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Mario Smargiassi,
Fenomenologia asoggettiva e corporeità in Jan Patočka
1. Introduzione 
In quella ricca polifonia filosofica che, da Husserl in poi, va sotto il nome di
«fenomenologia» o di «movimento fenomenologico», il filosofo ceco Jan Patočka
può essere annoverato tra le voci più brillanti e originali.1 Se
l'importanza della sua riflessione rimane complessivamente sottostimata,
rispetto ad altri più noti pensatori di orientamento fenomenologico (Sartre,
Merleau-Ponty, Lévinas, Henry, per citarne solo alcuni), è pur vero che Patočka
gode ormai di una posizione di sicuro rilievo sulla scena filosofica
internazionale (non solo europea); il pensiero patočkiano è infatti sempre più
intensamente esplorato, le iniziative editoriali e i convegni a lui dedicati si
moltiplicano, la letteratura critica che lo riguarda ha registrato un notevole
incremento negli ultimi dieci anni. In Italia, dopo una lunga fase di
sostanziale disinteresse e dopo che la traduzione di qualche importante testo
aveva preparato il terreno, sembra ora delinearsi una vera e propria scoperta:
sono sempre di più gli studiosi (spesso giovani) che si accostano a Patočka con
passione e rigore, nella convinzione che dalle sue pagine possano provenire, se
non «soluzioni», almeno sollecitazioni teoretiche radicali per la messa a
punto delle questioni filosofiche più vive e urgenti del mondo contemporaneo.2
Sarebbe riduttivo, a mio parere, individuare in Patočka un esponente autorevole
della tradizione fenomenologica europea, che ha saputo rinnovare e riformulare
in una sintesi originale le fondamentali intuizioni di Husserl e Heidegger (la
teoria dei «movimenti fondamentali dell'esistenza umana», sviluppata in una
serie di saggi degli anni '60 e '70, è forse l'esempio più evidente in tal
senso);3 occorre
invece, senza esitazioni, considerare Patočka come uno degli autori di
riferimento della filosofia del XX secolo, ciò che peraltro emerge con chiarezza
man mano che il vasto continente dei suoi scritti viene alla luce, offrendo più
ampie prospettive di analisi e di interpretazione.4 Il
discorso filosofico di Patočka, pur sviluppandosi asistematicamente e
presentando alcune linee di frattura al proprio interno, rivela a uno sguardo
più approfondito una unità sorprendente, che può essere illuminata da
punti di vista diversi: declinata in termini generali, essa esprime una
connessione strettissima tra fenomenologia e filosofia della storia, tra
analitica ontologico-esistenziale e ricostruzione continua del tessuto della
tradizione, tra l'idea che fonda la speculazione e la forma di vita tipiche
dell'Occidente (la «cura dell'anima») e l'apertura su un orizzonte cosmologico
che manifesta la problematicità e i limiti della human condition. Ma ciò
che, in ultima istanza, costituisce il fondo unitario della riflessione
filosofica di Patočka è una tensione etica strutturale, una volontà di
vita-nella-verità che trasborda ogni astratta costruzione normativa e incarna
una passione socratica per il senso dell'uomo: una modalità di esperire e
affermare il senso oltre la metafisica, oltre il nichilismo, oltre il
dominio pervasivo della scienza-tecnica, in uno spirito di fedeltà rigorosa alla
finitezza umana, alle dimensioni di «negatività» che la caratterizzano.5
Non è qui possibile fornire, nemmeno per semplici accenni, una presentazione
globale del pensiero di Patočka.6L'intento
di questo saggio è di esaminare, nelle sue coordinate generali e come punto di
partenza per un'indagine più approfondita, un nodo fenomenologico centrale che,
direttamente o indirettamente, si intreccia con tutti i fili principali della
filosofia patočkiana: quello della corporeità, del «corpo soggettivo» o
«corpo proprio» (o, più radicalmente, del soggetto come corpo), afferrato
e sviluppato non come semplice tema analitico, ma nella sua relazione
imprescindibile con la curvatura a-soggettiva che Patočka imprime
apertamente alla fenomenologia, nella fase più matura del suo percorso. Se il
programma di una fenomenologia asoggettiva muove infatti da una critica
dell'idealismo fenomenologico-trascendentale di Husserl e da una
radicalizzazione della nozione di epochè, l'articolazione descrittiva
della «sfera fenomenica» (l'orizzonte stesso della fenomenologia, nella sua
autonoma struttura di senso, ovvero il mondo) esige un «sé» ontologicamente
e dinamicamente corporeo: è dunque sul piano concreto dell'analisi del corpo
e del movimento corporeo che si rivela, in maniera sempre più netta, un mondo non
fondato su una «soggettività trascendentale», un apriori della
manifestazione che precede e fonda la stessa relazione intenzionale tra un
«soggetto» e un «oggetto», tra l'io e le cose. La de-soggettivazione della
fenomenologia apre ad una sua declinazione esistenziale, come nello Heidegger
di Sein und Zeit, ma è attraverso il filo conduttore del corpo-movimento
che il sum della soggettività umana, l'«io sono», ottiene spessore e
concretezza, «fenomenizzandosi» e configurandosi come esistenza rigorosamente
intra-mondana, un essere-nel-mondo che è al tempo stesso un essere-del-mondo.
Non solo il corpo proprio funge da elemento mediatore indispensabile
nell'apparire del mondo e nella fondazione intersoggettiva della sua validità,
come già Husserl aveva chiaramente rilevato; per Patočka, cogliere il mondo
nella sua densità onto-fenomenologica irriducibile alla soggettività che lo
esperisce e da essa «incostituibile» significa rimandare (come ad un compito
filosofico di primo ordine) alla complessa trama in cui il movimento
esistenziale di una soggettività finitadiventa possibile e comprensibile.
Al di fuori dell'idealismo trascendentale e del primato della coscienza, la
corporeità è una sorta di vettore che dis-loca l'io nel campo di forze
dell'apparire, in una dinamica fenomenologica in cui non è l'unico attore né il
polo centrale assoluto, ma soltanto un centro relativo e reversibile, posto
continuamente in gioco nel suo essere e in tensione con l'altro (in tutte
le accezioni e le risonanze che questo termine può assumere). Ma non si tratta
soltanto di sostituire il trascendentale della coscienza con un più concreto
«trascendentale del corpo» (esito in parte implicito nella fenomenologia
husserliana ed esplicitato nella filosofia di Merleau-Ponty): il contributo
fenomenologico di Patočka porta a vedere il corpo stesso in una prospettiva
genetica e dinamica che implica strutture esistenziali asoggettive e conduce ad
una nuova lettura di uno dei concetti più antichi del pensiero occidentale,
quello di physis. «Destinatario del fenomeno», incalzato e appellato
dalla manifestazione, dal problema del senso di ciò che appare, l'uomo è
una soggettività che esiste nella chiarezza e nel mistero del mondo,
nell'orizzonte della libertà finita come responsabilità. La rifondazione
asoggettiva della fenomenologia cui ha condotto il lavoro filosofico di Patočka
ci apparirà allora non tanto un'ennesima critica o decostruzione della
«filosofia del soggetto» sic et simpliciter, quanto una premessa
fondamentale per articolare una comprensione della soggettività autenticamente
fenomenologica, in grado di restituire il senso più profondo
dell'«essere-nel-mondo come movimento».
2. L'apparire del mondo: Epochè radicale e fenomenologia asoggettiva 
Nel suo dialogo ininterrotto con il fondatore della fenomenologia, Patočka
sottopone a una critica radicale l'«idealismo trascendentale» di Husserl, che a
suo avviso costituisce una deviazione dall'intenzione originaria del pensiero
fenomenologico. Se infatti quest'ultimo nasce come appello, per la filosofia, a
rivolgersi «alle cose stesse» (zu den Sachen selbst), ai fenomeni
originari della nostra esperienza, nel «soggettivismo» e nel «primato della
coscienza» difesi dallo Husserl maturo (da Idee I alle Meditazioni
cartesiane, e oltre) Patočka scorge un pregiudizio che occorre decostruire e
abbandonare, proprio per rimanere fedeli al principio metodologico fondamentale
della fenomenologia: quello della descrizione rigorosa di ciò che appare (il
«fenomeno»), nel suo modo di apparire, senza sovrapporre ad esso alcunché
di estraneo. Il «corpo a corpo» con Husserl, nel comune orizzonte
fenomenologico, condurrà Patočka a una riformulazione globale del progetto
filosofico della fenomenologia al di fuori di ogni riferimento fondante alla
soggettività; in particolare, la fenomenologia non sarà più una
«scienza della soggettività trascendentale», ma una dottrina dell'apparire
come tale e un'indagine sulle strutture (fenomenicamente accessibili) che
articolano, in concreto, questa dimensione o «sfera» dell'apparizione.
Potrebbe sembrare una questione di semplice accento metodico, visto che in
Husserl, com'è noto, la «soggettività trascendentale fenomenologica» non è posta
a tema se non in correlazione costante e inscindibile con il mondo, nella
sua ricca compagine di senso, e dunque la trascendentalizzazione della
fenomenologia non implica alcuna svalutazione della «realtà oggettiva» di fronte
alla coscienza pura.7 .
Tuttavia, per Patočka l'esigenza di de-soggettivare la fenomenologia,
rompendo definitivamente lo schema coscienzialistico husserliano, diventa negli
anni sempre più chiara e ineludibile, man mano che si approfondisce la portata
ontologico-esistenziale e antropologica della fenomenologia stessa: dai due
saggi «omologhi» del '70 e '71 (Il soggettivismo della fenomenologia
husserliana e la possibilità di una fenomenologia «asoggettiva» e Il
soggettivismo della fenomenologia husserliana e l'esigenza di una fenomenologia
asoggettiva), a Epochè e riduzione (1975), alle numerose riflessioni
e variazioni che sul tema dell'«asoggettività» offrono gli scritti inediti,8 il
rifiuto della piega soggettivistica imposta da Husserl al piano della
manifestazione e l'esplorazione di una via alternativa alla fenomenologia
acquistano il valore di una posta in gioco decisiva. Ma declinare
a-soggettivamente la fenomenologia significherebbe anche, secondo Patočka,
compiere la «volontà» dello stesso Husserl, realizzando quello che, con ogni
verosimiglianza, era il suo programma originale:
Husserl è [...] penetrato fin nel cuore della
situazione (critica) della fenomenologia soggettiva, per quanto
evidentemente non ha avuto poi il coraggio di sacrificare la metafisica
idealista della coscienza che fino all'epoca della Krisis continua a
difendere e che proviene interamente da un'operazione artificiale di
soggettivizzazione del fenomenico. In un certo senso, sarebbe quindi
eseguire le ultime volontà del fondatore della fenomenologia operare
effettivamente la catarsi del fenomenico in modo da restituire alla
fenomenologia il senso di un'indagine sull'apparire come tale, che forse
costitutiva l'intenzione originaria del suo primo sostenitore.
Come altri interpreti, Patočka vede all'opera in Husserl due tendenze ben
diverse, il cui intreccio occorre districare per ricondurre la fenomenologia
alla sua «intenzione originaria» e al suo senso più proprio: di fatto,
all'esigenza genuinamente fenomenologica di un'indagine strutturale-sistematica
sui modi di apparire delle cose stesse si affianca molto presto, fin dalle
lezioni husserliane del 1907 (L'idea della fenomenologia),9 una
tendenza filosofica di tipo cartesiano, come ricerca di una regione
dell'essere assolutamente fondata e cognitivamente indubitabile. Il
«cartesianismo» di Husserl si rivela, da un lato, nella tensione teoretica ed
esistenziale (mai abbandonata) verso una conoscenza assoluta, dall'altro,
nell'attribuire alla soggettività(purificata riflessivamente da ogni
coordinata psicologico-empirica) e alla sfera dei vissuti (Erlebnisse)
il carattere dell'evidenza apodittica. La «coscienza assoluta» o «soggettività
trascendentale» diventa il terreno di fondazione e di manifestazione di ogni
ente e di ogni oggetto: il mondo stesso, la struttura totale
dell'esperienza, si configura così come una «trascendenza immanente», un
orizzonte infinitamente aperto che appare nellacoscienza (pura) e solo sul
piano della coscienza (nei limiti delle sue operazioni costitutive)
ottiene il suo senso e la sua validità.
Husserl denomina riduzione o epochè il procedimento riflessivo
teso a produrre il passaggio dall'atteggiamento naturale, in cui l'«essere» del
mondo viene ingenuamente presupposto, all'atteggiamento fenomenologico, in cui
il mondo (ri) appare, in tutta la ricchezza e concretezza descrittiva dei suoi
contenuti, come correlato della soggettività trascendentale (quest'ultima, nel
suo pieno sviluppo, è una intersoggettività trascendentale ).10 La
riduzione fenomenologico-trascendentale sospende («pone tra parentesi»)
la tesi naturale del mondo come «già dato», per ricostruirne filosoficamente il
senso negli atti intenzionali della coscienza, nelle loro connessioni e
stratificazioni (nient'altro significa, in Husserl, la costituzione di senso).
Tuttavia, questa «immersione» del mondo, e di ciò che nel mondo appare, in
un'atmosfera soggettiva (sia pure in un'ottica metodologica e senza alcuna
concessione allo scetticismo) segna un fraintendimento e un tradimento
essenziali di quella che è, per Patočka, la questione fondamentale della
fenomenologia: il senso dell'apparire come tale, l'analisi dei fenomeniin
quanto fenomeni.
In tale prospettiva, all'interno del dispositivo teorico husserliano Patočka
recupera positivamente la nozione di epochè, da un lato svincolandola da
quella di «riduzione» del mondo a una sfera immanente (i vissuti della
coscienza), dall'altro radicalizzandone la portata sospensiva e critica in
direzione della soggettività. Per Husserl, sarebbe un'esagerazione
incomprensibile eseguire l'epochè in modo veramente universale,
estendendola all'io trascendentale stesso e alle sue evidenze originariamente
vissute: ciò renderebbe impossibile fin dall'inizio la costruzione di una
scienza dei fenomeni (fenomeno-logia) e ci consegnerebbe immediatamente nelle
braccia dello scetticismo.11 Ma
questa sottrazione della dimensione stessa della soggettività (la «tesi
dell'io») allo spirito critico dell'epochè testimonia che Husserl non è
stato, qui, abbastanza radicale.12 Scrive
infatti Patočka in epochè e riduzione: «Che cosa accadrebbe se la tesi
dell'io proprio non fosse sottratta all'epochè, se quest'ultima fosse
concepita in maniera del tutto universale? [...] Non potrebbe darsi che
l'immediatezza della datità dell'egosia un 'pregiudizio', che
l'esperienza di sé abbia, allo stesso modo dell'esperienza delle cose, un a
priori specifico che rende possibile l'apparire dell'ego?».13
Occorre compiere (heideggerianamente) un «passo indietro» rispetto alla
soggettività, per scoprire il contesto fenomenico originario (l'a priori) che le
consente di apparire e dispiegarsi. Solo l'epochè «universalizzata»
dischiude il campo dell'apparire nella sua purezza, senza confonderlo con un
ente qualsiasi che appare (oggettivo o soggettivo):
Grazie all'universalizzazione dell'epochè,
diventerà allora chiaro che, come il sé è la condizione di possibilità
dell'apparire di ciò che è nel mondo, così il mondo come orizzonte
originario (e non come l'insieme delle realtà) rappresenta la condizione di
possibilità dell'apparire del sé. L'egoità, senza dubbio, non è mai
percepita autonomamente in se stessa, esperita immediatamente, in un modo
qualsiasi, ma unicamente come centro di organizzazione di una struttura
universale dell'apparizione che non può essere ricondotta a ciò che appare
come tale nella sua singolarità. Questa struttura, noi la chiamiamo il
mondo.
La fenomenologia «asoggettiva», resa accessibile da un'epochè più
radicale di quella husserliana, non è dunque una fenomenologia senza soggetto.
Essa coglie, innanzitutto, questa doppia relazione condizionale tra l'io e il
mondo, sul piano originario della manifestazione: se l'io (o, come talvolta
preferisce dire Patočka, il «sé») è condizione di possibilità dell'apparire
delle cose mondane (degli enti), ed è quindi una componente ineliminabile della
struttura fenomenica, è anche vero che solo nel mondo è possibile
l'apparizione di un ente che si rapporta a se stesso, e che nel
rapportarsi-a-sé ha il proprio specifico modo di essere. L'uomo può essere
rapporto-a-sé solo in quanto l'esistenza umana è un essere-nell'apparizione, un
apparire-a-se-stesso che prende forma nell'orizzonte manifestativo universale:14 in
altri termini, l'io nella sua struttura fenomenologica non è una «soggettività
trascendentale» che semplicemente ha il mondo come polo intenzionale di
riferimento, bensì un ente che «si trova» nel mondo (all'interno di quella struttura
universale dell'apparizione che chiamiamo mondo), allo stesso titolo degli
altri enti che appaiono (all'io) senza poter assumere la forma del rapporto a
sé, che non sono, ontologicamente parlando, essere-nell'apparizione. In
definitiva, a differenza di quanto pensasse Husserl (ma, prima di lui, Kant e
l'idealismo tedesco) il «soggetto» non è la base o il fondamento
dell'apparizione, l'unità che la sorregge e ne regola in qualche modo lo
sviluppo, bensì solo un momento (sebbene necessario) della struttura
dell'apparire, la quale, considerata in sé, non è «soggettiva», né «creata»,
«prodotta», «fondata» o «costituita» in alcun modo dalla soggettività.15 «La soggettività
stessa [deve] mostrarsi come qualcosa che appare, che fa parte di una
struttura più profonda, come una certa possibilità abbozzata e indicata in
questa struttura, in quanto una delle sue parti costitutive».16
Se «apparire» significa certamente «apparire a qualcuno», a un io (e
dunque vi è un referente o destinatario dell'apparizione), non bisogna
dimenticare che quest'ultimo appare «soggetto» alle regole e alla dinamica
interna dell'apparire, «preso» (per così dire) nel movimento della
manifestazione, dal quale dipende strutturalmente il suo essere proprio
(l'esistenza) e la totalità delle sue possibilità esistenziali. Paradossalmente,
solo abbandonando il soggettivismo è possibile comprendere adeguatamente il
senso fenomenologico della soggettività:
Nella fenomenologia asoggettiva, il soggetto
nel suo apparire è un «risultato» nella stessa misura che tutto il resto.
Devono esserci regole a priori sia per l'entrata nell'apparizione
propria, come in quella impropria. E questa entrata nell'apparizione fa
apparire qualcosa che è indipendente da questo apparire. Nel caso dell'io,
ciò non significa indipendente da ogni apparire, perché può esserci
un io solo nella misura in cui qualcosa gli appare, nella misura in cui si
rapporta a se stesso attraverso l'apparizione di qualcos'altro; questo
«rapportarsi a se stesso attraverso l'apparizione», cioè questo
apparire a sé, è una struttura ontologica tanto indipendente dalla
coscienza quanto lo è quella struttura che non appare a se stessa. Non è la
coscienza a rendere possibile la struttura ontologica, ma la struttura
ontologica a rendere possibile la coscienza.
La fenomenologia asoggettiva non ha il suo centro nell'intenzionalità della
coscienza, nella struttura noetico-noematica dei vissuti, nell'«io puro» come
soggetto non mondano. Le analisi husserliane della soggettività, anche in ciò
che hanno di valido, vanno radicate su un terreno più profondo, che non è
gnoseologico ma ontologico-esistenziale (è infatti la «struttura ontologica», l'essere-nell'apparizione,
come si è letto, a rendere possibile la coscienza, e non viceversa). Ma, per
questo scopo, è preliminarmente indispensabile l'articolazione della sfera
dell'apparire nei suoi momenti formali: «Essendo il mondo stesso l'unica
struttura che ingloba le cose e il soggetto, vorremmo concepire questa struttura
come struttura del mondo. Il fenomeno, l'apparire, ha come momenti ciò che
appare (il mondo), ciò a cui l'apparente appare (la soggettività) e il come,
la maniera in cui l'apparente appare».17 La
struttura formale dell'apparizione, autonomamente considerata, presenta quindi
tre momenti: 1) il mondo (ciò che appare), 2) ciò a cui il mondo appare (ovvero
il soggetto), 3) il modo o, più correttamente, i modi in cui il mondo appare
(alla soggettività, in quanto è una esistenza-nell'apparizione). Nonostante le
evidenti analogie di questa struttura con l'ego-cogito-cogitatum della
«fenomenologia soggettiva» di Husserl, Patočka sottolinea sempre di nuovo come
il soggetto dell'apparizione (ciò a cui appare il mondo) sia,
essenzialmente, un soggetto nell'apparizione, cioè una parte o una
«porzione» del mondo che gli appare (proprio ciò che Husserl negava
risolutamente fosse l'ego fenomenologico-trascendentale): «Il mondo e le
sue cose non possono apparire che a qualcuno, e questo qualcuno fa parte
anche lui del mondo».18 Il
soggetto della fenomenologia «asoggettiva» appartiene radicalmente al
mondo, è un essere-del-mondo, pur non essendo una cosa, una res (su
questo secondo punto Patočka è in linea con Husserl): l'io è, infatti, il referente dell'apparizione,
quell'ente peculiare per il quale il mondo e le cose ci sono (in quanto
si manifestano). Accanto alla differenza fenomenologica tra le cose e il
soggetto occorre sempre tener ferma quella, altrettanto decisiva, tra il
mondo, come orizzonte originario della manifestazione, e gli enti che
appaiono nel mondo (le cose, da un lato, e la soggettività, dall'altro). «C'è un
campo fenomenico, un essere del fenomeno come tale che non può essere ridotto a
nessun ente che appare al suo interno e che perciò è impossibile spiegare a
partire dall'ente, che quest'ultimo sia di una specie naturalmente oggettiva o
egologicamente soggettiva».19
«Campo di apparizione», «sfera fenomenica», «piano della manifestazione»: con
questi termini Patočka designa il nucleo tematico centrale della fenomenologia.
