari, si ritrova quel nucleo, quel nocciolo originario di libertà e indipendenza che sarà definito dalla soddisfazione dei desideri naturali e necessari. Ogni esercizio spirituale è dunque, fondamentalmente, un ritorno dell'Io a se stesso, che lo libera dall'alienazione dove lo avevano trascinato le preoccupazioni, le passioni, i desideri. L'Io così liberato non è più la nostra individualità egoista e passionale, è la nostra persona morale, aperta all'universalità e all'oggettività, partecipe della natura o del pensiero universali.
Grazie a questi esercizi, si dovrebbe accedere alla sapienza, ossia a uno stato di liberazione totale dalle passioni, di lucidità perfetta, di conoscenza di sé e del mondo. Questo ideale di perfezione umana serve di fatto, in Platone, in Aristotele, negli epicurei e negli stoici, a definire lo stato proprio della perfezione divina, dunque una condizione inaccessibile all'uomo. La sapienza è veramente un ideale a cui si tende senza sperare di raggiungerlo, tranne forse che nell'epicureismo. L'unico stato a cui l'uomo possa normalmente accedere è la filo-sofia, ossia l'amore della sapienza, il progresso verso la sapienza. Gli esercizi spirituali dovranno dunque essere sempre ripresi, in uno sforzo sempre rinnovato.
Il filosofo vive così in uno stato intermedio: non è sapiente, ma non è neanche non sapiente. È dunque costantemente diviso fra la vita non filosofica e la vita filosofica, tra la sfera dell'abituale e del quotidiano e la sfera della coscienza e della lucidità. Nella misura stessa in cui è pratica di esercizi spirituali, la vita filosofica strappa dalla vita quotidiana: è una conversione, un cambiamento totale di visione, di stile di vita, di comportamento. Nel caso dei cinici, campioni dell'ασκησις, questo impegno era persino una rottura totale col mondo profano, analoga alla professione monacale nel cristianesimo; si traduceva in una maniera di vivere e persino di vestirsi che era del tutto estranea alla maggioranza degli uomini. Proprio per questo talvolta si diceva che il cinismo non fosse una filosofia in senso proprio, ma una condizione di vita (ενστασις) . Ma, in realtà, in maniera più moderata, ogni scuola filosofica impegnava i suoi discepoli a condurre un nuovo tipo di vita. La pratica degli esercizi spirituali implicava un rovesciamento totale dei valori riconosciuti come tradizionali; si rinunciava ai falsi valori, alle ricchezze, agli onori, ai piaceri, per volgersi verso i veri valori – la virtù, la contemplazione, la vita semplice, la semplice felicità di esistere. Questa opposizione radicale spiegava evidentemente la reazione dei non-filosofi: andava dallo scherno – di cui ritroviamo le tracce negli autori comici – all'ostilità dichiarata, che poté arrivare al punto di provocare la morte di Socrate.
Dobbiamo ben immaginare con quanta profondità e ampiezza l'individuo potesse essere sconvolto dal fatto di essere strappato alle sue abitudini, ai suoi pregiudizi sociali, dal cambiamento completo della sua maniera di vivere, dalla metamorfosi radicale della sua maniera di vedere il mondo, dalla nuova prospettiva cosmica e «fisica» che poteva sembrare fantastica e insensata al buonsenso quotidiano e grossolano. Era impossibile rimanere stabilmente a tali altezze. Questa conversione doveva essere incessantemente riconquistata. È probabilmente a causa di tali difficoltà che il filosofo Sallustio, di cui ci parla la Vita di Isidoro scritta da Damascio, dichiarava che filosofare era impossibile per gli uomini. Probabilmente voleva dire che i filosofi non erano capaci di restare veramente filosofi in ogni istante della loro vita, ma che, pur conservando tale etichetta, ricadevano nelle abitudini della vita quotidiana. D'altronde gli scettici rifiutavano esplicitamente di vivere filosoficamente, deliberatamente sceglievano di «vivere come tutti» (ma dopo una svolta filosofica abbastanza intensa perché sia difficile supporre che la loro «vita quotidiana» sia stata «quotidiana» così come avevano l'aria di pretendere).