Quest'ultima non è una «teoria della soggettività» (Husserl), né una «teoria dei
fenomeni» (Heidegger), e neppure sarebbe, rigorosamente parlando, una «teoria
del mondo», se, rispetto al mondo come «ente in totalità», non fosse posto in
primo piano il problema della manifestazione: «[la fenomenologia] è una teoria
dell'apparire dell'ente in totalità, del mondo. E il mondo e il
campo di apparizione sono fenomeni nel senso formale. Il tema rigoroso della
fenomenologia non è quindi il mondo, ma il campo di apparizione».20 Il mondo,
i fenomeni, la soggettività vengono esplorati e delucidati, nelle
loro relazioni e implicazioni, come componenti del campo di apparizione, come
articolazioni di una struttura formale dell'apparire che globalmente le
«precede», rendendole possibili; sotto questo aspetto, chiarisce Patočka, è
ancora legittimo parlare della fenomenologia come filosofia trascendentale, come
voleva Husserl. Se infatti, attraverso un'epochè radicalizzata, si «pone
tra parentesi» la torsione soggettivistica, che distorce la pura struttura
dell'apparire ancorandola ad un centro di gravità egologico, il movimento che dal mondo
naturale già dato risale al campo di apparizione e, da qui, procede allo
studio sistematico dei caratteri onto-fenomenologici del comprendere, appare
come una «rifondazione» del trascendentalismo husserliano:
Crediamo che il problema dell'apparizione, in
quanto primario, derivi del tutto naturalmente da una rifondazione della
dottrina husserliana in un trascendentalismo formale dell'apparire come
tale. Se l'epochè non significa altro che la risalita, a partire dal
mondo presuntivamente pre-dato, a partire dalla costruzione del mondo e
della conoscenza naturale, fino al piano dell'apparizione, cioè fino ai
caratteri di apparizione che non sono altro che i caratteri di comprensione
ontologica dell'essere mondano che [ci] viene incontro, caratteri che in se
stessi non sono più dipendenti dall'ente esperito, che si mostra, il primato
dell'apparire sull'essere è chiaro.
Il vero trascendentale fenomenologico non è la soggettività e/o
l'intersoggettività, bensì l'apparire come tale; tuttavia, rileva Patočka,
l'apparizione come struttura formale possiede una priorità e una preminenza, in
fenomenologia e dunque in filosofia, anche rispetto all'essere: «Il
problema della manifestazione è più profondo, più fondamentale, più originario
del problema dell'essere. Semplicemente perché non posso arrivare al problema
dell'essere se non attraverso il problema della manifestazione, a meno che, se
parto dal problema dell'essere nel senso astratto del termine, il concetto
dell'essere non diventi per me un concetto astratto, una sorta di segno
puramente formale».21 Ma
proprio questo primato dell'apparire, in luogo di un «primato della
coscienza» o di un «primato dell'essere», costituisce secondo Patočka la risorsa
metodologica e analitica più importante della fenomenologia asoggettiva, che le
consente di raggiungere dimensioni ontologico-esistenziali rimaste precluse
all'indagine fenomenologica tradizionale (anche nella sua variante
heideggeriana).
3. Dal cogito al sum: Descartes, Husserl e Heidegger 
Ma se, per Patočka, il soggetto è un momento fondamentale della struttura
dell'apparire, è quel «qualcuno» a cui la manifestazione «è indirizzata»,
occorre esaminare più da vicino il modo di essere (nel campo di
apparizione) di questo ego, che, come si è visto, non può essere una
soggettività trascendentale nel senso husserliano. È su questo terreno che
diventa evidente e centrale il ruolo della corporeità, come riflesso
della «rifondazione asoggettiva» della fenomenologia. Il tema del corpo assume
infatti in Patočka una rilevanza tale da costituire uno dei tratti più originali
della sua prospettiva fenomenologico-esistenziale. Procediamo per gradi. Per
comprendere come l'esistenza-nell'apparizione, ovvero il modo di essere
dell'uomo come «soggetto», sia strutturalmente una esistenza corporea, ci sembra
utile prendere le mosse dalla riflessione «triangolare» che Patočka conduce (in
maniera esplicita o implicita) con Descartes, Husserl e Heidegger, intorno a ciò
che significa, autenticamente, l'io. La fondazione cartesiana del cogito, nella
sua ambigua connessione con il sum, con la concretezza esistenziale
dell'io, e la metafisica sostanzialistica della res cogitans e della res
extensa, si collocano all'origine del dualismo moderno tra «anima» e
«corpo», dell'oscillazione tra spiritualismo e materialismo che
così spesso ha contraddistinto il pensiero post-cartesiano.
Patočka riconosce a Descartes di aver realizzato una svolta essenziale rispetto
al filosofare dell'antichità, anche nella prospettiva di ciò che sarà, molto più
tardi, la fenomenologia; di fatto, con il cogito la filosofia acquista,
per la prima volta in modo chiaro, la forma di un sapere «in prima persona»:
«Il cogito ergo sum è una conoscenza che non può essere trasmessa in modo
impersonale. [...] il cogito come risultato è inseparabile dalla
situazione personale e dal progetto del suo creatore; può essere ripetuto, ma
non può essere convertito in un teorema oggettivo, a meno di perdere il suo
senso proprio».22 «Scoprendo»
l'io concreto e personale come centro del discorso filosofico, il Descartes
delle Meditazioni metafisiche rappresenta un nuovo inizio della
speculazione occidentale; tuttavia, «questo secondo inizio della riflessione,
così straordinariamente nuovo, non porta immediatamente a una filosofia
personale; al contrario, esso porta ad un'estesa cosificazione,
all'oggettivazione del pensiero stesso e, nell'ambito di questa oggettivazione,
a un salto radicale che scavalca l'esperienza del corpo proprio in quanto
vivente, realmente fungente».23
Descartes appare a Patočka, in questa ottica, come un Giano bifronte, un genio
che «scopre» e insieme «occulta» (com'era Galilei per Husserl) 24 e
nel quale, alla fine, l'occultamento prevale sulla scoperta, il pathosdell'oggettività
metafisico-scientifica ricopre la dimensione della soggettività concreta e
vivente. Ma risultano particolarmente interessanti alcune considerazioni che
Patočka svolge sul contenuto fenomenologico del cogitocartesiano e sullo
schema ontologico di fondo che ne orienta il percorso argomentativo. Com'è noto,
al termine dell'esperimento del dubbio universale, con l'attestazione dell'ego come
certezza esistenziale indubitabile, l'ipotesi scettica radicale viene scartata
definitivamente, ma Descartes stesso si pone il problema di determinareche
cosa sia questo «io» la cui «esistenza» è certa.25 «In
un certo senso la conclusione indica la priorità dell'esistenza sull'essenza; ma
l'esistenza, espressa nel sum, existo, va considerata subito come
atto posizionale, atto di realizzazione dell'essenza. Così si perde il carattere
personale del sum» .26 Se
la distinzione tradizionale tra essentia ed existentia vale
innanzitutto per gli enti nel mondo, per le cose, la determinazione
esistenziale dell'ego viene fin dall'inizio situata da Descartes
nell'orizzonte della res-substantia, come sostrato permanente di
proprietà e attributi. A questo punto, dopo aver escluso dalla sfera fondante
della soggettività le dimensioni concrete del corpo e della percezione
sensibile, per la loro opacità e inaffidabilità cognitiva, Descartes coglie nel pensiero (cogitatio)
l'unico attributo essenziale della sostanza-soggetto, di quella res del
tutto peculiare che è l'«io» .27
Lo spessore ontologico della soggettività, che si era affacciato nella certezza
del sum, si «spersonalizza» così in un polo sostanziale pensante, sebbene
Descartes mostri un'autentica sensibilità fenomenologica (pre-husserliana)
distinguendo le diverse forme e modalità che la res cogitans può assumere
(affermazione, negazione, volontà, immaginazione, sensazione ecc.), rimanendo
sempre lo stesso ego.28 Tra
le pieghe del cogito e della sua grammatica concettuale, Patočka ravvisa
un'anticipazione e un primo abbozzo del campo fenomenico, cioè del tema
genuino della fenomenologia, ma anche l'articolazione preliminare (e
storicamente efficace) di quella soggettivizzazione dell'apparire che
Husserl avrebbe poi elaborato e sviluppato pienamente, proprio richiamandosi
all'eredità cartesiana:
Il campo fenomenico in cui l'ente può apparire
per quello che è diventa così una struttura del «soggetto», che si potrebbe
fin d'ora descrivere con l'aiuto della formula moderna ego-cogito-cogitatum. Il cogitatum deve
però presentarsi due volte -- sia come idea che come cosa esterna
alla sfera garantita nel cogito. [...] La soggettività è
caratterizzata da un'auto-appercezione riflessiva nella certezza di sé. --
Anche questo è il senso della tesi per cui lo spirito è «più facile» da
conoscere rispetto al corpo e alle sue determinazioni.
Sappiamo come, in Descartes, la certezza «puntuale» e disincarnata dell'ego emersa
dal dubbio universale riconquisti la verità esistenziale di un rapporto con il
corpo, il mondo e le cose tramite l'analisi dell'idea di Dio (nella struttura
manifestativa del cogito) e il ricorso alla veracitas dei, come
garanzia di corrispondenza oggettiva tra le idee (i cogitata) e la realtà
extramentale. Husserl rifiuta la scissione introdotta da Descartes all'interno
del «piano di apparizione», ristabilendo l'unità tra la coscienza
(trascendentale) e il mondo, nel modo di una multiforme correlazione
intenzionale; egli è però ancora visibilmente «cartesiano» nel conservare la
convinzione che l'«io», il soggetto dell'apparizione, possa attingere la
certezza di sé e dei suoi atti attraverso un'autoriflessione pura, una sorta di inspectio
sui o di «percezione immanente» (innere Wahrnehmung) il cui
«contenuto» (l'egomedesimo) è immediatamente evidente, è assolutamente in
luce.29 Per
Husserl, l'io puro come centro di un «flusso temporale di vissuti» (Erlebnisstrom)
è in grado di cogliersi in una donazione originaria che ha un carattere del
tutto diverso dalla «percezione esterna» (äussere Wahrnehmung), quella
rivolta alle cose e al mondo stesso; quest'ultima, infatti, è sempre
«presuntiva», bisognosa di ulteriore conferma, e dunque costitutivamente esposta
alla possibilità del dubbio, della negazione, dell'essere-altrimenti.30
Per contro, l'evidenza dell'ego, della soggettività trascendentale come
«residuo» della riduzione fenomenologica, è indipendente (almeno in linea di
principio) dalla connessione fattuale-operativa che l'io esibisce con il
corpo proprio e con le cose del suo mondo-ambiente: in Idee I,
riproducendo lo stile «iperbolico» dell'argomentare di Descartes, Husserl
afferma con molta chiarezza che il flusso di coscienza, con il suo ego trascendentale,
è una «sfera di assoluto essere», che come tale non sarebbe toccata, nella sua
struttura più profonda, da un eventuale «annientamento del mondo» (Weltvernichtung).31 Per
usare il linguaggio di Patočka, in Husserl l'«esistenza nell'apparizione» si
fonda sul primato dell'egologico (la «presenza a sé» dell'ego come
certezza intuitiva) e dei suoi caratteri funzionali (le noesi o
atti, in cui la vita dell'ego si dispiega). «La certezza di sé
dell'esistenza dell'ego, del sum, è interpretata come presenza e
questa presenza come originaria auto-donazione, la quale a sua volta richiede un
oggetto corrispondente. E insieme a questo oggetto è supposto anche l'atto di
coscienza, la noesi originariamente coglibile nella riflessione».32
Certo, l'intenzionalità della coscienza si rivela nel contesto delle analisi
husserliane come un'apertura incessante dell'ego sull'altro da sé, e su
se stesso come soggettività corporea, monade, persona, per cui il cogito,
la vita del soggetto, acquisisce ben presto una tessitura concreta che ne marca
inequivocabilmente il distacco tanto dall'io cartesiano, quanto dal «soggetto
trascendentale» kantiano o neokantiano. In ogni caso, per Patočka lo slittamento
dal piano dell'apparire a quello dell'egologia non solo priva il problema della
manifestazione della sua universalità, ma ci fa perdere di vista l'autentica
dimensione esistenziale del sum, il senso stesso dell'«essere» di
quell'ente che esiste nell'apparizione. L'indagine egologica, anche quella
husserliana, rimane dentro l'orizzonte gnoseologico, continuando a cercare l'essenza della
soggettività (la «struttura intuitiva» dei suoi atti, delle sue funzioni, nel
livello di evidenza che li caratterizza), come se l'io fosse una cosa o
un oggetto, sia pure sui generis. Come se vi fosse, realmente, una intuizione dell'io
così come c'è una percezione della cosa o una visione della sua struttura
categoriale. Proprio questo presupposto di una «visibilità» dell'ego in
una pura riflessione (pensiamo qui allo «spettatore disinteressato» di cui parla
Husserl) viene messo radicalmente in discussione dalla fenomenologia asoggettiva
e, in ultima istanza, rifiutato:
In un certo senso, la sfera fenomenica
dev'essere effettivamente fondata sull'ego, o piuttosto sul sum nel
quale l'ego è incluso. Ma questo compito non è realizzabile
sprofondando semplicemente nella contemplazione dell'ego, perché
«nell'ego» come tale non c'è niente da vedere. L'ego si vede,
meglio: si può rendere visibile solo attraverso ciò di cui si occupa, ciò
che progetta e fa nella sfera fenomenica. La sfera fenomenica progetta
l'ente possibile non in un'astrazione che esiste separatamente, ma proprio
in rapporto al sum. È un progetto dell'ente in totalità che quindi
ingloba anche l'ego sumin quanto sum, in quanto centro che si
rapporta a se stesso attraverso tutto il resto. La funzione originariamente
pratica e vitale della sfera fenomenica consiste nel rendere possibile
questo incontro con se stessi.
Uscire dall'egologia significa riconoscere che l'ego sfugge alla
separazione di «essenza» ed «esistenza» e dunque non può essere oggetto di una
conoscenza, di un «vedere», di un'intuizione: ciò lo farebbe infatti ricadere
immediatamente sul piano delle res, dell'identità cosale, e verrebbe meno
proprio il suo sum, l'apertura ontologica che rende possibile il
rapporto-a-sé. Di questa paradossale «invisibilità» dell'io come fondamento
intuitivo ultimo della «coscienza interna del tempo» (innere Zeitbewusstsein)
e della vita soggettiva trascendentale aveva in qualche misura consapevolezza lo
stesso Husserl, che si era a lungo confrontato con le aporie fenomenologiche
della riflessione, intesa come «scissione egologica» (Ich-spaltung) tra
un io-soggetto e un io-oggetto.33 Ma
Patočka afferma che nell'ego, come tale, non c'è nulla da vedere,
se si vuole coglierlo riflessivamente alla maniera di un oggetto o di un tema
teorico; al contrario, l'ego si lascia vedere, si rende «visibile» come
esistenza, attraverso ciò di cui si occupa e che progetta, ovvero in un contesto
pratico-vitale. La luce del sum, la sua forma di rivelazione, è la prassi,
intesa non solo come «azione» o «comportamento» rispetto alle cose, ma, più
profondamente, come articolazione unitaria e globale di un interesse per il
proprio essere: «La concezione dell'ego come indice personale nel sum permette
di andare oltre [il soggettivismo husserliano], verso l'essere il cui aspetto
ontologico interno è l'«ogni volta mio» (Jemeinigkeit). Ciò significa che
l'ego non è niente di più del carattere ontologico dell'ente che è
interessato al suo essere, che esiste temporalmente ed è in movimento».34
Il sum dell'ego è nient'altro che la struttura esistenziale di un
ente che non semplicemente «è», come le cose, ma «ha da essere», in quanto è
essenzialmente interessato al suo essere, non-indifferente ad esso, e dunque in
movimento, verso ciò che costituisce il suo autentico «sé». Sotto questo
aspetto, il contributo fondamentale e irrinunciabile di Heidegger alla
fenomenologia è di aver dissociato rigorosamente il rapporto-a-sé dell'«io»
dall'idea di datità in originale o di semplice presenza, de-teoricizzando il
soggetto e, al tempo stesso, dischiudendo la sfera fenomenica (in cui l'ego stesso
è compreso) come un orizzonte dinamico di possibilitàesistenziali:
Se anche in Heidegger il contatto con sé è uno
sguardo riflessivo, ciò che guida fin dall'inizio questo sguardo non è
l'idea di una constatazione della presenza data, ma quella di un essere
necessariamente rimandato a se stesso nella realizzazione del proprio
essere, nell'assunzione delle possibilità comprese e colte, in
un'auto-realizzazione che non è un [mero] fare, una manipolazione di sé,
bensì la scoperta originaria della possibilità propria.
Secondo Patočka, la prospettiva fenomenologica di Heidegger resta nel campo
della «riflessione», ma è «guidata dall'idea di un essere che è,
interamente, la sua prassi»,35 che
è «pratico» nella sua radice ontologica più profonda; per il «soggetto umano»
(ma Heidegger utilizza il termine Dasein) il rapporto-a-sé si configura
quindi, riflessivamente, come un'assunzione (un «farsi carico») del
proprio essere, tramite la comprensione delle possibilità autentiche e in vista
della loro realizzazione. D'altro canto, e qui si manifesta chiaramente
la rottura heideggeriana con la tradizione metafisica, la «realizzazione» di una
possibilità umana non è il riempimento di un'essenza già data e disponibile: se
la dimensione della possibilità viene in luce attraverso un rapporto al mondo
(come totalità) intessuto di rimandi pratici, l'esistenza come «progetto» si
apre e si chiarisce soltanto nella prassi che, sempre di nuovo, pone in gioco
l'essere del Dasein. Sotto questo aspetto l'«essenza» dell'ego è
la sua esistenza stessa, la dinamica esistenziale che lo «mette in opera» come
essere-nel-mondo.36
Patočka dunque accoglie, nelle sue linee di fondo, il carattere aperto e
dinamico dell'essere-nel-mondo tratteggiato da Heidegger in Essere e tempo,
come un passaggio decisivo per il superamento del soggettivismo e per la
comprensione di quella «esistenza nell'apparizione» che costituisce il modo di
essere dell'uomo. Di fatto, Heidegger ha per la prima volta configurato il movimento
dell'esistenza sottraendolo a un sostrato e tematizzando l'integrale
costituzione pratico-progettuale del sum: il «cartesianismo» di Husserl
appare così alle spalle. Tuttavia, Patočka rimprovera a Heidegger un approccio troppo
formale all'analisi del movimento esistenziale, che ha come esito più palese
un'elaborazione insufficiente e difettiva delle strutture fenomenologiche che vi
sono necessariamente implicate; in particolare, l'analitica esistenziale
heideggeriana sembra muoversi in una singolare eclissi della corporeità,
come dimensione ontologicamente originaria dell'essere-nel-mondo. Scrive infatti
Patočka: «Sembrerebbe che l'analitica renda l'ontologia heideggeriana troppo
formale. La prassi è effettivamente la forma originaria della chiarezza [della
manifestazione], ma Heidegger non prende mai in considerazione che la prassi
originaria dev'essere per principio l'attività di un soggetto corporeo,
che la corporeità deve dunque avere uno statuto ontologico che non può
identificarsi con la datità del corpo come presente qui e ora [il corpo
considerato come oggetto o cosa]».37 Heidegger
ha «scoperto» e declinato la vita dell'io come prassi originaria «in vista del
proprio essere», oltrepassando decisamente il coscienzialismo della
fenomenologia trascendentale, ma ha nello stesso tempo trascurato (e «oscurato»)
il carattere corporeo della soggettività. Il sum è infatti, nel suo senso
ontologico fondamentale, l'esistenza di una soggettività corporea,
«incarnata». E anche qui la riflessione del filosofo ceco ci permette di
cogliere un gioco di luce e ombra, di manifestatività e occultamento, nel modo
radicalmente diverso di affrontare il tema del corpo proprio (Leib),
del soggetto come corpo, da parte dei due corifei della fenomenologia tedesca.
Se l'«idealista» Husserl ha dedicato un vasto impegno analitico alla
delucidazione fenomenologica del corpo soggettivo, offrendo una serie di
spunti e variazioni in grado di incidere notevolmente sulla «filosofia del
corpo» del Novecento, l'«esistenzialista» Heidegger sembra ignorare o
misconoscere l'ontologicità del corpo, ciò che Patočka definisce lo
«statuto ontologico della corporeità», ovvero il fatto che è come corpo, nel corpo
e attraversoil corpo che l'ego (o, se si preferisce, il Dasein)
si realizza come essere-nel-mondo. Disincarnando il sum, Heidegger non
solo si vieta la comprensione più concreta del movimento dell'esistenza, ma
dimostra di essere, almeno su questo punto, più «formale» e «cartesiano» di
Husserl. Per contro, quest'ultimo rivela da molteplici prospettive la corporeità
dell'ego trascendentale in quanto soggetto che ha un mondo (o, nel
linguaggio gnoseologico di Husserl, lo «costituisce»), ma, proprio per questa
ragione, il modo di essere corporeo dell'io, in quanto è nel mondo, nel campo
di apparizione, resta non tematizzato e non chiarito (nonostante Husserl abbia
posto indubbiamente le basi descrittive per questa chiarificazione).38 In
definitiva, la fenomenologia asoggettiva deve collocare le nozioni heideggeriane
di «autenticità» e «verità» dell'esistenza sul terreno concreto della
corporeità, in quel dramma costituito dal movimento esistenziale di una
soggettività corporea: «se la corporeità ha uno statuto non soltanto ontico, ma
ontologico, il dramma dell'autenticità, il dramma della verità dell'esistenza
deve concretizzarsi in un rapporto con questa dimensione della vita».39
4. Essere-nel-mondo come movimento: dinamica dell'esistenza e dimensioni della
corporeità 
La nozione di movimento costituisce il nucleo centrale e l'elemento più
caratterizzante e originale della prospettiva fenomenologico-esistenziale di
Patočka. La definizione della sua fenomenologia come fenomenologia dinamica è
certamente la più pregnante: se infatti «fenomenologia asoggettiva» è una
formula tesa soprattutto a tracciare una linea di demarcazione rispetto alla
fenomenologia tradizionale (husserliana) e a sostenere l'esigenza di un'indagine
rivolta all'apparire come tale, «fenomenologia dinamica» vuole appunto
evidenziare questa centralità del movimento per l'autocomprensione della
fenomenologia e per la sua effettiva declinazione esistenziale. D'altra parte,
come è stato giustamente rilevato, la «fenomenologia dinamica», se non vuole
essere solo un titolo suggestivo ma una reale e feconda direzione di ricerca,
deve fondarsi su una dinamica fenomenologica, cioè su quel «movimento»
(o, più esattamente, «movimenti») che ha luogo nella sfera fenomenica o piano
dell'apparizione e che, sviluppato nelle sue dimensioni fondamentali e strutture
di senso, viene a coincidere con l'esistenza stessa (il movimento è, nella sua
essenza, manifestazione).40 Qui
ci interessa fermare alcuni aspetti della concezione patočkiana dell'«esistenza
come movimento» che più direttamente si connettono al tema della corporeità, in
modo che emerga con chiarezza da un lato l'ineludibilità ontologica del corpo
(il movimento dell'esistenza è, innanzitutto, la dinamica di un io corporeo),
dall'altro come proprio l'approccio fenomenologico «asoggettivo» (in cui l'ego non
costituisce più il fondamento dell'apparizione, ma ne dipende in maniera
essenziale per effettuare il movimento della sua esistenza) permetta di concretizzareradicalmente la
vita del soggetto.
Abbiamo visto che, sulla scia di Heidegger, Patočka attribuisce alla vita
dell'io, come «referente» dell'apparizione, un carattere eminentemente pratico.
Interessato al proprio essere, non-indifferente alle modalità che esso può
assumere, l'uomo è un ente essenzialmente capace di verità, la sua vita
può essere una vita-nella-verità.41 La
«verità» dell'esistenza umana non è dunque un rapporto teoretico, contemplativo
con un contenuto dato, ma è la comprensione delle possibilità
fondamentali dell'uomo e la decisione che, facendosene carico, le
realizza, in una direzione o nell'altra. In Che cos'è l'esistenza? , la
struttura esistenziale della soggettività si lascia afferrare nel suo carattere
dinamico tramite il confronto con la nozione aristotelica di movimento, che
presuppone un sostrato determinabile e una determinazione tramite un eidos,
una «forma». Aristotelicamente, il «movimento» è un passaggio dalla potenza
all'atto che si scandisce come determinazione della materia attraverso la forma.
Per l'io come esistenza, il «movimento» avviene propriamente senza un sostrato e
la realizzazione di una possibilità esistenziale non è semplicemente il tradursi
in atto di una finalità naturale che già sempre era presente (l'eidos),
ma l'aprirsi e il manifestarsi dell'essere stesso dell'«io»:
L'«io» non è un sostrato passivamente
determinato dalla presenza o dall'assenza di un certo eidos, da una
«forma» o una «privazione»; è qualcosa che si determina da sé e, in
questo senso, sceglie liberamente le sue possibilità. «Liberamente», cioè in
maniera tale che ciò che è -- la possibilità realizzata -- è in verità,
l'«io» nel suo essere [...] vive nella possibilità che ha aperto e che è
effettivamente. «Essere» non significa dunque «essere dato», ma scegliersi,
crearsi nella verità, divenire, rendersi ciò che si è.
Il sum dell'io è l'apertura di un campo di possibilità, e la «verità»
dell'esistenza è il movimento della sua realizzazione («diventare ciò che si
è»). Patočka coniuga strettamente libertà e verità nella sua
visione dinamica dell'essere-nel-mondo; com'è noto, c'è un movimento specifico
della vita umana (il cosiddetto «terzo movimento», esistenziale al massimo
grado) che ha come centro focale la questione della verità come autocomprensione
della finitezza 42 ed
è quello da cui nasce la filosofia, la domanda filosofica di senso. Intanto, va
riscontrato come la de-sostanzializzazione del cogito come rapporto a sé
e l'invisibilità dell'ego al di fuori del comportamento pratico che lo
relaziona al mondo e alle cose rendano impossibile ancorare il movimento
dell'esistenza, la «realizzazione» delle possibilità dell'uomo, ad una essenza
pre-esistente che funga da modello o da riferimento normativo. «L'esistenza non
progetta le sue possibilità in modo da averle oggettivamente davanti a sé in una
rappresentazione, ma realizzandole, attualizzandole. Per questa ragione,
l'esistenza può essere determinata come movimento».43 Il
movimento come esistenza non è una dinamica di autorealizzazione generata
e sostenuta da un telos o una forma oggettivamente dati, ma un libero processo
di apertura e articolazione di possibilità nell'ambito di ciò che appare. Sotto
questo aspetto, il movimento è disvelante, è la forma eminente del comprendere
nel mondo, è quella «libertà» come prassi originaria che illumina il senso delle
cose.
Ma la libertà dell'io, pur svincolata da un'essenza cui dovrebbe adeguarsi, non
è una facoltà creatrice di senso e nemmeno, come talvolta sembra affermare
Heidegger, una pura trascendenza, una «progettualità» che continuamente si
proietta all'esterno, un incessante uscire da sé. Piuttosto, la libertà di un
essere finito, le possibilità della sua esistenza, restano tributarie (per il
loro senso e la loro estensione) alla sfera fenomenica e si delineano unicamente
al suo interno, come lo stesso Heidegger aveva assicurato. Per usare il
linguaggio heideggeriano, non è la libertà del Dasein ad aprire
(sovranamente) le possibilità del nostro essere, ma è, al contrario, il mondo (la
luce del mondo) a renderci comprensibile la libertà come libertà concreta e finita.
Il mondo, cioè le possibilità del nostro
proprio essere come essere essenzialmente «estatico», non ci è aperto dalla
nostra libertà propria; ma è la libertà ad essere aperta dalla comprensione
dell'essere, insieme a tutto il resto del contenuto fenomenico del mondo.
Non siamo noi, o il nostro esserci (Dasein), che in un progetto di
mondo diamo senso a come ci rapportiamo agli enti e a quali enti ci
rapportiamo; di questo noi siamo tributari alla comprensione dell'essere, al
fenomeno come tale.
Quando si tratta della libertà bisogna certo rifiutare l'oggettivismo e la
metafisica, ma anche, forse, eliminare i residui di «soggettivismo» che
permangono nella fenomenologia di Essere e tempo e che lasciano cospicue
zone d'ombra su come il «movimento dell'esistenza umana» (o, equivalentemente,
l'essere-nel-mondo) abbia effettivamente luogo e senso. Rigorosamente parlando,
l'io non è un «progetto di mondo», ma un progetto di esistenza nel mondo e sulla
base del mondo (cioè un dispiegarsi e formarsi ontologicamente all'interno di
vincoli, possibilità e rimandi pre-tracciati nella sfera dell'apparizione):
Non sono io a progettare il mondo di
possibilità; ma siccome sono un essere di possibilità, ancorato nel mondo,
la possibilità del mondo, il campo di possibilità del mondo mi interpella.
Nessun essere finito è capace di creare delle possibilità [...] il progetto
delle possibilità proprie non è una creazione originaria di possibilità, non
è un progetto di mondo, ma semplicemente un progetto della mia
esistenza sulla base del mondo.
Emerge una struttura fondamentale dell'esistenza umana, nel suo legame
originario e inscindibile con la sfera del fenomeno: l'io è «ancorato» nel
mondo, in quanto il suo movimento si realizza in esso, ma il mondo non è uno
sfondo neutro per l'esercizio della mia libertà, ma mi interpella, mi
«chiama in causa», sollecitando (inizialmente in un senso non morale) la mia responsabilità.
Il mondo come «campo di possibilità» si presenta come un orizzonte strutturato e
ricco di senso, nel quale il mio corpo gioca un ruolo decisivo. Patočka
coglie la «trascendenza» e differenza fenomenologica radicale dell'esistenza
rispetto alle cose nell'impossibilità di manifestarsi come un contenuto
autonomo: l'«io» è il movimento realizzante di una vita originariamente pratica.
Ma, nel campo fenomenico, il sum si manifesta sempre come io corporeo,
come corpo proprio:
Il sum non è una cosa nel senso che non
può mai apparire in modo autonomo, ma solo in rapporto e in connessione con
i comportamenti relativi alle cose. Così esso appare sempre come io
corporeo, agli stimoli del quale il corpo che appare è capace di obbedire,
nel senso che il corpo in quanto egologico risponde a un richiamo
fenomenico, soddisfa o cerca di soddisfare [anche nel senso del riempimento]
un'esigenza posta dalla cosa che appare, che si apre dinanzi a me (qui ciò
che va realizzato si annuncia come carattere «oggettivo», come
insoddisfazione, mancanza di riempimento). Le connessioni operative, le
occasioni, il materiale che mi si offre mi attirano o mi respingono, e
questa attrazione e repulsione che hanno luogo nel campo fenomenico sono
«riempite», realizzate, e realizzate dal mio corpo.
La struttura elementare del sum è dunque l'identificazione
pratico-esistenziale con il corpo, in quanto mio corpo: ma è interessante notare
che la corporeità dell'io non è qui assunta muovendo da un «sentire», da
un'auto-affezione della soggettività, da un analogon della percezione e
della coscienza, che garantirebbe ancora una certa separazione o indipendenza
dell'ego dalle cose e dal mondo. Più radicalmente, l'esistenza si rivela
come corporea, come il movimento di una soggettività corporea, lungo le linee
di forza del campo di apparizione, nel dinamismo globale di ciò che appare e
«oggettivamente» attrae o respinge, nelle pieghe e nei rimandi che
il materiale fenomenico predispone e che offrono direzioni e sviluppi possibili
alla libertà dell'io. Naturalmente, questa curvatura oggettiva imposta dal campo
di apparizione alla vita dell'ego non significa che esso sia in balia
delle cose che appaiono o di forze estranee che lo sovrastano; tuttavia, l'io
può scoprirsi libero solo come essere-nell'apparizione e come «soggetto» alle leggi
dell'apparire, può compiere il suo movimento vitale solo «rispondendo» alla
dinamica interna dei fenomeni, ritagliando per così dire la sua autonomia in uno
spazio di significati e di forze che non crea né può alterare, ma al quale è assegnato.
Essendo una semplice «porzione» del campo dell'apparire, un «momento» di una
struttura dinamica molto più vasta, più profonda e oggettivamente preponderante,
la soggettività umana si trova, fin dall'origine, in una situazione di minorità
e di dipendenza rispetto all'«ente in totalità», al mondo.44 La
fenomenologia asoggettiva è la rivelazione della finitezza dell'io come
essere-nel-mondo. Ma, per Patočka, la manifestazione della finitezza
esistenziale è, al tempo stesso, l'apparire-a-sé del soggetto come corpo. Se
l'io è, come si è visto, il movimento della sua realizzazione («diventare ciò
che si è»), il corpo proprio funge da motore del movimento e
«realizzatore» delle possibilità che si aprono nel piano di apparizione.
È infatti la corporeità, l'esperienza originaria dell'essere-un-corpo, ad aprire
il senso della possibilità finita, articolando la forma più elementare, e
tuttavia decisiva, del movimento di una soggettività. L'auto-movimento dell'io,
come movimento che si realizza nella luce del mondo, nella chiarezza delle cose
che appaiono, è, innanzitutto, un potere di agire sul corpo e attraverso il
corpo, muovendolo: il senso della «possibilità», per l'io, si manifesta nella
mobilità del corpo proprio, nella «capacità di muoversi» di cui l'io
originariamente dispone in quanto non semplicemente ha un corpo, ma è corporeo
nella sua più intima costituzione ontologica. Solo tramite il corpo un
essere-nel-mondo può avere delle possibilità, può rapportarsi a se stesso
(rapportandosi al mondo) nella forma del poter-essere più proprio, dell'apertura
esistenziale-dinamica che lo distingue essenzialmente dalle cose. Peraltro, le
cose del mio ambiente vitale quotidiano (gli «oggetti» della percezione) sono
sempre date «contestualmente» al corpo e al movimento corporeo, ed è grazie all'io
posso sotteso all'esperienza del corpo proprio che il senso delle cose si
rivela per me, come un «appello», un invito all'azione realizzante:
È chiaro che è solo perché io posso che
le cose si scoprono a me nel contesto di questo «potere», come ciò che ne fa
il gioco, la realizzazione, possibile o impossibile; ma comunque, se l'io
che può si mostra nel suo «potere», è solo perché le cose implicano dei
richiami alla realizzazione. La datità della cosa e i richiami alla
realizzazione sono co-originari. Non avrei alcuna possibilità se non avessi
dei mezzi in vista delle mie possibilità, in vista dei miei fini; vale a
dire che senza la mia azione non potrei scoprirmi io stesso, «aprirmi»,
comprendermi, non più di quanto le cose potrebbero mostrarsi.
Se Heidegger ha dunque ragione di coniugare strettamente il darsi delle cose (i
«fenomeni») all'orizzonte operativo del Dasein, al suo essere il
«soggetto» di una praxis mondana, l'esautorazione della corporeità dal
piano delle strutture ontologico-esistenziali rischia di rendere
fenomenologicamente opaco (o addirittura incomprensibile) proprio il tema della possibilità come
modo d'essere del Dasein. È infatti per un soggetto corporeo che le cose
si fenomenizzano, «appaiono», in una trama complessa di rimandi in cui il Dasein stesso,
nel suo fondo dinamico e progettuale, è coinvolto. È, ancora, per un io che si
coglie come corpo che la libertà, nel senso dell'apertura pratica originaria, è
possibile e operante: «Ogni attività umana è dunque «aperta» (all'ente e al suo
essere). È aperta proprio in quanto attività, cioè movimento che risponde
di se stesso, movimento che prendo su di me come azione. Il movimento è
realizzazione di possibilità. La realizzazione delle possibilità proprie
significa la realizzazione di ciò che, per natura, solo l'uomo può essere -- non
solamente per se stesso, ma anche per le cose. [...] La concezione
dell'esistenza in quanto movimento implica che l'esistenza è essenzialmente
corporea».45 Il
senso mondano e concreto della praxis umana, dalle sue figure più
semplici alle più complesse, appare inseparabile da una fenomenologia
dell'essere corporeo. Leggendo la finitezza dell'esistenza alla luce della
temporalità e della morte, e non anche dello spazio e della corporeità,
Heidegger rimane forse vittima, suo malgrado, della dicotomia cartesiana tra res
cogitans e res extensa: ne deriva una lacuna fenomenologica profonda
che Patočka cerca di colmare. Non è dunque sorprendente che una fenomenologia
del corpo proprio debba ritornare a Husserl, il quale, a differenza di
Heidegger, ha lungamente meditato sulla corporeità o «incarnazione» dell'ego,
muovendo dalla «distinzione fenomenologica fondamentale» tra Körper e Leibincorporata
nella lingua tedesca (corpo fisico-cosale, da un lato, corpo
vivente-soggettivo, dall'altro). Si tratta infatti di de-formalizzare il
movimento esistenziale del Dasein mostrandone la tessitura corporea: il
suo essere, necessariamente, il movimento di un Leib-Dasein, di un
«esserci incarnato». La libertà dell'io nel campo di apparizione è infatti
possibile (e pensabile) solo come libertà di un soggetto corporeo: «In questo
senso, l'essere libero, l'io libero è essenzialmente corporeo. La corporeità
originaria che riguarda un essere libero capace di dire «io», di chiamarsi
soggetto, è dunque la corporeità soggettiva».46
Patočka sottolinea ripetutamente, con accenti descrittivi sempre nuovi, questo
carattere corporeo del movimento dell'esistenza, approfondendo e radicalizzando
in senso fondamental-ontologico le minuziose (e spesso illuminanti) analisi
husserliane della Leiblichkeit. Come in Husserl, nella fenomenologia
patočkiana del corpo proprio agisce anche una volontà di recupero degli strati
originari della vita soggettiva, nel suo «fungere» percettivo, precategoriale e
prescientifico; tuttavia, fin dall'inizio l'ottica di fondo non è gnoseologica,
ma esistenziale, e gli stessi «dati» fenomenologici acquistano perciò una
diversa valenza. Nelle Lezioni sulla corporeità, dialogando con Husserl,
Patočka inserisce immediatamente (senza isolare astrattivamente un io puro come
«soggetto trascendentale» dei vissuti e porsi, poi, il problema di dotare
questo ego di un corpo) la corporeità nel «sé», come una sua componente originaria,
globale e irrinunciabile per esplicarne, fenomenologicamente, la «vita», la
struttura concreta di esperienza:
L'ego nella struttura ego cogito
cogitatum non è altro che un termine che esprime in maniera implicativa,
globale, l'essere proprio [il sé] in funzione e corporeo. In questa
coscienza di sé implicativa, pre-riflessiva, l'unità della visione e
dell'azione compiuta è un nesso originario, che precede tutte le connessioni
empiriche. Non si può sostenere che sia solo l'esperienza ad insegnarci che
l'io che percepisce è lo stesso che si muove e agisce. Se fosse questo il
caso, quale sarebbe l'unità alla base dell'esperienza che è pur sempre la mia esperienza?
Ciò significa che l'io non è una rappresentazione puramente formale; non è
semplicemente, esclusivamente la base di tutte le condizioni di possibilità
dell'esperienza; esso è piuttosto un orizzonte suscettibile di
esplicazione, potendo ricevere un'esplicazione di cui la corporeità fa parte
in maniera inseparabile, fondamentale.
L'unità esistenziale dell'io, ciò che rende sempre possibile parlare
della mia esperienza del mondo e delle cose (la «soggettività» del campo
esperienziale in Husserl, l'«esser-sempre-mio» dell'orizzonte della possibilità
in Heidegger), poggia su una sintesi originaria di visione e azione,
su una «forza rivelativa» che precede la stessa connessione dei dati
d'esperienza e che esprime, già a livello pre-riflessivo, la dinamica di un
essere corporeo. Il movimento del corpo non è soltanto il fondamento dell'agire
nel mondo, dell'attività dell'io, del «potere» che l'io esercita su se
stesso e sulle cose; è anche, specularmente, la condizione della manifestazione delle
cose come «unità sintetiche», come oggetti di percezione, nella loro autonoma
configurazione fenomenica e indipendenza dalla soggettività che li esperisce. È
stato Husserl a connettere il corpo proprio come «organo del movimento» (Bewegungsorgan)
alla vita percettiva e alla costituzione di stabili unità di senso nel decorso
fenomenico,47 per
cui si danno oggetti (le cose della percezione) prima del pensiero e del
giudizio. Sotto questo aspetto, il corpo-movimento ha una funzione
«oggettivante» nella sfera dell'apparizione, mantiene l'io costantemente
ancorato alla «realtà», all'effettività solida del mondo esterno: «Il movimento
sembra quindi essere il punto necessario alla vita soggettiva finita per
sviluppare, partendo da lì, tutte le sue operazioni più soggettive, per
dispiegare la sua distanza rispetto al mondo, senza tuttavia perdersi in questo
scarto. Con il movimento soggettivo, siamo saldamente ancorati nella realtà
effettiva».48
Patočka riprende quindi senz'altro da Husserl questo primato fenomenologico
dell'Ich kann (corporeo) sull'Ich denke (rappresentativo): la soggettività
formale kantiana, che fa astrazione dal corpo, dalla «carne»
dell'esistenza, non riesce a cogliere l'unità reale dell'esperienza dell'io (o
dell'io come esperienza). Il nostro inserimento o radicamento nel mondo avviene
originariamente in virtù del corpo proprio:
Il fondamento delle sintesi d'esperienza non è
un io trascendentale, ma la soggettività incarnata. Noi non siamo
originariamente inseriti nel mondo per le nostre operazioni di pensiero, ma
per il corpo proprio, più precisamente in quanto corpo soggettivo che non si
risolve mai nella riflessione. È il corpo che opera le sintesi d'esperienza,
innanzitutto in virtù della sua facoltà di movimento proprio. Il
potersi-muovere è inseparabile dalle sue operazioni oggettivanti, poiché è
questa facoltà motoria che gli dà la libertà per le cose, la possibilità di
vedere attraverso, al di là dei limiti della sua situazione e della sua
posizione momentanee, di vivere nelle prospettive senza per questo
dissolversi in esse -- di procurarsi, con il suo movimento, una certa
stabilità.
Ma se Husserl concretizza l'ego trascendentale, la sua de-formalizzazione
dell'io non è ancora completa, nella misura in cui, secondo Patočka, occorre
sostituire l'io trascendentale fenomenologico con un soggetto dinamico
totalmente appartenente al mondo e, come tale, finito.49 Ciononostante,
il contributo husserliano a una fenomenologia dell'esistenza corporea rimane
prezioso sotto molti aspetti e permette di rettificare, almeno parzialmente,
l'approccio «troppo formale» di Heidegger all'analisi ontologico-esistenziale.50
5. Soggettività corporea e finitezza esistenziale. 
Vediamo più da vicino il modo in cui la corporeità articola la finitezza dell'io
come esistenza. Innanzitutto, il corpo soggettivo non è soltanto il movimento
della libertà dell'io nel campo fenomenico, ma è, nello stesso tempo,
l'espressione della passività originaria che aderisce
all'essere-nel-mondo. Se le possibilità esistenziali si aprono ad un essere
corporeo (in quanto è movimento), la corporeità non è una dimensione che
liberamente scegliamo, bensì il nostro modo di «appartenere» al mondo, l'essere
che già sempre siamo, la possibilità che si è già sempre realizzata, ciò che dobbiamo
essere per avere delle possibilità (libere). Trattandosi di una
determinazione ontologica essenziale, la corporeità non può essere scelta o
revocata, ma semplicemente assunta, «portata» o «sopportata» dall'io, che
in essa e con essa compie il suo movimento nell'apparizione, cioè esiste.
Scrive Patočka: «Il corpo è esistenzialmente l'insieme delle possibilità che non
scegliamo, ma in cui siamo inseriti, possibilità rispetto alle quali non siamo
liberi, ma che dobbiamo essere. Questo non significa che non abbiano il
carattere dell'esistenza, cioè di ciò che mi è imposto nella sua unicità e che
devo assumere e realizzare. Ma è soltanto sul loro fondamento che si aprono le
possibilità «libere»».51
Heidegger aveva parlato di «essere gettato» (Geworfenheit) e di
«situazione emotiva» (Befindlichkeit),52 per
marcare questo carattere passivo e irreversibile dell'essere-nel-mondo, una
fatticità che precede e rende possibile ogni libertà: l'io umano non inizia da
sé, non è fondamento di se stesso («assoluto»), le sue possibilità si disegnano
su uno sfondo di passività indisponibile. Patočka individua però il limite di
queste nozioni heideggeriane proprio nella loro assenza di riferimento alla
sfera corporea, che le rende fenomenologicamente indeterminate o, comunque,
«formali». Ma il doppio profilo della possibilità nell'esistenza, che distingue
le «possibilità» che posso solo assumere e le «possibilità» che posso invece
scegliere, si salda attraverso lo schema ontologico della corporeità: «Questo
legame è assicurato, ci sembra, dalla corporeità della vita -- ciò che io posso
fare è dato da ciò che mi rende possibile l'azione in generale, ed è la mia
corporeità che qui devo assumere prima di tutte le possibilità libere. [...]
L'azione prende da qui le figure concrete della cura in un certo contesto
storico fattuale all'interno del quale si scoprono in seguito le possibilità del
compito proprio, liberamente ravvisato e scelto».53
Se, per Heidegger, la struttura esistenziale fondamentale del Dasein,
come ente al quale importa del proprio essere, è la cura (Sorge),
e ciò imprime all'esistenza umana una forma dinamica che rompe definitivamente
con il principio dell'essenza-sostanza, il «prendersi cura di sé» (ovvero la libera assunzione
di un compito per l'esistenza, in una determinata situazione storica) poggia e
si chiarisce sulla base della corporeità della vita, della vita come corporeità.