La vera filosofia è dunque esercizio spirituale, nell'antichità. Le teorie filosofiche sono messe esplicitamente al servizio della pratica spirituale, come accade nello stoicismo e nell'epicureismo, o sono fatte oggetto di esercizi spirituali, ossia di una pratica della vita contemplativa che a sua volta non è infine null'altro che un esercizio spirituale. Non è dunque possibile capire le teorie filosofiche dell'antichità senza tenere conto di questa prospettiva concreta che determina il loro significato autentico. Siamo così indotti a leggere le opere dei filosofi dell'antichità prestando maggiore attenzione all'atteggiamento esistenziale che fonda l'edificio dogmatico. Che siano dialoghi, come le opere di Platone, che siano scritte in funzione di lezioni, come quelle di Aristotele, che siano trattati, come le opere di Plotino, commenti, come quelle di Proclo, le opere dei filosofi non possono essere interpretate senza che si tenga conto della situazione concreta in cui sono nate: emanano da una scuola filosofica, nel senso più concreto del termine, da una scuola in cui un maestro forma discepoli e si sforza di portarli a trasformare e realizzare se stessi. L'opera scritta riflette dunque preoccupazioni pedagogiche, psicagogiche, metodologiche. In fondo, sebbene ogni scritto sia un monologo, l'opera filosofica è sempre implicitamente un dialogo; vi è sempre presente la dimensione dell'interlocutore eventuale. È ciò che spiega le incoerenze e le contraddizioni che gli storici moderni scoprono con stupore nelle opere dei filosofi antichi. Infatti in queste opere filosofiche il pensiero non può esprimersi secondo la necessità pura e assoluta di un ordine sistematico, ma deve tenere conto del livello dell'interlocutore, del tempo del logos concreto in cui si esprime. Ciò che condiziona il pensiero è l'economia propria del logos scritto; è esso che è un sistema vivente che, come dice Platone, «deve avere un corpo proprio, cosicché non manchi né di testa, né di piedi, ma abbia le sue parti di mezzo e i suoi estremi, scritti in modo da essere in armonia fra loro e con il tutto». Ogni logos è un «sistema», ma l'insieme dei λογοι scritti da un autore non forma un sistema. Ciò è evidente nel caso dei dialoghi di Platone. Ma è ugualmente vero per le lezioni di Aristotele: sono precisamente lezioni; e l'errore di molti interpreti di Aristotele è stato quello di dimenticare che le sue opere erano state scritte in funzione delle sue lezioni, e di immaginare che si trattasse di manuali odi trattati sistematici, destinati a presentare l'esposizione completa di una dottrina sistematica; si sono allora stupiti delle incoerenze e persino delle contraddizioni che incontravano passando da uno scritto all'altro. Ma, come ha bene mostrato I. Düring, i diversi 
λογοι di Aristotele corrispondono alle situazioni concrete create dalle particolari dispute scolastiche. Ogni corso di lezioni corrisponde a condizioni diverse, a una problematica determinata; ha la sua unità interna, ma il suo contenuto dottrinale non corrisponde esattamente a quello di un altro corso. Del resto Aristotele non pensa affatto a proporre un sistema completo della realtà, vuole insegnare ai suoi allievi a impiegare metodi corretti nella logica, nella scienza della natura, nella morale. I. Düring descrive in un modo eccellente il metodo aristotelico: «Ciò che caratterizza la maniera aristotelica è il fatto che stia sempre discutendo un problema. Un risultato importante è quasi sempre una risposta a una domanda posta in una maniera ben determinata, e non vale che come risposta a tale domanda precisa. Veramente interessante, in Aristotele, è il suo modo di porre i problemi, e non già le sue risposte. Il suo metodo di ricerca consiste nell'avvicinarsi a un problema o a una serie di problemi, considerandoli sempre in una nuova angolazione. La sua formula per indicare questo metodo è: "Assumendo ora un altro punto di partenza...". Assumendo così punti di partenza molto diversi, affronta procedimenti di pensiero a loro volta molto differenti, e giunge infine a risposte che sono evidentemente tra loro incompatibili, come avviene per esempio nel caso delle sue ricerche sull'anima... Se si riflette, si riconosce, in tutti i casi, come la risposta derivi esattamente dalla maniera