Da questo punto di vista la nozione di possibilità, che Heidegger
giustamente pone al centro del lavoro analitico sull'essere-nel-mondo del Dasein («io
sono le mie possibilità»), manifesta una fondamentale oscurità, un «principio di
indeterminazione» che ne lascia sullo sfondo le figure effettive,
soprattutto quando la «possibilità» (al singolare o al plurale) si stempera
nell'orizzonte formale dell'«essere-in-vista-di». Ecco come Patočka prende
chiaramente le distanze da Heidegger, nella messa a fuoco di questo nodo
cruciale della fenomenologia esistenziale:
L'esposizione di Heidegger [nell'analisi della
struttura ontologica della cura] porta a credere che le possibilità ancorate
nel mio «in vista di che» (io esisto in vista del mio essere, cioè devo
«condurre» la mia vita, realizzare il mio essere in possibilità con le quali
m'identifico compiendole) mi sarebbero direttamente rivelate dal mio «essere
in vista di». Ora ciò che voglio compiere «in vista del mio essere» è
in realtà sempre codeterminato da ciò che devo compiere al fine di
poter compiere qualsiasi cosa in generale. Le mie possibilità sono
possibilità di esistere al mondo, possibilità di muovermi, di proteggermi,
di abitare, di nutrirmi, di assicurarmi la mia sussistenza e quella dei miei
[familiari], di riprodurmi, ecc. e queste possibilità hanno sempre una
figura storicamente variabile ma data, attraverso la quale soltanto
io cerco la mia via e mi metto alla ricerca della mia possibilità propria.
La nozione oscura di «possibilità», cioè di un compito determinato che in
quanto esistenza io posso e devo assumere, comprende al tempo stesso l'«in
vista di sé» originario e il mondo. Io sono all'origine aperto a me
stesso non solo come esistenza, ma già sempre come esistenza al mondo,
esistenza corporea, non avendo qui la corporeità un significato
ontico, ma ontologico.
In altri termini, per Patočka l'accento heideggeriano sulla «realizzazione di
sé», un certo pathos dell'autenticità che percorre alcune sue pagine, la
sottolineatura della libertà originaria dell'esserci di «dare senso» al mondo
nella luce (finita) della praxis, pur cogliendo la dimensione essenziale
dell'esistenza umana come movimento, compito, «ricerca», rischiano di sottacere
(fenomenologicamente parlando) quegli strati di senso e di radicamento senza
cui la stessa libertà dell'«in-vista-di-sé», la possibilità del Dasein di
esistere autenticamente (ma anche l'esistenza inautentica, nelle sue
strutture comprensive), non avrebbero una base ontologica. Questi «strati
concreti» del campo di apparizione, segnalati da Patočka nel passo precedente e
fondamentali per comprendere, nella variabilità delle figure storiche, la
continuità della forma di vita umana, hanno a che fare, in modo
originario, con la corporeità dell'essere-nel-mondo. L'intero campo delle mie
possibilità si apre in quanto io non sono semplice e-sistenza (pura
«trascendenza» nel senso dell'in-vista-di), ma esistenza corporea: il mondo non
è un «progetto» della mia libertà, al contrario, è come essere corporeo che la
sfera della possibilità si rivela immediatamente segnata dal limite (ogni
mio poter-essere presuppone un dover-essere, un «non poter essere
diversamente»). In definitiva, la finitezza esistenziale dell'io su cui
Heidegger ha attirato (pre) potentemente lo sguardo della filosofia può essere
compresa solo «riempiendo» la trascendenza dell'esserci di contenuti corporei,
«incarnandola» in strutture e dinamiche della corporeità.54
Per Patočka, la critica heideggeriana del soggettivismo (evidente già nella
scelta del termine Dasein in luogo dei tradizionali, e filosoficamente
più «compromessi», soggetto o persona) non è stata
sufficientemente radicale. Occorre dunque rifondare l'analitica esistenziale
intorno a quel nucleo fenomenologico originario costituito dal corpo proprio e
dal movimento corporeo: «La chiarificazione che caratterizza l'esistenza è
chiarificazione di un ente corporeo. Certo, ciò non significa, non deve in
nessun caso significare la reintroduzione di un sostrato sostanziale che
comprometterebbe tutto lo statuto ontologico dell'esistenza. La corporeità
sostanziale è, dal punto di vista della conoscenza, il risultato di una
tematizzazione secondaria, ma la corporeità deve avere uno statuto esistenziale
primario, che rende possibile la localizzazione tra le cose e l'azione
esercitata su di esse, così come la ricezione dell'azione esercitata in modo
simile da esse».55 La chiarezza della
forma di vita dell'io come apertura e compito presuppone quindi l'esperienza
dell'essere-un-corpo, l'appartenenza a un contesto ontologico-esistenziale in
cui il corpo non è un ente «semplicemente presente», né uno «strumento», ma è la
vita stessa della soggettività in quanto esiste nel mondo. Patočka mette
tuttavia in guardia dal pericolo di risostanzializzare l'io, facendo del corpo
l'ypokeimenon, il soggetto-sostrato del movimento. La struttura
dell'esistenza corporea non è equivalente al rapporto dinamico tra una res e
le sue proprietà, funzioni, operazioni. La stessa profonda, rigorosa concezione
dinamica dell'essere di Aristotele, della quale Patočka non smette di
evidenziare l'importanza storica e il valore teoretico,56 risulta
inadeguata a comprendere il movimento esistenziale in quanto è un corporeo
essere-nel-mondo; essa resta infatti legata all'idea che il movimento dell'ente,
l'ente come movimento, sia possibile e comprensibile solo se, nel movimento,
qualcosa persiste a mo'di base, sostrato, presupposto (l'ypokeimenon, appunto).
Ma, puntualizza Patočka,
il movimento della nostra esistenza non può
essere compreso in questo modo, esso non è come il cambiar colore di una
foglia, la caduta di una pietra, lo spostamento di una cosa da un posto
all'altro. In questi casi la cosa, la sua unità, è il fondamento e il
presupposto del mutamento che ha luogo in essa, della transizione da uno
stato all'altro. Per comprendere il movimento dell'esistenza umana, dobbiamo
radicalizzare la concezione aristotelica del movimento. Le possibilità che
fondano il movimento non hanno un portatore preesistente, un referente
necessario che sta immobile alla base, ma piuttosto ogni sintesi, ogni
interconnessione dinamica interna è compiuta dal movimento stesso, non da un
portatore, da un sostrato, o dalla corporeità intesa oggettivamente. [...]
La nostra corporeità, in ogni caso, non funziona come un sostrato; il corpo,
che è la base della vita vissuta, non ha il carattere di un'entità
oggettiva. È corporeità vissuta, esistenziale.
Nella fenomenologia dinamica, non si tratta dunque di spiegare il divenire della
vita umana individuando un polo stabile e permanente, che per così dire
«sostiene» il movimento e il mutamento senza esserne toccato, poiché questo
schema esplicativo non coglie il proprium dell'esistenza umana, la
assimila (ontologicamente) alle cose. Poco importa che il cogito cartesiano
e l'Ich denke kantiano cedano luogo ad un soggetto corporeo e mondano,
se, in questo nuovo quadro, continuiamo a pensare il corpo proprio come il
«sostrato» del movimento vitale (o, simmetricamente, il movimento come uno stato
o un attributo del corpo): così ricadiamo nella prospettiva dualistica che
separa l'io dalla sua praxis originaria, il senso della soggettività dal
movimento della sua realizzazione, la verità dell'uomo dall'«essere in vista del
proprio essere» e dunque dalla responsabilità. Ciò che si perde, in altri
termini, è la dimensione radicale dell'esistenza, in cui l'«essere» non è un
oggetto o un'idea afferrabile dall'esterno, ma è incessantemente e totalmente in
gioco nel movimento. Rinunciare alla ricerca del sostrato, della sostanza
che «sta al fondo» del movimento, significa prendere sul serio l'esigenza di non
reificare l'esistenza, non trasformarla in una res. Non basta quindi
«corporeizzare» l'ego, concretizzarlo, se esso viene ancora concepito
come una sostanza o una sostanza-funzione, e non occorre enfatizzare il
«movimento» dell'esistenza, se l'esigenza resta quella di renderla comprensibile
rintracciando un sostrato; piuttosto, nella nuova «analitica esistenziale»
auspicata da Patočka corpo, movimento e possibilità devono formare un plesso
ontologico unitario e internamente articolato.
Se il corpo ha uno statuto esistenziale primario, l'esistenza è interamente corporea
in quanto è interamentedinamica. Il corpo stesso è un processo, e non una
semplice condizione del movimento. Si dovrebbe allora parlare di
corpo-movimento, per sottolineare una identità sul piano strutturale: la
corporeità è la dinamica dell'esistenza, considerata, per così dire, sub
specie corporis, cioè nella prospettiva di una sua determinazione ontologica
essenziale (certamente non l'unica). Il corpo-cosa (o corpo-sostanza) è invece
il frutto di una tematizzazionesecondaria, non originaria, che gode di
una sua legittimità ma può fondarsi e aver senso soltanto nell'orizzonte
dell'esistenza corporea. Ontologicamente il corpo proprio è l' (auto)
appropriazione dell'esistenza, è il movimento della soggettività. È realizzando
le sue possibilità che l'io si realizza come corpo: quest'ultimo non è dunque un
frammento di materia biologica, non è semplicemente un «corpo organico» in
interazione funzionale con il suo mondo-ambiente, ma costituisce l'evento
generativo dell'uomo come esistenza-nell'apparizione. Patočka evidenzia come
l'«essere-in-vista-dell'essere», l'apertura veritativa dell'io in quanto
esistenza, sia effettuale(reale, concreta) esclusivamente in virtù della
corporeità: «La corporeità non è un momento empirico che si potrebbe aggiungere
a questo «essere in vista dell'essere». Al contrario, l'effettuazione
dell'essere che è in vista del suo essere, che effettua la sua vita e
vive in anticipo rispetto a se stesso, è possibile unicamente grazie alla
sua corporeità».57 La
«trascendenza» come temporalità e in-futurazione, per cui il Dasein è «in
anticipo rispetto a sé», pro-teso al senso del suo essere nella praxis originaria,
non è un'evasione spirituale dal mondo: è lo spessore fenomenico ed esistenziale
del movimento corporeo a illuminare il senso della temporalità, offrendo una
base e un fondamento all'esistenza.
L'esistenza-nell'apparizione, si diceva, è strutturalmente finita. Un aspetto
fondamentale di questa finitezza è da cogliere nella caratterizzazione
ontologica della soggettività come bisogno, sulla quale Patočka attira
spesso l'attenzione. Se Husserl aveva giustamente insistito sul Leib come
«centro di orientamento» e punto di riferimento attivo nella mia relazione con
le cose del mondo, va anche considerato che il corpo non è un autonomo potere
trascendentale, bensì un sistema (dinamico) di bisogni:
Il corpo non solamente è un centro attivo,
punto di partenza di un'azione, ma anche il fine di una dinamica: ha fame e
sete, vuole aria, luce, movimento ecc. L'azione, che è una sorta di uscita
dal corpo, vi fa ritorno sotto forma di soddisfazione, ed è nell'opposizione
insoddisfazione-soddisfazione che sta la radice del bisogno. Il corpo
si trova in uno stato di bisogno essenzialmente, non in modo
contingente. Il corpo esige cure ad ogni istante. Nell'attività con cui
persegue i suoi bisogni, esso è anche costantemente rinviato al suo
campo.
Su questo punto, la fenomenologia asoggettiva spinge l'indagine della finitezza
più in profondità rispetto al soggettivismo husserliano (dove peraltro il
fondamento istintivo della vita egologica era già stato tematizzato), rivelando
il legame radicale dell'io corporeo con il campo di apparizione, la sua dipendenza da
ciò che appare, nella prospettiva del bisogno. L'io è, essenzialmente, un essere
bisognoso: ma è nel corpo e attraverso il corpo che si stringe il nesso dinamico
tra la tensione del bisogno e la sua (sempre provvisoria) risoluzione, tra la
forza centrifuga dell'«insoddisfazione» che muove l'io fuori di sé, verso gli
elementi e le cose del mondo, e il suo ritorno a sé, nella «soddisfazione» che
la fonte dell'apparire gli offre e, sempre di nuovo, può offrirgli. Gli elementi
o le forze del campo di apparizione sono ciò che consente all'io di vivere e
mantenersi (esistenzialmente) nell'orizzonte fenomenico, e nella concreta
dinamica del bisogno la «soggettività» si sa tagliata dalla stessa stoffa del
mondo, da cui oggettivamente dipende per la sua esistenza. Il corpo emerge qui
come nodo o evento di una trascendenza-immanenza che è tutta interna al
piano (asoggettivo) dell'apparizione.
Con il linguaggio di Husserl, si potrebbe scorgere nella struttura di bisogno
della soggettività una sorta di intenzionalità originaria dell'essere corporeo,
che corrisponde a un vuoto e a un'esigenza molteplice di riempimento, anche nel
senso più elementare, fisiologico del termine: la fame, la sete, il respiro, il
bisogno di luce ecc. L'io è strutturato come sistema di bisogni differenziati e
organicamente interconnessi, in una dialettica polare sempre aperta di
soddisfazione-insoddisfazione che costituisce la sua peculiare unità di vivente.
Questo dato fenomenologico elementare e quasi banale, si carica filosoficamente
di una valenza più pregnante se letto come prima radice della finitezza
dell'essere-nel-mondo. La «cura» dell'essere-in-vista-di-se-stesso che Heidegger
ha posto al centro dell'analitica esistenziale, come modo di essere del Dasein,
affonda nella costituzione bisognosa dell'essere corporeo: il corpo è
ontologicamente «in stato di bisogno» ed esige in ogni istante quelle cure che,
sole, lo mantengono in vita o, detto altrimenti, in movimento. La temporalità
dell'io, oltre che «coscienza interna del tempo» (Husserl), è un'ex-stasis ontologica
scandita da molteplici bisogni; ma l'articolazione temporale della vita
soggettiva è un «prendersi cura» (e ancor prima, un «ricevere cura» dall'altro)58 che
risponde, per così dire, alle «estasi» della corporeità. Quest'ultima è
essenzialmente rinviata, tramite la base istintiva e i canali sensoriali, al
campo di apparizione come orizzonte della sua soddisfazione sempre di nuovo da
conquistare: placare la fame, estinguere la sete, ripararsi dal freddo, godere
della luce e dell'aria ecc. L'«odissea» dell'io nella sfera fenomenica è
caratterizzata, al livello più basso e quotidiano, dalla cura del corpo, intesa
come quell'attività fondamentale e multiforme che ha di mira la
soddisfazione dei bisogni corporei. Se, per mezzo del corpo, siamo in grado di
modificare e trasformare la realtà, inserendoci attivamente nel flusso materiale
delle cose, il movimento della vita sarebbe assolutamente cieco e votato al
fallimento se il corpo non orientasse l'io «rivelandogli» i suoi bisogni
primari, cosicché la vita assume immediatamente come scopo se stessa prima
di qualsiasi sapere tematico e riflesso: «Unicamente per mezzo del corpo, di un
corpo che siamo in grado di governare direttamente -- possiamo essere attivi nel
mondo e partecipare realmente ai processi di modificazione delle cose che vi si
svolgono. Ma la corporeità è orientamento anche in un altro senso: con i suoi bisogni il
corpo fa sì che la vita assuma per scopo se stessa e che le oggettività le
servano come mezzi a questo scopo».59
Il movimento della vita umana, la sua autoconservazione e riproduzione nella
sfera delle attività «finalizzate», del lavoro, della cooperazione, ha un senso
solo dentro l'orizzonte della corporeità e risulta incomprensibile al di fuori
di esso. Certo, non può ancora essere questa la «cura di sé» nel significato
esistenziale profondo, che ha implicazioni notevolmente più complesse e ravvisa
una «totalità di senso» rispetto alla quale l'identità bio-funzionale
dell'essere corporeo è una semplice premessa e condizione. Ma, già esaminando la
«nuda vitalità» del soggetto, il bisogno non è un dato che afferisce alla
biologia o alla psicologia; dietro la pluralità dei bisogni si addensa il nucleo
originario della finitezza umana, ed è ciò che l'analisi fenomenologica deve
cogliere preliminarmente. Nel bisogno la libertà dell'uomo si scopre finita:
Nella sua forma quotidiana, la libertà è
libertà nell'ambito del ritorno periodico e della soddisfazione dei bisogni.
Ma al di là della soddisfazione che si riproduce a intervalli regolari, c'è
un bisogno fondamentale di un essere corporeo. La dipendenza permanente,
invincibile, dell'essere corporeo non è un sapere oggettivo, ma una pulsione
primordiale, un «non poter essere senza...». Dietro il bisogno c'è la
finitezza dell'esistenza corporea. La libertà è essenzialmente corporea; in
quanto corporea è essenzialmente soggetta al bisogno; in quanto soggetta al
bisogno è essenzialmente finita e mortale. La finitezza dell'essere corporeo
è così implicata in ogni movimento, per quanto insignificante questo possa
apparire.
La libertà si attua su uno sfondo di dipendenza radicale, dentro un vincolo
permanente e insuperabile, che tuttavia non le è prescritto dall'esterno, ma che
essa stessa è (nel suo «accadere»), e non è altro che la sua corporeità,
in quanto bisognosa. Il «non poter essere senza...», questa pulsione primordiale
che marca la condizione umana, è il contrassegno della finitezza corporea. Nel
passo precedente Patočka racchiude in poche battute il complesso gioco di
rimandi che lega tra loro alcune delle parole-chiave del lessico
fenomenologico-esistenziale: libertà, corporeità, bisogno, finitezza, mortalità.
Nel confronto con la costellazione heideggeriana della finitezza, questa radice
corporea della cura non va mai dimenticata: la finitezza come mortalità o
essere-per-la-morte non è forse la «destinazione» dell'essere-un-corpo, il senso
inevitabile della sua dinamica esistenziale? Né occorre, almeno all'inizio,
contrapporre astrattamente alla cura del corpo la cura dell'anima (il
grande tema della filosofia europea),60 come
se l'esistenza umana non fosse movimento corporeo anche quando si muove e
si articola nella dimensione della verità del sé (come anima o spirito). Anche
da questo lato la fenomenologia esistenziale di Patočka si rivela una
fenomenologia von unten proprio perché l'«asoggettività» che ne
costituisce il filo conduttore metodologico è essenzialmente la messa in scena,
nella pluralità e ricchezza dei suoi aspetti, del movimento esistenziale
corporeo.
6. L'esistenza e lo spazio: la proto-struttura personale e l'esperienza come
interpellazione. 
Ma per approfondire il modo in cui la prospettiva asoggettiva della
fenomenologia patočkiana si salda strettamente ad una «riscoperta» dell'io come
esistenza corporea, dobbiamo accostarci al tema della spazialità originaria.
Alla problematica dello spazio Patočka ha dedicato una riflessione
intensa e articolata, mirando innanzitutto a recuperarne pienamente il valore
filosofico-esistenziale, contro la pretesa della scienza di ridurlo a formalità
oggettivo-matematica, ma anche prendendo le distanze da talune «metafisiche
dello spazio» (ad esempio quella bergsoniana). La lezione di Husserl sulla
«percezione dello spazio» (Raumwahrnehmung), sull'esperienza percettiva
concreta delle relazioni spaziali,61 che
precede la loro categorizzazione scientifica, viene rimodulata tramite
un'accentuazione della dimensione ontologica. Per Patočka la spazialità è,
originariamente, un modo d'essere dell'io, una forma del dispiegarsi della vita
soggettiva:
La coscienza che siamo nello spazio, nei
contesti dell'estensione, assume una struttura specifica che non ha nulla in
comune con l'estensione oggettiva nello spazio (partes extra partes).
C'è una differenza fondamentale tra essere nello spazio come una parte di
esso, accanto ad altre cose, e vivere spazialmente, nella
consapevolezza di essere nello spazio, in relazione con lo spazio. [...] la
spazialità vissuta del nostro corpo non può consistere nelle sue relazioni
oggettivamente geometriche in quanto cosa. Il nostro corpo è una vita che è
spaziale in se stessa e da se stessa, producendo la sua localizzazione nello
spazio e rendendosi spaziale [spazializzandosi].
La distinctio phaenomenologica tra «essere nello spazio» (come una sua
parte) ed esistere spazialmente ci offre il punto di partenza per
comprendere il ruolo chiave del corpo nella rivelazione del senso più profondo
della spazialità. Mentre la cosa è semplicemente nello spazio, accanto ad
altre cose nel dominio dell'estensione oggettiva, l'io «è spaziale» in quanto vive
spazialmente; il movimento dell'esistenza ha una relazione intima e
originaria con lo spazio, nel senso che è dalla sorgente ontologicamente
spaziale del soggetto che scaturisce il suo rapporto concreto e quotidiano con
le cose nello spazio (nell'«orizzonte aperto» del mondo). Le geometria oggettiva
del mondo esterno è una costruzione formale che presuppone, come base di senso,
lo spazio vissuto della soggettività incarnata, il contesto operativo del corpo
proprio come «punto-zero dell'orientamento», come già Husserl aveva mostrato
nella sue analisi genetiche. Ma ciò non significa «soggettivizzare» lo spazio,
né trascendentalmente facendone una universale struttura ricettiva, né, tanto
meno, empiricamente considerandolo un precipitato delle percezioni. Anche qui,
occorre spezzare il cerchio della gnoseologia per afferrare il carattere
onto-fenomenologico della spazialità. Il nostro corpo, scrive Patočka, è «vita
spaziale in se stessa e da se stessa»: è in quanto corporei che siamo spaziali e
in costante rapporto con lo spazio, compiendo il nostro movimento nella sfera
fenomenica.
Corpo e spazio si intrecciano strutturalmente in ogni figura e modalità
del movimento: le forme elementari della «prossimità» e della «distanza», le
coordinate del mondo-ambiente (destra-sinistra, alto-basso ecc.), la grammatica
originaria del nostro «orientarci nel mondo», trovano nella corporeità il loro
campo di emergenza e di giustificazione. L'io come persona, ovvero
quell'essere peculiare che è capace di riferirsi a sé, di auto-relazione, non è
concepibile senza una relazione con altro, una localizzazione:
«L'auto-relazione implica il corpo soggettivo in quanto una delle sue funzioni
di base è determinare che noi siamo da qualche parte e dove siamo. Ciò non può
essere compiuto da un io puramente mentale/spirituale -- un tale io non può
essere da qualche parte».62 Non
solo, quindi, il soggetto dell'autoriferimento non può essere una mente
disincarnata o uno spirito puro; ma il corpo vivente proprio, nella sua
fenomenicità originaria, non può essere un «corpo oggettivo», una cosa tra le
altre cose nello spazio, poiché il contatto esperienziale con le cose (spaziali)
si fonda sulla spazializzazione corporea, sull'esistenza come spazialità.
Si tratta allora di riconoscere che l'alternativa tra «soggettività» e
«oggettività» non appare in grado di chiarire il senso asoggettivo dell'esistenza
corporea dell'io nel campo di apparizione. Ma è proprio l'analisi della
spazialità che ci dà un contributo decisivo in questa direzione, mostrandoci al
tempo stesso la connessione con la dimensione intersoggettiva del
movimento esistenziale e svelando altre linee strutturali della finitezza del soggetto.
Nell'importante scritto del 1960, Lo spazio e la sua problematica,
Patočka, oltre a tracciare sinteticamente una «storia genetica» del concetto di
spazio secondo uno spirito non difforme da quello che aveva animato Husserl
nelle sue riflessioni su L'origine della geometria, individua le radici
fenomenologiche di questo concetto nella struttura dell'essere-nel-mondo, nel
suo modo di essere spaziale. La prima forma di spazialità dell'io è un
esistenziale e pre-geometrico essere-in, un «dentro» originario che
corrisponde a una sorta di principium individuationis: è quella relazione
tramite la quale il soggetto, individuandosi, si «separa» dagli altri enti solo
per (ri) entrare e integrarsi nella totalità dell'ente (mondo, universo). Il
soggetto, considerato nella sua genesi, è questo movimento vitale del
rapportarsi ad altro, dislocandosi nell'orizzonte dell'apparizione.
La dis-locazione è la proto-spazializzazione dell'essere-nel-mondo: è ciò
che realizza l'«inscrizione» in una totalità, l'appartenenza a un contesto
globale.63 Ma,
così declinato, l'essere-in primordiale non può costituire una posizione
spaziale oggettiva, un luogo univocamente determinato e inconfondibile (come il
punto di un sistema geometrico): il «dentro» originario è anche, essenzialmente,
un «fuori», «è tutto insieme e nella stessa misura dentro e fuori».
Non si tratta dunque di una localizzazione esatta, di un tracciamento rigoroso
di confini e distanze:
È il «dentro» di un universo che conosce
differenze più intensive che estensive; un «dentro» commistione di sé
nelle cose e delle cose in se stessi piuttosto che una delimitazione precisa
dello spazio occupato da questo o quello. In breve, il «dentro» originario
non è una relazione puramente e semplicemente esterna, geometrica. É ciò
che dirige tutti i nostri rapporti con le realtà marcando ciò che sarà
per noi vicino o lontano. Contiene già una comprensione preliminare degli
enti che ci interpellano e con i quali ci comprendiamo. Se chiamiamo «mondo
della nostra vita» lo schema generale di tutto ciò che, nel nostro ambiente,
può interpellarci, di tutto ciò che compie una funzione nel progetto della
nostra vita (in quanto mezzo, membro di una serie di mezzi, fine momentaneo
o durevole) in virtù della quale lo comprendiamo, l'«in» o il «dentro»
originario significa «nel mondo», «al mondo». È la disposizione originaria e
la disponibilità per ciò con cui entriamo in contatto.
Questa disposizione originaria al contatto, in virtù della quale gli enti ci
interpellano e ci riguardano, in una comprensione preliminare non tematica,
secondo relazioni qualitative di prossimità e distanza, non è altro che
la nostra apertura al mondo. Ogni successivo e più preciso ordinamento spaziale
dell'esperienza prende le mosse da qui, dal terreno mobile della Lebenswelt,
dalla spazialità del quotidiano commercium con gli enti nel mondo.
Se dunque lo spazio della geometria o della fisica, qualunque fisionomia assuma,
rappresenta il prodotto di una «idealizzazione», lo spazio del vissuto è,
innanzitutto, quella trama relazionale che ci rivela le cose come
«significative» (in diversi gradi e modalità) in relazione alle possibilità del
movimento corporeo. È l'apertura ontologica al mondo come piano della
manifestazione (o, nell'accezione forse più concreta, «mondo della vita») a
costituire originariamente, per noi, il senso dello spazio.64
Ma vediamo meglio come si articola, al suo interno, la spazialità originaria del
campo di apparizione e quali conseguenze rilevanti ne derivano per l'analisi
fenomenologica della soggettività (e intersoggettività) corporea. Nei suoi testi
Patočka menziona a più riprese una struttura personale primordiale (io-tu-esso)
che plasma l'esperienza dell'io, una sorta di «trascendentale del riferimento».
Questa struttura, che ha il suo luogo naturale di esercizio nella sfera
linguistica e discorsiva (la funzione dei pronomi personali), risulta, a
un'indagine più attenta, necessariamente implicata anche nella comprensione
della nostra sensibilità e corporeità. Abbiamo incrociato, in queste pagine, il
carattere «interpellante» dell'essere-nel-mondo, emerso in prima battuta come
un essere appellati dai fenomeni del campo di apparizione, dai suoi
«centri di significato» e dalle sue «linee di forza», il che conferisce al
nostro movimento nell'apparizione una forma «responsiva»: il movimento
dell'esistenza, come essere-nel-mondo, è un originario, costante e
pluridimensionale rapporto con l'altro e conaltri. Ciò apre del
tutto chiaramente alla relazione intersoggettiva, cioè al contatto con altre
persone, altre soggettività, al cui «prendersi cura» si deve, come vedremo, il
«radicarsi» stesso dell'individuo nel mondo. Ma l'interpellazione è una
struttura universale e non concerne soltanto la comunicazione (linguistica
o pre-linguistica) con un altro ego, anche se quest'ultima ne rappresenta
certamente lo strato fenomenologico più evidente e più ricco di senso. Patočka
la coglie innanzitutto esplicitando il senso esistenziale di «dentro» che
caratterizza il Dasein e identificandola addirittura con la legge
fondamentale dell'esperienza:
La proto-struttura io-tu-esso è un
carattere originario di ogni «dentro», ciò che ci è già sempre familiare
nello svolgimento di ogni esperienza, quale che sia: la forma primordiale di
ogni esperienza. Il pronome personale non è qualcosa di derivato, che
sostituisce i nomi (e le cose). È, al contrario, più originario di tutti i
nomi e di tutte le cose. La legge del pronome personale è la legge
primordiale dell'esperienza che appare quindi come interpellazione; l'interpellazione
non è una semplice metafora, ma l'essenza stessa dell'esperienza. L'io e
il tu sono le forme originarie della prossimità; l'«esso» è la forma
dell'allontanamento o della distanza.
Fenomenologicamente, Patočka pone l'accento sull'originarietà del pronome
personale nella strutturazione del campo di apparizione: nella grammatica
dell'esperienza, i pronomi (ossia le funzioni personali, i riferimenti alle
«persone») non sono sostituti o surrogati dei nomi (e delle cose che i nomi
rappresentano), ma vengono prima, hanno una priorità rivelativa, aprendo
quello spazio relazionale e dinamico in cui soltanto le cose (e i nomi che
linguisticamente le esprimono) possono costituirsi come unità di senso. Io,
tu, esso sono le parole-matrici, le forme originarie in cui si articola il
linguaggio dell'esperienza. Ma non si tratta solo di espressione linguistica:
le cose dell'esperienza sono già sempre immerse in questa atmosfera
inter-soggettiva e i modi stessi della loro manifestazione, del loro apparire,
sono «personalizzati», contengono cioè un rimando strutturale (un «appello») ai
soggetti come persone. L'interpellazione, al di là dell'ovvio senso di una
relazione comunicativa tra due soggetti concreti che si rivolgono la parola
(«io» e «tu»), è qualcosa di assai più profondo di una metafora: il mondo è essenzialmente un
campo pronominale e ogni esperienza (fenomenica) che ha luogo nel mondo possiede
questo tratto costitutivo interpellante. L'esperienza umana è «interpellazione»
in quanto la proto-struttura io-tu-essorisulta inseparabile dal senso
ontologico dell'essere-nel-mondo.
Come abbiamo letto, Patočka distingue l'«io» e il «tu» come forme
originarie della prossimità, l'«esso» come forma dell'allontanamento o
della distanza. In tale ottica, lo spazio primordiale è l'articolarsi
dell'esperienza in rapporti di prossimità e distanza, secondo varie sfumature
semantiche e differenti gradi di intensità. I pronomi personali, compresi
esistenzialmente, non sono enti già definiti che entrano in relazione tra loro,
in un contesto neutro; al contrario, ogni «relazione» tra enti, ogni «posizione»
di una cosa all'interno del piano di apparizione presuppone il gioco
spaziale-dinamico dei pronomi. «Io», «tu», «esso» formano quindi dimensioni
dell'appariretra le quali si instaura una complessa dinamica di rapporti,
rimandi, scambi, stratificazioni, secondo la ricchezza manifestativa del mondo
della vita. Senza approfondire questo nucleo tematico, che meriterebbe
un'indagine più puntuale, vediamo come esso contribuisca in modo decisivo a
ridescrivere «asoggettivamente» l'essere-nel-mondo. Il «dentro»,
l'essere-situati, contrassegno della dipendenza e finitezza della condizione
umana, appare innanzitutto caratterizzato dall'oscillazione dell''«io» e del
«tu»: nonostante la visione dell'idealismo e del soggettivismo moderni, sul
piano della manifestazione il «tu» è più originario dell'«io» (che inizialmente
resta nascosto e indeterminato) ed è il lato esperienziale che emerge per primo,
offrendo un punto di riferimento relativamente stabile nell'orizzonte mobile e
ancora indistinto dell'apparizione (possiamo pensare, a titolo di semplice
esempio, alla familiarità della voce materna per il bambino). La finitezza
esistenziale dell'io appare qui, molto chiaramente, come bisogno dell'altro,
esigenza di «appoggio» e radicamento in un tu:
L'io è semplicemente co-dato, come ciò a
cui il tu è dato. L'io è dunque, per essenza,
indeterminato per sé stesso, mentre il tu gli appare nelle
determinazioni, le proprietà, le relazioni e i momenti affatto chiari e
oggettivi, perché esposte allo sguardo. Il soggetto attivo del vissuto è
essenzialmente indefinito, nascosto ai propri occhi. Ciò che egli riceve in
primo luogo dall'oggetto, dall'altro, è il minimo di determinatezza propria
senza la quale non avrebbe il sentimento di essere integrato nel complesso
omogeneo della realtà.
Il «tu» è quell'«altro» di cui abbiamo bisogno per orientarci nel mondo e
mettervi radici, in tutte le sue figure possibili. Ma, più in generale, esso
corrisponde a tutto ciò che sta di fronte e mi interpella, nella
prospettiva del senso (non ancora dell'«oggetto» nell'accezione più
rigorosa del termine), lungo il continuum di una gamma emotiva che muove
dall'intimità e familiarità assolute fino all'estraneità e all'opposizione più
estreme. Patočka infatti rileva come l'originaria relazione io-tu assuma la
forma di una polarità attrattiva o repulsiva, di un movimento marcato
affettivamente: «Il rapporto tra l'io e il tu è di attrazione e
repulsione, in ogni caso di direzione -- indice della possibilità che la
prossimità ha di aumentare o diminuire. La prossimità aumenta fino al punto che
il tu sia per me pienamente se stesso [ciò che è] -- una rosa pienamente
una rosa, e non un semplice fiore nel paesaggio-ambiente; un individuo qualunque
una persona ben conosciuta, o anche un'apparizione sorprendente, nuova, che si
impone, ecc. ».65 Il
«tu», così inteso, non è l'alter ego, o il suo volto: è l'intero spettro
fenomenologico della prossimità con cui gli enti emergono dal campo di
apparizione, nella loro vivente forza semantica. Viceversa, un altro io, una
persona in carne e ossa, può essere da me esperita nella forma dell'esso,
della distanza, del lontano o indifferente, di ciò che sta sullo sfondo e non ha
«rilievo» (anche questo secondo gradi diversi). L'«esso» è la terza persona originaria.
C'è, chiaramente, una transitività che permette, nell'esperienza delle cose, il
passaggio dal «tu» all'«esso»: ad esempio, la rosa ricevuta dal proprio
innamorato può (ri) diventare un fiore qualsiasi dell'ambiente esterno, una cosa
tra le cose, un «esso» che lascia a distanza. Tra il «tu» e l'«esso» si dà
dunque passaggio e scambio. Questa reversibilità sembrerebbe invece del tutto
esclusa nel caso dell'«io» e del «tu»: come potrei traspormi nella forma del
«tu», annullare d'un colpo la differenza che ogni prossimità, anche la
più radicale, presuppone? Patočka individua in questa «disparità assoluta»,
apparentemente insormontabile, l'archetipo di ogni soggettivismo. Il primato
dell'io (gnoseologico, fenomenologico o funzionalistico) che tanta parte ha
avuto nella costruzione del «discorso filosofico della modernità» ricava una
quota consistente della sua legittimità da questa asimmetria originaria dei
pronomi personali che articolano il senso della prossimità (l'«io» e il «tu»).
Nella sfera primordiale del vissuto, infatti, l'io non appare come un elemento
del campo fenomenico: è presente ma per se stesso «invisibile», suscitato solo
dalle linee di forza del campo, dalle figure molteplici del «tu». A questo
livello, si nasconde nelle azioni, nei comportamenti pratici, al punto
che la sua «estrazione» dal flusso d'esperienza richiede un movimento
controcorrente (quella che lo stesso Husserl chiamava riflessione). L'io
si configura qui come un vedere che non viene visto, uno sguardo puro sul mondo:
è, come direbbe Husserl (ma vi si può ritrovare la traiettoria teoretica
dell'idealismo moderno, nelle sue varianti), un soggetto-per-il-mondo che
non è, al tempo stesso, un soggetto-nel-mondo.
L'io diventa così uno «spettatore» dello spettacolo del mondo (e di se stesso come
«io empirico», parte rilevante dello spettacolo): la «soggettività
trascendentale», il soggetto come (auto) fondamento, come gesto della separazione dal
mondo in vista della sua vera fondazione (da Descartes a Husserl) prende
origine da questo ritirarsi dello sguardo (originario) dall'apparizione, per
lasciare apparire gli enti; la «riduzione fenomenologica» non significa altro
che la (ri) conquista di uno sguardo puro, non mondano, sul mondo delle
cose. Ora, nota Patočka, questa ottica così autorevole e feconda di sviluppi
funziona solo al prezzo di cancellare, a favore dell'originarietà dell'«io»,
l'originarietà del «dentro», la spazialità entro la quale la stessa relazione
dell'io con il tu (e con l'esso) ha luogo. Lo «sguardo puro» è uno
sguardo senza spazio, da nessun luogo. Inaugura un soggetto di fronte al
mondo che, tuttavia, non può rientrare nel mondo, farne parte,
proprio perché le linee prospettiche del mondo, le sue dimensioni inclusive
(spazializzanti), non lo toccano realmente:
Visto così, l'io non è nel mondo ma di
fronte al mondo, davanti a una prospettiva e al di fuori di essa.
Affinché il soggetto sia effettivamente nel mondo, e non soltanto di fronte
al mondo, gli esseri devono essere realmente, essenzialmente,
intercambiabili, anche se le loro funzioni non lo sono. Solo una tale
intercambiabilità di principio, in virtù della quale l'ionon è
semplicemente il soggetto puro dell'appercezione, può far sì che l'io sia
al tempo stesso cosa tra le cose, che sia «dentro» come tutto il resto.
Husserl, nella Krisis, parlava dell'«io assolutamente unico e fungente»,
dell'«io originario» (Ur-ich), ovvero lo strato più profondo della vita
trascendental-soggettiva, come di una soggettività essenzialmente indeclinabile.66L'Ur-ich è,
in un certo senso, un io che opera esclusivamente al nominativo, una «prima
persona assoluta», che non è dunque una persona-nel-mondo e per la quale quale
non avrebbe senso ammettere una pluralità, se non per un mero fraintendimento.
Certo, lo stesso Husserl è ben consapevole che questo io originario, che nella
sua funzione ultima di centro di un flusso temporale di esperienza non può mai
diventare un «tu», è anche, per ragioni di principio, strutturalmente identico all'io
personale, che ha un corpo e un luogo nel mondo.67 Ed
è ascrivibile a Husserl (allo Husserl della «fenomenologia soggettiva») la
trasformazione concettuale e metodologica dell'«astratto» ego trascendentale
della tradizione in una intersoggettività monadologica, per la prima volta resa
accessibile analiticamente nelle sue dimensioni costitutive più concrete
(dalla temporalità alla percezione, dalla corporeità alla generatività, ecc.).68 Ma
resta il fatto che, fino all'ultimo, Husserl ha difeso con tenacia
(programmaticamente se non negli esiti effettivi delle sue indagini, che portano
spesso in altre direzioni) la prospettiva di un soggetto non mondano, che certo costituisce il
mondo e vi si installa, ma, almeno a qualche livello, non gli appartiene:
una soggettività che si coglie (e non può non cogliersi) anche come io dentro il
mondo (in quanto corporeo-spaziale), ma che, almeno nella «finzione
metodologica» dell'epochè trascendentale, dal mondo può considerarsi
«assol (u) ta», svincolata. Così possiamo riannodare il filo della riflessione
patočkiana sulla svolta asoggettiva della fenomenologia, cogliendone altri
aspetti originali e, comunque, degni di discussione e di approfondimento.
Torniamo al testo precedente: ciò che immette il soggetto pienamente nel mondo,
esonerandolo dal ruolo di «spettatore disinteressato», è la prospettiva dell'intercambiabilità degli
enti. Essa affiora, in modo abbastanza naturale, elaborando ulteriormente la
struttura dell'interpellazione e il dinamismo intrinseco dei pronomi. È evidente
che non posso trasferirmi direttamente nel tu (in un «tu» qualsiasi) abbandonare
la mia «singolarità» di persona unica e inconfondibile (un «io», appunto), né
avrebbe senso. Ma, se il passaggio dall'io al tu, così concepito, è per me
impossibile, non lo è quello inverso, che conduce dal tu all'io, nel
senso che il mio io può essermi dato, in una peculiare tipologia di
esperienza, nella forma del tu (e quindi anche nella forma dell'esso).
Pur rimanendo sempre, in quanto «io», nella prospettiva della prima persona,
dalla quale non posso realiteruscire, se non dissolvendo la struttura
stessa della mia esperienza, esiste altrettanto incontestabilmente una
datità del mio io alla seconda (e alla terza) persona. Questa dualità dell'io,
che è ben diversa dalla classica differenza tra «io trascendentale» e «io
empirico», si fonda e si rende comprensibile unicamente sul terreno della
corporeità:
Questa dualità del nostro io, che è
capace di assumere ugualmente le forme del tu e dell'esso, è
fondata nella sua corporeità. L'io che è nel mondo è un io
corporeo. Colto come io corporeo, è, fin dall'inizio, della
stessa natura del tu e dell'esso, di tutte le altre cose. La
forma dell'io è per lui una semplice prospettiva, una funzione che
non contrasta con questo carattere fondamentale, né lo complica in nulla. Al
contrario, è su questo fondamento che si dispiega del tutto naturalmente il
rapporto dell'io con un certo numero di tu privilegiati, con
le persone che ci interpellano ed esercitano su di noi un'influenza
particolarmente profonda e intima. Il tu è qui compreso come un
altro io di cui io sono il tu. La situazione, inizialmente
unilaterale, diventa simmetrica -- cesso di essere nel ruolo di colui che è
semplicemente interpellato, divento io stesso, nello stesso tempo, colui che
interpella. Questa reciprocità instaura allora, in tutte le relazioni tra le
persone, l'equilibrio richiesto dalla relazione «dentro».
Ancora una volta l'essere-corporeo dell'io costituisce un'indispensabile chiave
di lettura per comprenderne non solo le strutture esistenziali dinamiche, ma
anche le più elementari distinzioni categoriali, già sempre innestate nel nostro
linguaggio. La «reversibilità» delle forme pronominali, evidente in qualunque
situazione intersoggettiva («io» sono il «tu» o l'«esso» di un altro io,
che appunto mi coglie in prossimità o a distanza), è una diretta
conseguenza della corporeità. L'interpellazione, come «legge fondamentale
dell'esperienza», presuppone la spazialità, la co-esistenza dell'«io» e
del «tu»;69 ma
il modo originario di essere-spaziale dell'io non è altro che la sua vita
corporea. È come corpo che l'io «vive» lo spazio e lo «abita». Ma è attraverso
il prisma dell'intersoggettività che le molteplici rifrazioni della corporeità
diventano visibili e aprono nuovi scenari analitici: di questa connessione
originaria e multi-stratificata della corporeità con l'intersoggettività Husserl
aveva dato un ampio saggio nei suoi scritti inediti, e la stessa fenomenologia
della corporeità proposta da Patočka non sarebbe concepibile senza il
«retroterra» delle analisi husserliane. Tuttavia, in Husserl la cornice della
soggettività trascendentale (anche determinata concretamente come
inter-soggettività trascendentale) impedisce di operare in modo completo e
coerente quella simmetrizzazione dei pronomi personali che, secondo
Patočka, deriva dalla struttura corporeo-spaziale dell'esistenza. In quanto
corporeo, l'io possiede, fin dal principio, la medesima natura del tu e
dell'esso; la forma dell'«io» è una semplice prospettiva, che originariamente
co-esiste con altre, cosicché il campo di apparizione ha una curvatura
intersoggettiva e interpersonale che rende il soggetto dell'apparire
immediatamente declinabile e «declinato».
La corporeità è quella declinazione dell'io, che lo espone alla trama del
mondo e lo offre allo sguardo dell'altro. Ma non bisogna pensare ad un «io» che
sussista prima di questa spazializzazione, di questa «caduta» (sia pure
metaforica) nell'apparizione e nella corporeità; dire «io» (esprimere o sentire
la mia esistenza) significa articolare la proto-struttura «io-tu-esso»
nel senso della prima persona, ma solo come una prospettiva «dentro» il
campo fenomenico. Prospettiva inevitabile, ma sprovvista di qualunque «primato»
o «antecedenza» rispetto alle altre due, sul piano logico, gnoseologico o
ontologico. Certo, a seconda dell'angolazione descrittiva assunta, da cui
tematizzare il gioco dinamico e «dialettico» tra i pronomi personali, possono
crearsi gerarchie e priorità relative (ad esempio, abbiamo visto che
geneticamente il «tu» emerge prima dell'io, per la sua essenziale «visibilità»);
è però vero che, globalmente, la comprensione di sé come un «io», una
soggettività, implica questo equilibrio simmetrico delle persone, nello
spazio-mondo dell'apparire, in cui gli enti si danno come intercambiabili.
Solo se l'io non fosse, ontologicamente, corporeo l'ipotesi di una soggettività
trascendentale costituente che «si mondanizza» senza essere originariamente dentro il
mondo (l'«io» come puro vedere) avrebbe una qualche legittimità.