in cui è stato posto il problema. Questo tipo di incoerenze può essere inteso come il risultato naturale del metodo impiegato». In questo metodo aristotelico dei «punti di partenza diversi» possiamo riconoscere il metodo che Aristofane attribuiva a Socrate; e, come abbiamo visto, a questo metodo tutta l'antichità è stata fedele. È per questo stesso motivo che, mutatis mutandis, queste righe di I. Düring di fatto si possono applicare a quasi tutti i filosofi dell'antichità. Poiché questo metodo che non consiste nell'esporre un sistema, ma nel dare risposte precise a domande precise e limitate, è il retaggio, permanente in tutta l'antichità, del metodo dialettico, ossia dell'esercizio dialettico. Per tornare ad Aristotele, c'è una verità profonda nel fatto che egli stesso chiamasse μεθοδοι i suoi corsi. D'altronde lo spirito di Aristotele corrisponde, da questo punto di vista, allo spirito dell'Accademia platonica, che era anzitutto una scuola che formava, in vista di un eventuale ruolo politico, e un istituto di ricerche condotte in uno spirito di libera discussione. Se passiamo ora agli scritti di Plotino, apprendiamo da Porfirio come attingesse l'argomento dai problemi che si presentavano nel suo insegnamento'. Risposte a domande precise, situati in una problematica ben determinata, i diversi λογοι di Plotino si adattano ai bisogni dei suoi discepoli, e cercano di produrre in loro un certo effetto psicagogico. Non dobbiamo immaginare che siano i capitoli successivi di una vasta esposizione sistematica del pensiero di Plotino. È il metodo spirituale di Plotino che si ritrova in ciascuno di essi, ma le incoerenze e le contraddizioni particolari non mancano, quando si confrontano i contenuti dottrinali dei diversi trattati. Allorché si affrontano i commenti di Platone o di Aristotele composti dai neoplatonici, si ha dapprima l'impressione che la loro redazione sia guidata unicamente da preoccupazioni dottrinali ed esegetiche. Ma ad un esame approfondito risulta che il metodo dell'esegesi e il suo contenuto dottrinale sono, in ogni commento, in funzione del livello spirituale degli ascoltatori a cui il commento stesso si rivolge. Il fatto è che esiste un corso dell'insegnamento filosofico, fondato sul progresso spirituale. Non si leggono gli stessi testi ai principianti, ai progredienti e ai perfetti, e anche le nozioni che compaiono nei commenti sono in funzione delle capacità spirituali degli ascoltatori. Il contenuto dottrinale può dunque variare notevolmente da un commento all'altro, sebbene siano entrambi redatti dallo stesso autore. Ciò non significa che sia cambiata la dottrina dello stesso commentatore, significa che i bisogni dei discepoli erano diversi. Quando si esortano degli esordienti (è il genere letterario della parenesi), è possibile, per provocare un certo effetto nell'anima del proprio interlocutore, impiegare gli argomenti di una scuola avversa; uno stoico dirà, per esempio: persino se il piacere è il bene dell'anima (come vogliono gli epicurei), occorre purificarsi dalle passioni. Marco Aurelio esorterà se stesso in una maniera analoga: se il mondo non è che un aggregato di atomi, come vogliono gli epicurei, la morte non deve essere temuta. D'altronde non bisogna mai dimenticare che più dimostrazioni filosofiche traggono la loro evidenza meno da ragioni astratte che da un'esperienza che è un esercizio spirituale. Abbiamo visto come fosse questo il caso della dimostrazione plotiniana dell'immortalità dell'anima: che l'anima pratichi la virtù, e capirà di essere immortale. Si ritrova un esempio analogo in uno scrittore cristiano. Il De Trinitate di Agostino presenta una serie di immagini psicologiche della Trinità che non formano un sistema coerente, e che, per questo motivo, pongono molti problemi ai commentatori. Ma in realtà Agostino non vuole presentare una teoria sistematica delle analogie trinitarie. Vuole fare sperimentare all'anima, con un ritorno su se stessa, il fatto di essere l'immagine della Trinità: «Queste trinità, – dice egli stesso, – si producono in noi e sono in noi, quando noi ricordiamo, quando guardiamo, quando vogliamo tali cose». È infine nel triplice atto del ricordo di Dio, della conoscenza di Dio, dell'amore di Dio, che l'anima scopre di essere immagine della Trinità.
Tutti gli esempi precedenti ci permettono di intravvedere il cambiamento di prospettiva che apporta, nell'interpretazione e nella lettura delle opere filosofiche dell'antichità, la preoccupazione di considerare tali opere nella prospettiva della pratica degli esercizi spirituali. La filosofia appare allora – nel suo aspetto originario – non più come una costruzione teorica, ma come un metodo inteso a formare una nuova maniera di vivere e di vedere il mondo, come uno sforzo di trasformare l'uomo. In genere gli storici contemporanei della filosofia hanno scarsamente la tendenza a prestare attenzione a questo aspetto, nondimeno essenziale. Ciò accade precisamente perché – conforme a una concezione ereditata dal Medioevo e dai tempi moderni – ritengono che la filosofia sia un procedimento puramente teorico e astratto. Ricordiamo brevemente come sia nata questa rappresentazione. Sembra proprio che sia il risultato dell'assorbimento della φιλοσοφια da parte del cristianesimo. Nei primi secoli il cristianesimo ha presentato se stesso come una filosofia, nella misura stessa in cui assimilava la pratica tradizionale degli esercizi spirituali. E ciò che accade specialmente in Clemente di Alessandria, in Origene, in Agostino, nel monachesimo. Ma, con la scolastica del Medioevo, theologia e philosophia si sono chiaramente distinte. La teologia ha preso coscienza dell'autonomia posseduta in quanto scienza suprema, mentre la filosofia, svuotata degli esercizi spirituali che facevano ormai parte della mistica e della morale cristiane, è stata ridotta al rango di un'«ancilla theologiae» che fornisce a quest'ultima un materiale concettuale, dunque puramente teorico. Quando, nell'epoca moderna, la filosofia ha riconquistato la propria autonomia, ha nondimeno conservato molti tratti ereditati dalla concezione medievale, e specialmente il suo carattere puramente teorico, che è persino evoluto nel senso di una sistematizzazione sempre più spinta. E soltanto con Nietzsche, Bergson e l'esistenzialismo che la filosofia ridiventa consapevolmente una maniera di vivere e di vedere il mondo, un atteggiamento concreto. Ma gli storici contemporanei del pensiero antico, per parte loro, in genere sono rimasti prigionieri della vecchia concezione, puramente teorica, della filosofia, e le tendenze strutturalistiche attuali non li incoraggiano a correggere tale concezione: l'esercizio spirituale introduce un aspetto vissuto e soggettivo che non concorda con i loro modelli di spiegazione.
Siamo così ritornati all'epoca contemporanea e al nostro punto di partenza, alle righe di G. Friedmann citate all'inizio del nostro studio. A coloro che, come G. Friedmann, si pongono la domanda «Come praticare esercizi spirituali nel secolo XX?», ho voluto ricordare l'esistenza di una tradizione occidentale molto ricca e molto varia. Evidentemente non si tratta di imitare meccanicamente schemi stereotipati: Socrate e Platone non invitavano forse i loro discepoli a trovare da soli le soluzioni di cui abbisognavano? Ma non si può ignorare questa esperienza millenaria. Tra l'altro, lo stoicismo e l'epicureismo sembrano proprio corrispondere a due poli opposti ma inseparabili della nostra vita interiore, la tensione e la distensione, il dovere e la serenità, la coscienza morale e la gioia di esistere. Vauvenargues ha detto: «Un libro davvero nuovo e davvero originale sarebbe quello che facesse amare vecchie verità». Mi auguro, in questo senso, di essere stato «davvero nuovo e davvero originale», cercando di fare amare vecchie verità. Vecchie verità... poiché ci sono verità di cui le generazioni umane non giungeranno mai a esaurire il senso; non che siano difficili da capirsi, al contrario sono estremamente semplici, spesso hanno persino l'apparenza della banalità; ma, precisamente, per comprenderne il senso occorre viverle, occorre rifarne incessantemente l'esperienza: ogni epoca deve riprendere questo compito, imparare a leggere e a rileggere queste «vecchie verità». Noi passiamo la nostra vita a leggere, ossia a fare esegesi, e persino esegesi di esegesi («Venite ad ascoltarmi mentre leggo i miei commenti... Vi farò l'esegesi di Crisippo come nessun altro, renderò interamente conto di tutto il suo testo... Se necessario, aggiungerò persino il punto di vista di Antipatro e di Archedemo. Ecco dunque perché i giovani abbandonano la loro patria e i loro genitori, per venire a sentirti spiegare parole, piccole minuscole parole»), passiamo la nostra vita a «leggere», ma non sappiamo più leggere, ossia fermarci, liberarci dalle nostre preoccupazioni, ritornare a noi stessi, lasciare da parte le nostre ricerche della sottigliezza e dell'originalità, meditare con calma, ruminare, lasciare che i testi ci parlino. E un esercizio spirituale, uno dei più difficili. «La gente, - diceva Goethe, - non sa quanto tempo e quanto sforzo costi imparare a leggere. Mi ci sono occorsi ottant'anni, e non sono neanche in grado di dire se ci sia riuscito».

 

 

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