Per il filosofo ceco, un pensiero fenomenologicamente conseguente della
corporeità giunge, necessariamente, a infrangere le barriere del
trascendentalismo soggettivo. Il campo di apparizione si rivela come asoggettivo,
non-egologico, poiché il soggetto dell'apparizione è sottoposto alla «legge
fondamentale dell'esperienza» come tutti gli altri enti: è «dentro», anche nella
massima intensità del suo sforzo di auto-riflessione, anche nell'esperimento
metodico radicale dell'epochè husserliana, la quale, correttamente
riformulata, non fa altro che «illuminare», senza poterla minimamente alterare o
sospendere, questa appartenenza radicale dell'io al mondo. Nonostante sia il
referente dell'apparizione, l'essere cui gli enti appaiono nella dimensione
della totalità, l'io è e rimane un essere del mondo. La postura
soggettivistica dello sguardo puro, che considera il mondo come un di fronte (un
«fuori» che la coscienza trascendentale dispiega nella sua intenzionalità)
dimentica la struttura finita dell'esistenza-nell'apparizione e della
«riflessione» come rapporto-a-sé. Per contro, la finitezza ontologica è la luce
a-soggettiva in cui il soggetto appare, già sempre sotto lo sguardo
dell'altro.70
7. Corpo-soggetto e corpo-oggetto: intersoggettività e critica dell'«immanenza
pura». 
Esplorato alla luce della proto-struttura, il corpo proprio (quello che Patočka,
seguendo Husserl, chiama spesso «corpo soggettivo» o «corpo vivente») mette allo
scoperto una «oggettività» dell'io che appare, che ovviamente non può essere
quella della metafisica oggettivistica o della moderna scienza della natura. Una
paradossale «oggettività soggettiva» che corrisponde alla finitezza
dell'essere-nel-mondo e che rende possibile la comunicazione tra le persone e lo
sviluppo di una comunità umana. Come lo stesso Patočka gli riconosce, Husserl
aveva lucidamente afferrato la centralità del corpo per la questione
dell'intersoggettività; nel suo programma filosofico-trascendentale,
l'auto-esperienza di sé come un Leib (e non un semplice «corpo fisico», Körper)
e l'esperienza percettivo-analogica del corpo dell'alter ego, di una
soggettività «altra», formavano una sorta di plesso fenomenologico
primario, a partire dal quale il grande compito della «costituzione del mondo oggettivo»
(un mondo che, come dice Husserl nella V Meditazione cartesiana, «esiste per
tutti e i cui oggetti sono accessibili a tutti»)71 avrebbe
potuto essere assolto.
In proposito, sono note le analisi husserliane dell'«empatia» (Einfühlung)
come «esperienza dell'estraneità», il cui nucleo fondante è costituito
dall'«appaiamento» (Paarung) del mio corpo con un altro corpo vivente,72 in
un campo di percezione che, con l'artificio metodologico della «riduzione alla
sfera appartentiva», si presenta come un campo esperienziale esclusivamente
mio, assolutamente «privato» (ovvero depurato da ogni riferimento
intenzionale ad altri soggetti, diversi da me). Si tratta di un passaggio
delicato e discusso, dai tratti fortemente aporetici, perché riguarda la
possibilità e i limiti di una fondazione dell'«oggettività» (nelle varie
accezioni che il termine comporta) nell'immanenza della vita del soggetto; anche
se, va ricordato, la fondazione fenomenologica del mondo oggettivo che
Husserl persegue ha ormai oltrepassato i presupposti «dualistici» e «deduttivi»
che inficiavano, almeno in parte, l'analogo tentativo cartesiano delle Meditationes.
Patočka si confronta frequentemente, nei suoi scritti, con la teoria husserliana
dell'«intersoggettività trascendentale», evidenziandone, di volta in volta,
risorse descrittive e difficoltà interne,73 com'è
tipico del suo dialogo teoreticocon le «due fenomenologie» che lo hanno
preceduto. A noi interessa, presentemente, vedere il modo in cui Patočka
interviene sulla distinzione tra «corpo-soggetto» e «corpo-oggetto», già
delineata da Husserl, ma, a sua opinione, insufficientemente elaborata; di
fatto, «l'esperienza del corpo-oggetto gioca un ruolo di primo piano
nell'esperienza dell'altro. È proprio con l'esperienza del corpo-oggetto che io
divengo cosa tra le cose, allo stesso livello degli oggetti che mi si presentano
nelle mie prospettive».74
L'esperienza di sé alla terza persona, che si manifesta nel modo più
profondo e compiuto nel contatto reale con un altro io (che mi «oggettiva»
nella sua esperienza di soggetto), passa attraverso questa
auto-assunzione del corpo proprio come corpo-oggetto. Il corpo è, in quanto mio,
non solo «soggettivo», espressione della mia libertà incarnata e del movimento
esistenziale che io sono, ma è anche, per ragioni di principio legate alla
struttura situazionale dell'esperienza, un «oggetto», una cosa del campo di
apparizione, sebbene sui generis. La dualità semantica del «corpo» non si
risolve linearmente nella distinzione tra Körper e Leib, perché
quest'ultimo è, in sé, attraversato da una doppia modalità di manifestazione,
«soggettiva» e «oggettiva», che gli aderiscono intimamente, strettamente
intrecciate. Husserl ha messo in luce sotto vari angoli prospettici come
l'incontro dell'io con l'altro (inteso qui come un altro io) dipenda
essenzialmente dalla dimensione oggettiva del mio corpo, dal fatto che esso sia
anche un ente esteso e percepibile, spaziale. Altrimenti, come potrei cogliere
nel corpo «là», che si manifesta nel mio campo di percezione, un analogon del
mio corpo organico, e dunque un «portatore di soggettività», come me? Il
corpo-oggetto è dunque l'autentico elemento di continuità che pone in contatto e
in comunicazione due soggetti, due persone. La corporeità è un vettore che mi
dis-loca (spazialmente) tra le cose, ma, proprio per questo, è anche il «veicolo
della socialità», una struttura mediale o un ponte che mi collega alla
soggettività dell'altro, rendendomela accessibile: «Di fatto, è certo che la
comunicazione intersoggettiva si svolge esclusivamente per mezzo del
corpo-oggetto. La funzione più essenziale della corporeità sta indubbiamente
proprio in questa mediazione che la rende il veicolo della socialità la cui
importanza cruciale è ovvia e possiamo evitare di discutere».75
Il nesso tra l'(auto) esperienza corporea (corpo-soggetto e corpo-oggetto) e la
costruzione dell'orizzonte sociale-comunicativo tra i soggetti umani appare
dunque imprescindibile. Anche in Husserl il corpo, nella sua concretezza
esperienziale, è il mediatore universale della socialità: è esclusivamente in
quanto corporei che possiamo «riferirci» gli uni agli altri, comunicare,
articolare cioè un mondo comune. Non potendo infatti penetrare
direttamente nella vita psichica dell'altro, nel suo flusso temporale di
vissuti, non posso che leggere nel suo lato oggettivo e visibile (la corporeità,
appunto) gli «indizi» di una soggettività diversa dalla mia: nelle posture, i
movimenti, le espressioni, i gesti di quel corpo «là» scopro allora un altro
centro di esperienza del mondo. Non un «secondo me», una mia duplicazione o
proiezione, ma un altro io, un'autonoma e libera sorgente di vita
personale. Senza questa oggettività originaria del corpo (un «esterno» che
rimanda a un «interno») non sarebbe possibile alcuna comunicazione tra me
e l'altro, e, se anche vi fosse realmente nel mondo una pluralità di soggetti
(di «monadi», direbbe Husserl), nessuno saprebbe nulla degli altri. Nessuna
«finestra cognitiva» si aprirebbe, per me, sulla soggettività altrui (né, per
gli altri, sulla mia), se non disponessimo, come base, di questa forma di esteriorità che
è il corpo-oggetto. E l'accento posto sulla spazialità essenziale del corpo
consente a Patočka non solo di «correggere» un punto cruciale dell'analisi
husserliana dell'intersoggettività, ma anche di «contestare» (o, almeno,
ridimensionare notevolmente) quel nettissimo primato ontologico-esistenziale del
tempo sullo spazio che sorregge tutta l'analitica del Dasein di Essere
e tempo.76
L'esperienza del corpo-oggetto e la sua importanza per l'intersoggettività si
rendono meglio comprensibili mirando alla singolare corrispondenza che sussiste
tra le forme di localizzazione legati alla corporeità soggettiva e la
proto-struttura dei pronomi personali. Questi ultimi sono infatti
«traducibili» nel linguaggio della spazialità: «L'«io» è legato
indissolubilmente al «qui», il «tu» al «là» come luogo dell'oggetto tematico,
centrale. Il luogo del «tu» è, nel senso originario del termine, la prossimità
oggettiva». Com'è chiaro, il corpo proprio consente la fissazione di un «qui»
che non è altro che il luogo dell'io, la posizione che esso
corporeamente occupa (possiamo ricordare, in Husserl, la definizione del
«qui» segnato dal corpo soggettivo come un «qui assoluto», rispetto al quale,
percettivamente, tutto il resto è un «là»). Il «tu» viene a indicare,
spazialmente parlando, la prossimità dell'oggetto al mio corpo, secondo
gradi diversi: il «là». Il terzo elemento della localizzazione, il «questo» (che
corrisponde alla spazialità della terza persona, l'«esso», o «egli, ella»),
sorge nel momento in cui il «tu» smette di occupare questo luogo di
prossimità: ad esempio, l'oggetto si allontana da me o io me ne allontano,
oppure ricade, in qualche maniera, nello sfondo indifferenziato dell'esperienza.
Ma «l'opposizione prossimità-allontanamento è una struttura locale
essenzialmente trasponibile: se mi metto al tuo posto, il mio «qui» attuale
diventa per me un «là», e viceversa».77
Per esseri corporei che hanno facoltà di movimento, la polarità
vicino-lontano presenta un carattere fluido e reversibile, all'interno della
situazione intersoggettiva: il mio «qui» attuale è per l'altro un «là», come
potrei verificare (indirettamente) assumendone la posizione. Ma, a quel punto,
il mio nuovo «qui» (sempre marcato dal mio corpo) sarebbe necessariamente un
«là» per l'altro. Insomma, in questo modo si forma e si consolida l'oggettività
del luogo (non ancora geometrica o «esatta») come una spazialità comune,
alla terza persona, che pur manifestandosi sempre nelle forme del «vicino» e del
«lontano», risulta indipendente dal corpo soggettivo che vi «prende
luogo». Soggettività, oggettività, intersoggettività, gli assi fondamentali
intorno ai quali ruota il senso di ogni nostra esperienza, si delineano, in una
dialettica via via più complessa di forme e relazioni, a partire dalla (doppia)
proto-struttura personale-locale, dalla spazializzazione originaria del
campo di apparizione. Scrive infatti Patočka:
Si può dire che la struttura locale definita
dall'opposizione qui-là-questo, o parallelamente io-tu-egli (ella,
esso) è non solo una condizione della comunicazione, ma una condizione
dell'appercezione dell'altro come tale. [...] Ogni oggettività con la quale
possiamo entrare percettivamente in contatto deve rientrare in questa
struttura locale. È una struttura d'oggetto, che però non è oggettiva.
D'altronde, la struttura oggettiva dello spazio è anch'essa, in un altro
modo, una condizione necessaria della comunicazione: essa è ciò che è comune
nella reciprocità di due situazioni d'oggetto, ciò che viene compreso come
il denominatore della loro simultaneità e della loro corrispondenza
reciproca.
Una «struttura d'oggetto» che non è oggettiva, essendo
(trascendentalmente) condizione preliminare di ogni oggettività. Ma, si potrebbe
aggiungere, non è soggettiva, in quanto il soggetto (o,
pluralisticamente, i soggetti) si conforma ineludibilmente alla sua legalità
interna, certo con modalità proprie e specifiche, ma allo stesso titolo di tutti
gli altri enti. La proto-struttura è dunque asoggettiva, e solo in questa
accezione distintiva e critica rispetto alle strutture della «soggettività
trascendentale» può essere definita, a buon diritto, come trascendentale.
In tale ottica, è utile vedere come i «dati» fenomenologici qui raccolti possano
essere fatti convergere, in modo critico, contro una delle principali linee
programmatiche della filosofia di Husserl (in particolare della sua teoria
dell'intersoggettività), che trova uno sviluppo esemplare nella V Meditazione
cartesiana: l'idea secondo cui è possibile la rigorosa fondazione fenomenologica
dell'oggettività, in tutti i suoi strati e gradi di significato, muovendo da una
sfera puramente «soggettiva», immanente, ottenuta tramite una doppia
riduzione fenomenologico-trascendentale (la cosiddetta «riduzione alla sfera
appartentiva o primordiale», cui abbiamo già fatto cenno).
Per Husserl, occorre individuare uno strato ultra-ridotto dell'esperienza
dell'io, già sottoposta a epochèuniversale, dal quale sia assente ogni
elemento o implicazione «intersoggettivi», qualsiasi formazione di senso che
rimandi a uno o più soggetti diversi da me.78 È
chiaro il carattere «artificiale», astrattivo di questa operazione, se si tiene
presente che il senso ontologico del mondo contiene già in sé la «validità per
tutti»; d'altro canto, l'obiettivo gnoseologico di Husserl è mostrare come
questo significato intersoggettivo si innesti sullo strato «appartentivo» del
mondo nel momento in cui un alter ego, con il suo corpo, appare nel mio
campo di percezione. In altri termini (al netto di oscillazioni, ambiguità e
ripensamenti che si possono agevolmente rintracciare nei testi husserliani),79 è
l'alter ego reale e corporeo, a «de-soggettivare» la mia esperienza del
mondo, conferendole il carattere di esperienza comune (e, in questo senso,
«oggettiva»). Se questa tesi fosse giustificata, il «soggettivo» (ovviamente non
in senso psicologico ma trascendentale) godrebbe effettivamente di un primato
nella fenomenologia: l'intersoggettività sarebbe una estensione, necessaria sì,
della «soggettività trascendentale», e ne esprimerebbe la piena concretezza;
tuttavia, essa presupporrebbe una soggettività pura, il cui senso può (e deve)
essere recuperato tramite la riduzione radicalizzata di cui si è detto.
Patočka, come abbiamo in parte visto e come si potrebbe verificare in misura
maggiore attraverso un confronto più ampio con i testi, riconosce certamente
l'originalità e l'importanza delle analisi husserliane dell'esperienza
dell'altro, riprendendone e sviluppandone alcuni risultati. Ma, a suo avviso,
proprio la tematizzazione del ruolo del corpo-oggetto nella fenomenologia
dell'intersoggettività esibisce un argomento forte contro il «soggettivismo» di
Husserl e l'idea stessa di una «immanenza pura». È, per alcuni aspetti, lo
stesso quadro analitico delineato da Husserl a esigerne la ri-descrizione in
termini a-soggettivi. L'appresentazione, termine husserliano che indica
l'«apprensione intuitiva» di un altro io (in virtù dell'associazione di
somiglianza tra il suo corpo e il mio), non sarebbe possibile se il mio corpo
non fosse già dato a me stesso come un corpo oggettivo:
L'appresentazione sarebbe impossibile se io
non fossi già dato a me stesso come un corpo che è nell'oggettività,
nell'alienazione. È qui che sta il significato più profondo, il
significato «trascendentale» della corporeità oggettiva -- questo è il solo
luogo a partire dal quale la realizzazione del tu può prendere le
mosse. La prima e la terza persona sono dei presupposti interni alla
realizzazione della seconda.
Come essere corporeo, sono già sempre «nell'alienazione», fuori, nello spazio-mondo,
preso nel gioco della prossimità e della distanza, inserito in un campo
pluriprospettico il cui centro è (almeno potenzialmente) ovunque: vi è quindi
una oggettività del mio corpo che deriva dalla mia appartenenza al mondo, e non
dall'incontro con un altro essere personale, un «tu» concreto. Al contrario,
rileva Patočka, questo «incontro» con l'alterità, l'esperienza di una
soggettività diversa da me, così finemente analizzata da Husserl nelle sue
componenti intenzionali, è possibile solo perché la struttura dell'esistenza
corporea implica l'auto-estraneazione e l'auto-oggettivazione. Per usare
un'immagine, l'«altro» è originariamente in me, nel cuore della mia
situazione esistenziale, prima di essere fuori di me, nella figura
determinata di un alter ego reale. Naturalmente, il «prima» qui non
indica un rapporto di antecedenza temporale (come se vi fosse prima l'«idea»
dell'altro e poi il contatto esperienziale con un altro «in carne e ossa»);
designa, piuttosto, la priorità della struttura asoggettiva del campo di
apparizione, che si manifesta in modo emblematico nella corporeità. Nonostante
la giusta definizione fenomenologica del mio corpo come «soggettivo» e
«vissuto», non bisogna dimenticare che questo corpo è anche, essenzialmente,
«oggettivo», non nel senso della res extensa o della naturalità
biologica, ma come spazializzazione dell'esistenza, movimento della «vita» e
della «carne» nella dimensione dell'esteriorità.
Se così non fosse, se il mio corpo non fosse originariamente declinabile alla
terza persona, afferrabile a distanza da sé, la realizzazione della
seconda persona, l'esperienza dinanzi a un tu reale, che mi «oggettiva»
in un senso più profondo del termine, non potrebbe prendere forma. Se dunque,
per un verso, resta vero che «l'altro essere, gli altri esseri ci oggettivano
insieme a tutte le altre cose» e «il mondo diventa in questo modo un mondo per
tutti»,80 è
altrettanto vero, in chiave di critica all'impostazione soggettivistica della
teoria husserliana dell'intersogettività, che «questa osservazione sulla
necessità del corpo oggettivo per l'esperienza dell'altro come tale mostra che
non è affatto possibile presentare questa esperienza, nel suo insieme, sul piano
dell'io ridotto alla sua immanenza soggettiva, perché l'io così ridotto è una
soggettività pura che come tale non può avere un terreno comune con un'altra
vita puramente soggettiva».81 In
pratica, argomenta Patočka, affinché l'altro possa esser esperito da me, devo
innanzitutto coglierlo nel suo carattere corporeo, percepirne il corpo, dal
momento che nessun «passaggio» reale mi conduce all'interno del suo flusso
temporale di coscienza (in tale circostanza, del tutto teorica, di una
sovrapposizione dei rispettivi vissuti, io e l'altro verremmo in qualche modo a
fonderci e identificarci). La corporeità è dunque quel terreno comune (o
quel «ponte») che permette la comunicazione intersoggettiva tra i due flussi.
Tuttavia, «questo elemento comune non può essere la semplice apparizione del mio
corpo, che riguarda sempre la sfera soggettivamente privata, ma esclusivamente
il corpo-oggetto».82 In
altre parole, se il mio corpo fosse costituito in una sfera puramente immanente,
non si capirebbe come la percezione del corpo «là» (che dovrebbe apparire come
il corpo dell'altro) possa generare quell'associazione di somiglianza su
cui si basa la husserliana «empatia» (Einfühlung). Al contrario,
l'apparizione del tu nella forma dell'alter ego richiede una certa
«omogeneità» o «continuità» con la struttura della mia manifestazione; ma essa
può essere garantita solo dalla corporeità in quanto oggettiva.
Con una mossa che ricorda, per qualche aspetto, la confutazione kantiana
dell'idealismo nella Critica della ragion pura,83 Patočka
fa leva sulla necessità di un contesto non soggettivo (di principio
irriducibile alla soggettività) «in cui» la soggettività dell'altro, a me
inaccessibile in quanto «presenza vivente» e soltanto «presentificabile», sia
data:
La «proiezione» della soggettività, o
piuttosto la verifica dell'idea del tu nell'esperienza, presuppone la
presenza di qualcosa in cui il tu -- l'altra soggettività --
mi è data. Ora, questo «in cui» non può essere come tale soggettivo, perché
la soggettività data in quanto vivente è la mia e la soggettività presentificata è
estranea. La presenza dell'altro come tale in me è dunque necessariamente
non soggettiva. Se si produce in modo che la apprendo come mia propria
manifestazione esterna, invertita come in uno specchio, questa
manifestazione esterna deve anche essermi data come qualcosa di asoggettivo.
Vale a dire che essa si realizza necessariamente nel fenomeno del mio corpo-oggetto.
Se l'apprensione del «tu» come un altro «io» avviene tramite una sorta di
inversione speculare, di rovesciamento percettivo-spaziale della mia situazione
corporea, quest'ultima non può essere pensata come qualcosa di solamente
soggettivo. Il mio corpo «soggettivo» (il corpo che sono) deve dunque
avere, fin dall'inizio, una oggettività spaziale e dinamica (una «struttura di
mondo»), che ne rende fenomenologicamente inconfigurabile l'apparizione in una
dimensione di pura immanenza. In breve, senza corpo-oggetto nessuna
intersoggettività: la cosiddetta «riduzione alla sfera appartentiva», se intesa
come scoperta di uno strato esperienziale non attraversato dall'alterità e dalla
differenza (secondo la «legge fondamentale» della proto-struttura) e perseguita
fino in fondo, non solo vanificherebbe lo stesso programma husserliano di una
«costituzione dell'intersoggettività», ma mi chiuderebbe qualsiasi accesso alla
comprensione della soggettività dell'altro in quanto altro. Patočka può allora
concludere la sua «argomentazione trascendentale» nel modo seguente: «La
struttura dell'intersoggettività è così un'ulteriore ragione per rifiutare la
riduzione nel senso di ciò che conduce all'immanenza pura del soggetto».84
L'asoggettività del campo di apparizione e della «presenza dell'altro in me» ci
rivela una fondamentale asoggettività del corpo proprio, con un movimento
che, sulle prime, sembrerebbe presentare un carattere paradossale. Com'è
possibile, infatti, che il corpo mio, con il quale ontologicamente mi
identifico, per altri versi non lo sia, abbia un preciso tratto fenomenologico
a-soggettivo, non mio, «irriducibile» al senso della mia soggettività? In
altri termini, come può il mio corpo essere soggettivo e asoggettivo insieme?
Come si intrecciano e si conciliano queste due dimensioni dell'esistenza
corporea, entrambe irrinunciabili, senza che dal loro attrito sortisca un
antagonismo palese o addirittura una contraddizione? Ma naturalmente non si
tratta di «sconfessare» o ridimensionare le analisi precedenti sulla
soggettività corporea. Semmai, pensare «asoggettivamente» la corporeità
significa per Patočka, in questo debitore alla «filosofia del corpo» di
Merleau-Ponty,85 riconoscere
una certa duplicità e, forse, ambiguità del nostro essere-al-mondo o
movimento finito nel mondo, cogliendone innanzitutto le potenzialità descrittive
ed esplicative, senza pretendere di eliminarla o coerentizzarla ad ogni costo.
L'ottica fenomenologica asoggettiva può rivelarsi molto utile nella revisione
delle categorie filosofiche tradizionali (e imprescindibili) di «soggettività» e
«oggettività», al di fuori di una sterile dicotomia o di una semantica a senso
unico, delineando più nitidamente le loro significazioni, relazioni e
intersezioni multiple. In primo luogo, a-soggettività non significa
semplicemente «oggettività», ma quella dimensione originaria dell'apparire in
cui il soggetto e l'oggetto, le persone e le cose, si dispongono e si muovono,
dispiegando il loro senso. Lo statuto soggettivo-oggettivo del corpo va
analizzato sul terreno dell'esistenza come apparizione e rapporto-a-sé, nella
sua dinamica fondamentale. Ed è su questo terreno, quello del movimento
esistenziale, che almeno alcuni dei fili principali che compongono la trama filosofica della
corporeità possono essere rintracciati e districati.
Intanto, dal lavoro analitico di Patočka è emersa, nel confronto con Husserl,
l'impossibilità di «soggettivizzare» fino in fondo il corpo proprio, anche a
titolo di semplice esperimento metodologico: se non assumessi già sempre una
qualche oggettività della manifestazione del mio corpo, sarei incapace di
conseguire persino quell'elementare auto-riconoscimento necessario ad esperire
il senso pieno dell'intersoggettività (quella che Patočka chiama la
«realizzazione del tu»). Peraltro, molte delle analisi di Husserl sulla Leiblichkeit conservano
un valore anche senza il riferimento alla «sfera dell'immanenza pura» e lo
stesso filosofo ceco attribuisce al fondatore della fenomenologia il merito di
aver per la prima volta esaminato la funzione del corpo per la formazione delle
oggettività e delle conoscenze oggettive (dal mondo della vita fino all'universo
categoriale delle scienze). Ma l'insistenza di Patočka sul corpo-oggetto, che
abbiamo appena visto, può esercitare una funzione correttiva anche su un altro
versante della fenomenologia contemporanea, quello della «fenomenologia della
carne». Pur parlando sovente di «soggetto incarnato» e di «libertà incarnata»
la prospettiva asoggettiva non declina il corpo della soggettività primariamente
in termini di carne, almeno non nel senso che questo termine assume per
esempio in Michel Henry: pura auto-affezione patica dell'io che «sente se
stesso», provando la propria vita (épreuve de la vie),86 in
se stessa «invisibile». Una vita, quella della carne, essenzialmente non
spaziale, non mondana, non oggettiva e non oggettivabile.
Rispetto a questo esito e ad altri analoghi, Patočka sostiene una tesi più
articolata ed equilibrata; il corpo non si risolve interamente nella
soggettività, non è solo espressione e incarnazione dell'io, manifestazione
della sua vita intima, ma è anche, ad un tempo, qualcosa di «estraneo» al
soggetto, di non coincidente con lui, l'apparire di uno scarto o di una
differenza all'interno della stessa soggettività: qualcosa in cui si manifesta,
originariamente, la nostra libertà ma anche un fattore di opacità, passività e
resistenza sul quale si misura immediatamente la finitezza. Siamo e non
siamo il nostro corpo, c'è un fondo di alienazione nella struttura della
nostra soggettività, come testimonia del resto l'ambiguità della parola
soggetto (soggetto-di, soggetto-a) che tesse insieme la
libertà e la dipendenza, come due piani saldamente interconnessi e inseparabili
della condizione umana. In questa ottica, com'è facile convincersi tramite una
lettura anche superficiale dei testi, Patočka è ben lontano dal fornire appigli
a una concezione «oggettivistica» del corpo, soprattutto se con questo termine
si fa riferimento al paradigma della razionalità tecnico-scientifica. Il corpo vivente è
una sorgente esistenziale che non può essere indagata secondo la metodologia
delle scienze o di una filosofia scientistica, senza smarrirne il senso: come
dimensione fondamentale del movimento (ontologico e generativo) della
soggettività, la corporeità può rivelarsi soltanto a una fenomenologia che si
collochi sul piano, originario, del mondo naturale prescientifico (che
per Patočka, occorre qui almeno segnalarlo, è non solo il mondo della percezione
sensibile, ma anche l'universo denso e complesso del mito, il «mondo del bene e
del male» nella concretezza storica).87
Ma l'«asoggettività», proprio perché non comporta una rinuncia al soggetto,
bensì un'analisi non soggettivistica della soggettività, permette di formulare e
sviluppare una nozione di oggettività più ampia, ricca e flessibile di
quella concettualizzata dalla scienza-tecnica moderna (e, forse, di quella
propria di molte forme di metafisica). Un'oggettività che, a livelli multipli,
innerva la stessa dinamica vitale dell'io nella sfera dell'apparire, creando
nodi e tensioni, scarti e superamenti, e che, come abbiamo visto, si radica
nella corporeità: se la mia vita nel mondo è movimento corporeo, e se il corpo
implica per il suo senso fenomenico le forme dell'oggettivazione, l'oggettività
dovrà essere interpretata come inseparabile dal modo d'essere del soggetto (dei
soggetti), senza tuttavia attribuirle, riduttivamente, un significato
«materialistico». D'altra parte, l'appartenenza radicale del soggetto al mondo
sottende una dialettica continua con l'«oggetto» e un legame costitutivo con la
dimensione delle cose da cui l'io umano non può sottrarsi, perché il
bisogno stesso di autenticità e di verità (la peculiare «trascendenza» della
filosofia) strutturalmente lo presuppone. Uno degli aspetti più interessanti
della filosofia fenomenologica di Patočka è da riscontrare in questo tentativo,
per definizione non privo di difficoltà, di pensare oggettivamente la
soggettività (il che vuol dire pensarla nella densità spazio-temporale del
mondo) senza tuttavia farne un «oggetto» o una res alla maniera delle
scienze o della metafisica tradizionale. La ricerca del filosofo ceco, muovendo
da Husserl e Heidegger cioè dai pensatori che più acutamente hanno avvertito la
«crisi» dell'oggettivismo moderno, non mira in fondo che a sviluppare, nella
concretezza delle analisi fenomenologiche, un nuovo concetto di oggettività che
ben corrisponda alla nostra apertura alla realtà del mondo: mondo che precede il
soggetto e ne è indipendente, ma nel quale ha luogo il movimento finito dell'esistenza.
Anche la prospettiva dell'infinità, che Patočka rende visibile nella vocazione
etica dell'uomo-filosofo, si apre nel cuore di questo movimento e di questa
«oggettività».88
8. Temporalità, spazialità e libertà nella fenomenologia asoggettiva:
prospettive di ricerca. 
Avviandoci alla conclusione, vogliamo rileggere il nodo del rapporto tra
«fenomenologia asoggettiva» e corporeità evidenziando come esso presenti un
tratto di forte discontinuità con l'analitica esistenziale di Sein und Zeit,
con la grammatica ontologica heideggeriana dell'essere-nel-mondo tutta
incentrata sulla «temporalità» (Zeitlichkeit) e «temporalizzazione» (Zeitigung).
Come abbiamo già visto, Patočka condivide aspetti notevoli della cornice
esistenziale in cui Heidegger riformula la questione dell'«io» sottolineandone
vigorosamente la finitezza e prendendo congedo dalla linea della «riflessione
assoluta» (Hegel, Husserl). Su questo piano, Patočka considera certamente
l'approccio heideggeriano più profondo e radicale di quello husserliano,89 soprattutto
per aver oltrepassato il cerchio gnoseologico in cui la fenomenologia soggettiva
(con la correlazione funzionale di noesi e noema) continuava a
muoversi, e aver affermato con rigore il carattere ontologico dell'esistenza
come prassi e «movimento», nell'orizzonte sempre finito della possibilità. Ma la
fenomenologia patočkiana, situando al centro del discorso
ontologico-esistenziale la corporeità, non solo recupera di fatto strati
preziosi dell'analitica husserliana del Leib, troppo frettolosamente
accantonata da Heidegger, ma, con la sua riflessione sulla spazialità originaria
dell'essere-nel-mondo, permette di integrare l'analisi dell'esistenza umana con
una dimensione che Heidegger, pur avendo ben presente, marginalizza, proprio a
causa del sostanziale «occultamento fenomenologico del corpo» in Essere e
tempo. 90
A parte pochi, sparsi cenni che, nell'opera del '27, possono essere agevolmente
interpretati come frammenti fenomenologici sulla corporeità, il corpo non
possiede nell'analitica esistenziale un autentico rilievo ontologico, come
Patočka ripetutamente mette in luce in chiave critica. Questo silenzio
fenomenologico che avvolge la struttura corporea del Dasein può essere
spiegato, nella prospettiva di Heidegger, con la convinzione che il corpo
«soggettivo» o «vissuto» rifletta una considerazione dell'esistenza umana troppo
compromessa con la sfera psicologica o gnoseologica (sempre attraversata da
problematiche linee di frattura tra «dentro» e «fuori», «soggetto» e «oggetto»,
«anima» e «corpo», «spirito» e «materia»); oppure, più probabilmente, con l'idea
che la «spazializzazione dell'esserci nella sua «corporeità»» 91 sia
legata indissolubilmente agli aspetti più «deiettivi» del Dasein, come se
il coinvolgimento pratico-esperienziale con lo spazio e le cose (spaziali),
inevitabile per l'essere-nel-mondo, facesse sempre di nuovo deflettere la luce
esistenziale del Da, dell'apertura ontologica, verso il livello
esistentivo della «semplice presenza» (Vorhandenheit) e
dell'«utilizzabilità» (Zuhandenheit).
Nonostante Heidegger dedichi tre brevi (e densi) paragrafi allo spazio e alla
spazialità dell'esserci,92 è
evidente che l'«esistenzialità» di quest'ultimo, la sua sorgente profonda e
autentica, non è alcunché di spaziale, è latemporalità, come «senso
ontologico della cura». Se il modo d'essere dell'esserci è la cura, e il senso
autentico della cura consiste nella totalità del poter-essere più proprio, «l'unità
originaria della struttura della cura è costituita dalla temporalità».93 In
questa maniera, Heidegger riesce a cogliere la radice esistenziale del tempo al
di fuori di ogni contaminazione con l'oggettività e lo spazio, ma senza
annettergli quella «soggettività» che Husserl aveva conservato nell'analisi
della «coscienza interna del tempo». Il tempo, così considerato, è l'«origine»
dell'esserci, non nel significato ontico della causa o della sostanza, ma come temporalizzazione
originaria, articolarsi e dispiegarsi del suo essere nelle tre «estasi»
della temporalità: l'esser-stato del passato, il presentarsi del
presente, l'ad-venire del futuro. Queste dimensioni del tempo originario,
ciascuna connessa a una determinata struttura dell'essere-nel-mondo, aprono, per
usare un termine di Patočka, il «movimento» dell'esistenza umana come trascendenza, un
«trascendersi» del Dasein non in qualcosa di esterno, né di oltremondano,
ma verso se stesso nella possibilità. Ed è noto come, in Heidegger, la
tradizionale scansione del senso del tempo a partire dal presente (il passato
come «non più presente», il futuro come «non ancora presente») venga negata e
riformulata in un'ottica che scorge nell'ad-venire il più originario fenomeno
della temporalità: esistendo come aver-da-essere, nel «progetto» del
poter-essere più proprio, l'esserci «è» costitutivamente il suo futuro.94 Per
contro, l'esser-stato e il presentarsi scaturiscono necessariamente
dall'ad-venire, assumendo però una valenza esistenziale molto più debole
rispetto alla potenza ontologicamente disvelante di esso; le estasi del
«passato» e del «presente» corrispondono infatti, rispettivamente, all'essere-gettato del Dasein nel
mondo e al suo esser-presso gli enti intramondani, e sembrano esprimere
quella «gravità» che continuamente fa (ri) cadere l'esserci al livello delle
cose, della fatticità. Con il primato ontologico del futuro, il senso della
finitezza esistenziale dell'uomo ha la sua forma privilegiata di rivelazione
nell'essere-per-la-morte e nella «decisione anticipatrice» che, alla luce della
morte come possibilità dell'impossibilità dell'esistenza, vede per la
prima volta le possibilità come possibilità, assumendole liberamente in
una progettualità finita.95
Ora, non si può ravvisare, in questo deciso primato ontologico-esistenziale del
tempo sullo spazio, e, per il tempo, del futuro sulle altre due «estasi», il
rovescio della mancata tematizzazione, in Heidegger, della corporeità
dell'esistenza? Le analisi di Patočka che abbiamo seguito fin qui (e altre che,
nella stessa prospettiva, meriterebbero altrettanta attenzione) sembrano andare
proprio in questa direzione: restituire all'essere-nel-mondo, come movimento, la
densa e complessa fisionomia dell'esperienza spaziale-corporea, colmando quelle
che gli appaiono palesi «lacune descrittive» della fenomenologia heideggeriana.
Come è stato giustamente osservato, la descrizione del carattere «e-statico» (ek-statikon)
del soggetto non corrisponde solo alla triplice estasi della temporalità
(futuro, passato, presente), ma anche alla spazializzazione originaria in
cui l'essere-nel-mondo si declina immediatamente secondo le tre persone (io,
tu, esso).96 La
proto-struttura dei pronomi personali, con il suo senso spaziale, non è una
semplice articolazione dell'esperienza, ma è per Patočka, come sappiamo, la sua
legalità fondamentale: come tale, è non meno originaria della (proto-) struttura
della temporalizzazione, e altrettanto decisiva per comprendere il modo d'essere
dell'esistenza. All'esistenzialità dell'io appartiene dunque l'«essere
spaziale», in un senso più profondo e radicale di quello che Heidegger aveva
concesso. La «riflessione» dell'esistenza finita si sviluppa non solo
nell'orizzonte interno del tempo, ma anche nell'oggettività dello spazio, nel
quale sono, originariamente, a distanza da me.
Naturalmente, in una prospettiva fenomenologico-esistenziale comune a Heidegger
(almeno allo Heidegger di Essere e tempo) e a Patočka il problema non è
sostituire il primato del tempo con quello dello spazio, e nemmeno «pareggiare»,
in astratto, la loro incidenza ontologica; semmai, un'indagine più approfondita
dovrebbe stabilire come il ruolo oggettivamente centrale assegnato dal filosofo
ceco alla corporeità e spazialità dell'esistenza umana abbia non solo aperto
nuovi percorsi analitici, ma anche condotto a una filosofia fenomenologica della
finitezza che globalmente presenta tratti piuttosto diversi da quella di
Heidegger. Ci sono buoni motivi per ritenere che l'equazione tra il tempo e il
senso dell'essere, resa celebre da Heidegger e volta a rintracciare una modalità
«non (più) metafisica» di dire l'uomo e il suo essere-al-mondo, possa subire
permutazioni e slittamenti assai significativi tra i termini che la compongono,
sulla base di una fenomenologia della corporeità.97 Tutto
il lavoro intensivo di Patočka (tanto stimolante quanto incompiuto) sui tre
movimenti fondamentali dell'esistenza, e anche la tarda tematica del sacrificio
come «donazione dell'essere»,98 ancora
poco studiata nelle sue radici fenomenologiche e nel suo sbocco etico radicale,
sembrano prendere le mosse da questa dynamis del soggetto come corpo.99
Concludiamo il nostro percorso con qualche altra considerazione, ancora nel
segno del confronto con Heidegger e riferendoci ad alcuni importanti passaggi
testuali di Patočka, sulla questione del «rapporto profondo tra la libertà e la
corporeità».100 Abbiamo
visto come la libertà del soggetto nel mondo sia essenzialmente finita e come,
nell'analisi di questa finitezza, a Heidegger sia imputabile un residuo di
«soggettivismo fenomenologico», proprio per non aver esplorato e
concettualizzato il nesso originario della libertà con la corporeità,
nell'esistenza. La più precisa definizione dell'approccio asoggettivo, con il
ruolo che gioca la spazialità nell'essere-nel-mondo e nella determinazione del
rapporto tra «soggettività» e «oggettività» dell'io corporeo, dovrebbe
consentirci di mettere meglio a fuoco (almeno nel suo profilo più fondamentale)
il senso della libertà umana come libertà incarnata. Nello stesso tempo
in cui è «identità», libertà, attività, movimento, potere di intervento e di
trasformazione nel mondo, la corporeità è anche apertura, esposizione,
passività, oggettivazione, intervallo, «differenza da sé»: pensare il corpo
proprio, il corpo della soggettività, significa cogliere
contestualmente (attraverso un'inversione dello sguardo) il suo carattere oggettivo ed
«ex-propriante», come è risultato evidente accostandoci al tema
dell'intersoggettività. Nello spirito di Patočka, si tratta di assumere queste
polarità o ambiguità del corpo in maniera il più possibile dialettica, non nel
senso di produrne una conciliazione dall'alto, ma di svilupparne analiticamente
il contenuto fenomenologico, anche là dove sembra assumere una piega
paradossale.
Discutendo la celebre alternativa tracciata da Gabriel Marcel (nell'ambito di
una «filosofia dell'incarnazione») tra essere un corpo e avere un
corpo,101 Patočka
offre altri spunti interessanti per comprendere lo statuto duale,
soggettivo-oggettivo, della corporeità. Innanzitutto, alla domanda se l'io sia un
corpo o abbia un corpo, non può essere data, sul piano fenomenologico,
una risposta unica e univoca. Certamente, come si è appurato ampiamente in
queste pagine, l'io è il suo corpo, nel senso rigoroso
dell'identificazione ontologico-esistenziale, poiché il movimento dell'esistenza
umana è essenzialmente corporeo. La libertà del soggetto nel campo di
apparizione è una libertà incarnata. Ma, a uno sguardo più attento, tra l'io, la
libertà e il corpo si disegna una relazione meno lineare e trasparente; mentre
infatti la mia libertà è sempre qualcosa che sono e che mai ho, e
dunque il nesso ontologico identitario tra l'io e la libertà appare «compatto»
(io sono la mia libertà, la mia libertà sono io), trattandosi esistenzialmente
della mia sorgente più profonda, rispetto alla quale non posso essere «a
distanza», nel caso del corpo l'identità con il soggetto prende una forma
diversa: «L'io originario, la libertà originaria è qualcosa che sono nel senso
più puro del termine, ma che mai ho. Però l'essere libero non solo è il suo
corpo, ma anche ne dispone, domina il suo corpo».102 È
qui che l'esperienza di avere un corpo ha il suo fondamento legittimo,
senza che, con ciò, lo si consideri un semplice oggetto «alla mano», o uno
strumento operativo esterno. L'io dispone del suo corpo muovendolo e
dispiegandolo nell'azione, rendendolo così un organo della sua volontà, una
manifestazione visibile della libertà. È però facile comprendere che, per un io
appartenente al mondo (e che ne costituisce solo una «parte» o un «nodo»), il
rovescio immediato di questo «disporre» e «dominare» della soggettività è la soggezione a
una vasta pluralità di fattori causali o istintivi, anche oscuri e
inconsapevoli, che, tramite il corpo, operano (e possono sempre operare) come
vincoli, resistenze, ostacoli, forze contrapposte al movimento della libertà. Se
quindi l'affermazione «io sono il mio corpo» è vera, non è sempre vera
l'inversa, nel senso che il mio corpo non è sempre il mio io. Nel corpo
l'esistenza interseca il potere oggettivo e oggettivante delle cose, incontra e
subisce le forze dell'apparizione anche nella forma dell'estraneità più radicale
(basti pensare alle esperienze del dolore, della malattia, della violenza,
ecc.).
Ma questo non significa che il corpo, influenzando e determinando variamente il
mio «io», si imponga a me e mi domini, come una «libertà superiore» a cui sarei
subordinato. Per Patočka, la libertà non è alienabile se non come
auto-alienazione e la «superiorità» del corpo è possibile solo in quanto io
gliela concedo. Tra la libertà, come essere, e la corporeità, come essere
e avere, non c'è dunque coincidenza, si apre ontologicamente un intervallo,
anche se questa distanza viene sempre di nuovo attraversata e scavalcata nella
dinamica dell'esistenza. Forse, la corporeità non è altro che questo
«attraversamento» soggettivo-oggettivo del campo di apparizione, del mondo, che
rende possibile la vita dell'io come responsabilità: «l'io è possibile solo in
quanto libero, in quanto capace di distanziarsi. Anche se l'io si lascia
interamente incatenare, legare dai suoi istinti e dalle sue passioni, anche se
non realizza nulla al di fuori di quanto gli istinti e le passioni gli
prescrivono, comunque l'azione istintiva ha bisogno di passare attraverso l'io,
di riferirsi al suo accordo, ed è questa la manifestazione della libertà. In
effetti, l'io è possibile solo in quanto trascendenza, o piuttosto dominio nel
tempo, qualcosa che non è né consegnato alla passività del flusso interno, né
disperso negli istanti del tempo oggettivo. Ma da un altro lato [...]
l'io-libertà, l'io-dominio implic [a] continuamente un passaggio all'oggetto,
[...] si sottra [e] alla sua libertà, fugg [e] verso la riva oggettiva, senza
per questo perdere la sua identità interna né perciò la responsabilità che gli
incombe rispetto a ciò che realizza in quanto io fungente e creatore».103 La
tesi di Marcel trova allora conferma «proprio nel rapporto tra l'io libero, il
corpo-soggetto, e il corpo-oggetto. Io non sono il mio corpo nello stesso senso
in cui sono un essere libero».104
Non possiamo trattenerci oltre su questa prospettiva, non priva di aspetti
problematici e di aporie, che andrebbe illustrata più sistematicamente alla luce
del fondamento etico della filosofia di Patočka. Ci interessava cogliere, almeno
parzialmente, lo sforzo di descrivere la struttura di fondo della soggettività
finita come una libertà insieme temporale e corporea 105 (secondo
quelli che erano, in fondo, l'intento e il risultato di Husserl, nonostante i
riscontrati limiti dell'impianto soggettivo-trascendentale e la discutibile
«neutralità esistenziale» dei suoi referti), in cui l'intervallo tra
«oggettività» e «soggettività» si delinea e distribuisce a più livelli della
vita dell'io, spesso secondo modalità incrociate. Ad esempio, in base alle
ultime indicazioni, come il corpo-soggetto «integra» sempre di nuovo il
corpo-oggetto, così la trascendenza dell'io può realizzarsi solo come «dominio
del tempo», nel senso che l'io, in quanto temporalità originaria, si mantiene a
distanza sia dall'interno fluire dei suoi vissuti che dalla frammentazione e
dispersione di sé nel tempo oggettivo, e solo in questa modalità può scoprirsi
«libero». Vi è dunque, come Heidegger aveva ben mostrato, una connessione molto
stretta e pervasiva tra la libertà (ontologica) dell'io, la sua esistenza
come possibilità, e la temporalità: l'io è libero, e capace di
verità, in quanto è temporale, e la sua vita autentica si rivela nel continuo (e
sempre di nuovo possibile) risalire da quella «riva oggettiva» verso cui siamo
spinti incessantemente dalla forza di gravità del nostro essere-al-mondo.
L'autenticità, e la filosofia che ne rappresenta la forma più pura e radicale,
nascono da un movimento controcorrente. Ma quello che Patočka chiama
«passaggio all'oggetto», oggettività e oggettivazione della vita, non è da
intendere soltanto come una caduta e una reificazione, nel significato più
negativo del termine; che noi, i soggetti del campo di apparizione, siamo
«oggettivi», portiamo nel nostro essere l'oggettività, dipende dalla struttura
a-soggettiva dell'apparire. Ma questa struttura, in cui l'esistenza umana ha
luogo e senso, è essenzialmente spazio-temporale: il soggetto
non è «se stesso» soltanto nell' (auto) trascendenza del tempo, nella
«temporalizzazione della temporalità»,106 nell'articolazione
della progettualità esistenziale che gli dischiude (finitamente) la dimensione
del futuro.
Il tempo, che anche per Patočka costituisce il senso profondo dell'esistenza
come finitezza,107 si
«temporalizza» sempre in rapporto allo spazio, alla spazialità dell'apparizione
e dunque, in ultima analisi, alla corporeità dinamica del sé e alle forme
peculiari che la caratterizzano. Da un lato, l'incarnazione (come
spazializzazione) non è solo la base concreta e operativa dell'esistenza, ma
anche il limite strutturale e invalicabile della libertà dell'uomo: l'individuazione della
soggettività, da cui derivano finitezza e mortalità, non è pensabile senza la
corporeità.108 Dall'altro,
cogliere il piano della possibilità dell'io esclusivamente sul versante della
temporalità dell'esserci, delle estasi del tempo originario,
dell'essere-per-la-morte, come fa Heidegger in Essere e tempo, getta un
velo di oscurità sulla generazione della soggettività, su quel «mettere
radici nel mondo» che per l'io è possibile solo grazie alla cura dell'altro, al
calore che originariamente ci viene dagli altri (come Patočka mostra nel «primo
movimento dell'esistenza»).109 In
questa chiave vanno interpretate le frequenti osservazioni di Patočka tendenti a
riscontrare nella definizione del mondo come «progetto di possibilità»
una sfumatura decisiva che, nonostante tutti gli sforzi compiuti da Heidegger in
direzione contraria, sembra piegare l'indagine del Dasein in senso
soggettivistico e pagare indirettamente un tributo alla tradizione moderna
dell'io disincarnato e «creatore», del solus ipse trascendentale: «Non
sono io a progettare il mondo di possibilità; ma siccome sono un essere di
possibilità, ancorato nel mondo, la possibilità del mondo, il campo di
possibilità del mondo mi interpella».110 L'impostazione
rigorosamente asoggettiva e dinamico-corporea permette un'analisi della
dimensione intersoggettiva dell'esistenza che raggiunge strati più profondi di
quelli toccati dal Mitseinheideggeriano.
Sarebbe interessante esaminare in modo puntuale come le diverse figure e
relazioni della corporeità siano implicate nella teoria dei tre movimenti
dell'esistenza umana, che costituisce l'esecuzione più concreta della
«fenomenologia dinamica» di Patočka e, probabilmente, il suo nucleo concettuale
più noto: il movimento diradicamento nel mondo (grazie alla «base»
che l'altro ci offre e alla fusione affettiva con lui), il movimento di autoconservazione e riproduzione
della vita (nell'oggettivazione dei rapporti sociali e del lavoro),111 il
movimento di apertura e verità (il movimento «esistenziale» in
senso eminente, con la domanda circa il senso della totalità e la posizione
dell'uomo al suo interno, dal mito alla filosofia). Ognuno di essi esprime un
modo di «temporalizzazione del tempo», una configurazione essenziale della
«cura», un accento peculiare assunto dal nostro essere-nel-mondo come movimento.
Ma, soprattutto nei primi due movimenti, la corporeità emerge nei suoi tratti
esistenzialmente più decisivi, anche quando Patočka sembrerebbe orientare
altrove l'indagine fenomenologica. Se, in questo quadro, si può ancora affermare
che il tempo è il senso fondamentale dell'esistenza come libertà (e, su
un piano correlativo che qui non possiamo esaminare, dell'essere stesso ),112 i
modi di temporalizzarsi del tempo come passato, presente, futuro si chiariscono
e assumono effettivo spessore esistenziale solo per una soggettività corporea.
Una «soggettività», quella ricercata e posta in opera dalla fenomenologia
asoggettiva, che risulta capace di verità e trascendenza solo nella misura in
cui si autocomprende, ontologicamente, come naturale e terrestre. È
quasi superfluo aggiungere che queste dizioni, nel linguaggio filosofico
di Patočka, non hanno una risonanza materialistica o fisicalistica, ma, semmai,
fungono da ripresa e riformulazione di una intuizione «originaria» della
filosofia occidentale: l'appartenenza del movimento della vita umana al tessuto
dinamico universale dell'apparizione, allo spazio-tempo del mondo, al dramma
cosmo-storico della physis.113 La
domanda filosofica ed etica sul «senso della totalità» può porsi dalla
prospettiva di un io che è solo una forza (minore) nel campo di forze
dell'apparire e che, tuttavia, è il «destinatario» dell'apparizione, ciò a cui
l'apparire appare, nella sua problematicità:114 l'uomo
è fatto, per un verso, della stessa stoffa del mondo, «oggettivo» e «mondano»
come tutti gli enti, ma, per l'altro, è in grado di cogliere la sua differenza dalle
cose, l'intervallo che lo separa dall'essere «indifferente» di queste ultime, la
sua libertà che, ontologicamente, è un essere-per-la-verità, una ricerca di
senso nell'orizzonte della finitezza. Ma dopo il tramonto delle grandi
metafisiche moderne (oggettive o soggettive) e la crisi del positivismo,
nell'odierno dominio del pensiero tecnico-scientifico, ripartire dal
corpo-movimento significa ripensare lo «spazio di gioco» della soggettività
umana al di fuori del paradigma dell'oggettività naturalistica, ma anche
abbandonando ogni ingenuità spiritualistica e idealistica. Uscendo quindi da
quell'oscillazione fondamentale che caratterizza il cartesianismo della
filosofia moderna, contro cui la fenomenologia fin dai suoi esordi ha
combattuto, anche se non sempre in maniera chiara e convincente.115
Una filosofia fenomenologica asoggettiva prende sul serio la densità e,
aggiungerei, il peso dell'esistenza nel mondo, nell'intreccio costitutivo
tra corporeità, intersoggettività e temporalità: la «libertà responsabile», che
per Patočka esprime sinteticamente il senso (asoggettivo e post-metafisico)
della finitezza dell'uomo, si disegna in questo complesso orizzonte. Così l'ontologia dinamica
di Patočka, in gran parte ancora da studiare e da valorizzare come proposta
teoretica autonoma, in grado di dialogare fruttuosamente con le più importanti e
autorevoli figure del pensiero contemporaneo, potrebbe sostenere un'etica
della vigilanza e della responsabilità.Il «socratismo» patočkiano, tante
volte messo in luce, si costituisce nella dimensione intermedia dell'apparizione
che abitiamo come esseri corporei:116 «Solo
un essere libero può alienarsi rispetto a se stesso, e ciò che costituisce sia
il contesto che il mezzo di questa auto-alienazione è proprio quella dimensione
intermedia tra la libertà pura e la pura oggettività, vale a dire la dimensione
della vita nel nostro corpo, la dimensione del nostro soggetto corporeo» (CCF,
p. 190-191).
Copyright © 2015 Mario
Smargiassi
Mario Smargiassi. «Fenomenologia asoggettiva e corporeità in Jan Patočka». Dialegesthai.
Rivista telematica di filosofia[in linea], anno 17 (2015) [inserito il 30
dicembre 2015], disponibile su World Wide Web:
<https://mondodomani.org/dialegesthai/>, [231 KB], ISSN 1128-5478.
Legenda
- BCLW
- Body, Community, Language, World (transl.
by E. Kohák), Open Court, Chicago and La Salle (Illinois) 1998.
- CCF
- Che cos'è la fenomenologia? Movimento, mondo, corpo (trad.
it. di G. Di Salvatore con la collab. di E. Novakova e M. Fuèikova),
Campostrini, Verona 2009.
- IPH
- Introduction à la phénoménologie de Husserl (trad. par E.
Abrams), Millon, Grenoble 1992.
- LS
- Liberté et sacrifice (trad. par E. Abrams), Millon, Grenoble,
- MN
- Le monde naturel comme problème philosophique (trad. par J.
Danek et H. Declève), Nijhoff, La Haye 1976.
- MNF
- Il mondo naturale e la fenomenologia (trad. it. di A. Pantano
e G. Pacini), Mimesis, Milano 2003.
- MNMEH
- Le monde naturel et le mouvement de l'existence humaine (trad.
par E. Abrams), Kluwer, Dordrecht 1988.
- PE
- Platone e l'Europa (trad. it. di M. Cajthaml e G. Girgenti),
Vita e Pensiero, Milano 1997.
- PP
- Papiers phénoménologiques (trad. par E. Abrams), Millon,
Grenoble 1995.
- QP
- Que'est-ce que la phénoménologie? (trad. par E. Abrams),
Millon, Grenoble 1988.
- SEFS
- Saggi eretici sulla filosofia della storia (trad. it. di D.
Stimilli), Einaudi, Torino 2009.
Note
-
Ho citato le opere di Patočka secondo le
sigle indicate nella Legenda, seguite dal numero di pagina. Ho
utilizzato le traduzioni italiane e, in loro assenza, quelle francesi e
tedesche dei testi patoèkiani. 
-
In questa ottica vanno segnalati alcuni
volumi di studiosi italiani: R. Terzi, Il tempo del mondo. Husserl,
Heidegger, Patočka, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009. A.
Pantano, Dislocazione. Introduzione alla fenomenologia asoggettiva di
Jan Patočka, Mimesis, Milano 2011. F. Tava, Il rischio della
libertà. Etica, filosofia e politica in Jan Patoèka, Mimesis, Milano
2014. 
-
Cfr., per una visione sintetica di questa
teoria, Per la preistoria della scienza del movimento: il mondo, la
terra, il cielo e il movimento della vita umana e Il mondo
naturale e la fenomenologia, in: MNF, pp. 57-71, pp. 73-126. 
-
Introducendo la nuova traduzione italiana
(dopo quella «pionieristica» del 1981) dei Saggi eretici sulla
filosofia della storia, Mauro Carbone lo ha definito «l'ultimo
grande libro di filosofia del XX secolo». Cfr. Jan Patočka:
Eretizzare la tradizione, in: SEFS, pp. VII-XXIV, p. VIII. 
-
Giunge molto opportuna, per comprendere la
fondamentale torsione etica che assume in Patočka la riformulazione del
«problema della metafisica», la recentissima traduzione italiana degli
scritti che gravitano intorno alla questione del platonismo negativo.
J. Patočka, Platonismo negativo e altri frammenti (trad.
it. di F. Tava), Bompiani, Milano 2015. 
-
Per un primo orientamento sulle diverse
dimensioni della ricerca filosofica di Patočka, cfr.: Jan Patoèka.
Philosophie, phénoménologie, politique (textes réunis par M. Richir
et É. Tassin), Millon, Grenoble 1993. L'eredità filosofica di Jan
Patoèka. A vent'anni dalla scomparsa (a cura di D. Jervolino), CUEN,
Napoli 2000. R. Barbaras, Le mouvement de l'existence. Études sur la
phénoménologie de Jan Patoèka, La Transparence, Chatou 2007. Pensare
(con) Patoèka oggi. Filosofia fenomenologica e filosofia della storia (a
cura di M. Carbone e C. Croce), Orthotes, Napoli 2012. 
-
«Questa epochè fenomenologica,
questa messa entro parentesi del mondo oggettivo, tutto ciò non
ci pone di fronte a un mero nulla. Quello che piuttosto - e appunto per
ciò - diviene proprio a me che medito, è il mio esperire puro con tutti
i suoi momenti puri e tutto ciò che esso intenziona, l'universo dei fenomeni,
nel senso della fenomenologia. L'epochè [...] è il metodo
radicale e universale con il quale colgo me stesso come io puro assieme
alla mia propria vita di coscienza pura, nella quale e per la quale è
per me l'intero mondo oggettivo, nel modo appunto in cui esso è per me»
(E. Husserl, Meditazioni cartesiane e discorsi parigini, trad.
it. di F. Costa, Bompiani, Milano, 1988, p. 54). 
-
Cfr. Papiers phénoménologiques (PE);
J. Patočka, Vom Escheinen als solchem, Texte aus dem
Nachlass, hrsg. von Helga Blaschek-Hahn und K. Novotný, Alber, Freiburg 2000. 
-
La possibilità di una fenomenologia
asoggettiva, in: CCF, p. 279, modificata. 
-
E. Husserl, L'idea della fenomenologia.
Cinque lezioni (trad. it. di A. Vasa), Il Saggiatore, Milano 1988.
Sulla genesi del metodo dell'epochè-riduzione nella
fenomenologia husserliana, si possono vedere le considerazioni critiche
che Patočka svolge nel saggio del '76, Che cos'è la fenomenologia, dove
tra l'altro si dice che, nelle Cinque lezioni, «invano [...] si
cercherebbe una netta distinzione tra l'epochè e lo scetticismo»,
come sarà codificata più tardi nelle Idee; per contro,«l'idea
della costituzione dell'oggettualità nella pura immanenza è ormai già
presente» (Che cos'è la fenomenologia, in: CCF, p. 323). 
-
«L'essere in sé primo che precede ogni
oggettività mondana e la comprende in sé, è l'intersoggettività
trascendentale, la totalità delle monadi che si articola in diverse
forme di comunità» (Meditazioni cartesiane, p. 171). Ma per
valutare in modo adeguato l'entità dello sforzo husserliano di chiarire
il senso intersoggettivo dell'esperienza fenomenologico-trascendentale,
nei suoi piani costitutivi molteplici e interconnessi, occorre
necessariamente esplorare la massa di manoscritti inediti raccolti in:
E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität I, II, III (hrsg.
von I. Kern), Nijhoff, Den Haag 1973. 
-
Avendo di mira l'assoluta peculiarità
evidenziale dell'io (trascendentale, puro) ancor prima di averlo
fenomenologicamente articolato, Husserl introduce l'epochè imponendo
subito una restrizione e una limitazione del suo spazio
operativo. Cfr. Idee I, § 32: «L'epochè fenomenologica». 
-
«Husserl ha limitato in termini espressi
l'applicazione dell'epochè alla sola oggettività; ciò gli
appariva indispensabile, da un lato per conservare alla fenomenologia un
oggetto, ma anche perché, guidato dalla tradizione cartesiana,
considerava il soggettivo preso nella sua purezza come un dato assoluto
di un essere assoluto» (MN, Postface, p. 171). 
-
Epochè et Réduction, in: QP, p.
257. 
-
Ivi, p. 258. 
-
Corpo, possibilità, mondo, campo di
apparizione, in: CCF, p. 236. 
-
Ivi, p. 233. 
-
PE, p. 70. 
-
Corpo, possibilità, mondo, campo di
apparizione, in: CCF, p. 233, modificata. 
-
Epochè et réduction, in: PP, pp.
171-172. 
-
Ivi, p. 194. 
-
L'esigenza di una fenomenologia
asoggettiva, in: CCF, pp. 303-304, modificata. 
-
Ivi, p. 207. 
-
Ivi, p. 209. 
-
PE, p. 194. 
-
Fenomenologia del corpo proprio,
in: CCF, p. 159. 
-
Ivi, pp. 159-160. 
-
Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze
europee e la fenomenologia trascendentale (trad. it. di E.
Filippini), EST, Milano 1997, p. 81. 
-
Cfr. R. Descartes, Meditazioni sulla
filosofia prima (trad. it. di G. Brianese), Mursia, Milano 1994
(Seconda meditazione. Sulla natura dello spirito umano: esso è più
noto del corpo). 
-
La possibilità di una fenomenologia
«asoggettiva», in: CCF, p. 265. 
-
R. Descartes, Meditazioni sulla
filosofia prima, cit., p. 61. 
-
«Ma che cosa, dunque, io sono? Una cosa
pensante. E cioè? Una cosa che dubita, che intende, che afferma, che
nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche e che sente» (ivi, p.
62). 
-
La possibilità di una fenomenologia
asoggettiva, in: CCF, p. 267. Analizzando i limiti della riflessione
cartesiana sulla corporeità, Patočka rileva come Descartes, nel suo
esperimento mentale della realtà trasformata in un «sogno coerente», non
prenda in considerazione il fatto che anche la coscienza onirica è
una coscienza corporea: «Può sembrare strano che Cartesio non si
renda conto che anche colui che sogna ha un corpo. Si tratta
evidentemente di un corpo di cui sogniamo, ma non per questo chi sogna è
senza corpo - il corpo è indispensabile anche al mondo onirico. Per
avere un'esperienza in generale - foss'anche solo una quasi-esperienza -
devo essere da qualche parte, cosa che è impossibile senza corpo»
(Fenomenologia del corpo proprio, in: CCF, p. 161). 
-
Cfr. E. Husserl, Idee per una
fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, trad. it. di
G. Alliney ed E. Filippini, Einaudi, Torino 1965, vol. II, p. 501. 
-
Idee I: § 46. 
-
Cfr. il famoso e controverso § 49 di Idee
I: La coscienza assoluta come residuo dell'annientamento del
mondo. Scrive Husserl: «[...] nessun essere reale, tale cioè
che si rappresenti e si giustifichi coscienzialmente mediante
apparizioni,è necessario all'essere della coscienza stessa (nel
senso amplissimo di corrente di Erlebnisse). L'essere immanente è
dunque indubitabilmente essere assoluto nel senso che per principio nulla
«re» indiget ad existendum. D'altra parte, il mondo della res trascendente
è assolutamente relativo [angewiesen] alla coscienza, non
come logicamente immaginata, ma come attuale» (E. Husserl, Idee
per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit.,
vol. I, p. 107). 
-
L'esigenza di una fenomenologia
asoggettiva, in: CCF, p. 307. 
-
La possibilità di una fenomenologia
«asoggettiva», in CCF, p. 281. 
-
Cfr., tra i tanti luoghi in cui Husserl
sviluppa la tematica della riflessione e affronta la questione
dell'«identità» dell'io nel flusso di coscienza, la lezione XL sulla Filosofia
prima (E. Husserl, Filosofia prima 1923-24. Seconda parte: teoria
della riduzione fenomenologica, trad. it. di P. Bucci, ETS, Pisa,
pp. 129-135). Sul rapporto (aporetico) tra riflessione, temporalità e
auto-intuizione dell'io, cui abbiamo fatto cenno, si possono utilmente
consultare alcuni scritti inediti degli anni '30: E. Husserl, Späte
Texte über Zeitkonstitution (1929-1934). Die C-Manuskripte (edited
by D. Lohmar), Springer, New York 2006. 
-
La possibilità di una fenomenologia
«asoggettiva», in: CCF, p. 281. 
-
Méditation sur «Le monde naturel comme
problème philosophique», in: MNMEH, p. 92. 
-
Ivi, p. 93. 
-
Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo (trad.
it. di P. Chiodi), Longanesi, Milano 1976, pp. 64-sgg. 
-
Méditation sur «Le monde naturel comme
problème philosophique», in: MNMEH, p. 93. 
-
«Certamente, Husserl stesso ha enfatizzato
e finemente analizzato il fenomeno del corpo soggettivo. Tuttavia nella
sua opera il senso del soggetto corporeo non è mai chiaramente portato
in continuità con la riflessione assoluta. Volenti o nolenti, dobbiamo
chiederci perché, da ultimo, la soggettività è sempre una soggettività
incarnata. In un certo senso, il modo in cui Husserl lo vede è che
l'incarnazione della soggettività, la corporeità del soggetto, è una
condizione necessaria del nostro vivere insieme, non in isolamento, ma
come esseri in mutuo contatto. [tuttavia] Il fondamento ultimo non è
personale, è soggettività: qualcosa che può costituire nei suoi
atti sia le nostre persone che le altre cose nel mondo, ma che non è in
se stesso una persona nel mondo in tutta la sua fondamentale natura»
(BCLW p. 175). 
-
Méditation sur «Le monde naturel comme
problème philosophique», in: MNMEH, p. 94. 
-
«La fenomenologia dinamica, che
rapporta il senso d'essere del soggetto al movimento, ha senso solo se è
fondata su una dinamica fenomenologica, che pensa ogni movimento
fenomenologicamente, come movimento di manifestazione» (R. Barbaras, Le
problème de l'apparaitre. Phénoménologie dynamique et dynamique
phénoménologique, in: Id., Le mouvement de l'existence, cit.,
p. 72). 
-
Qu'est-ce que l'existence?, in:
MNMEH, p. 262. 
-
Ivi, p. 263. 
-
Cfr., per esempio, Il mondo naturale e
la fenomenologia, MNF, pp. 67-sgg. 
-
Qu'est-ce que l'existence? in :
MNMEH, p. 263. 
-
L'esigenza di una fenomenologia
asoggettiva, in: CCF, p. 311. 
-
Corpo, possibilità, mondo, campo di
apparizione, in: CCF, p. 228. 
-
L'esigenza di una fenomenologia
asoggettiva, in: CCF, pp. 308-309. 
-
«Mentre prende coscienza della totalità,
mentre questa totalità si mostra a lui e diviene fenomeno, l'uomo vede
la sua propria eccentricità, vede che è caduto fuori dal centro, che
anche lui è un fenomeno, un fenomeno precario, dipendente dal resto del
mondo, effimero. La riflessione esplicita si innesta in questa presa di
coscienza della situazione dell'uomo, che, in quanto custode del
fenomeno, è il solo essere che sa che il suo ambito fenomenico ha una
fine. Questo sta al principio di tutta la riflessione» (PE, pp. 63-64).
La consapevolezza della dimensione finita della vita umana, che
costituisce un semplice fenomeno del campo di apparizione, un suo
momento interno strutturalmente precario e dipendente, una «forza
minore» nel grande gioco di forze dell'apparire (l'universo), è già
presente nel pensiero mitico e raggiunge la massima trasparenza nella
speculazione filosofica. 
-
Corpo, possibilità, mondo, campo di
apparizione, in: CCF, pp. 224-225. 
-
Méditation sur «Le monde naturel comme
problème philosophique», in: MNMEH, pp. 104-105. 
-
[Corpo e mondo], in: CCF, pp.
188-189. 
-
Leçons sur la corporeité, in: PP,
p. 62. 
-
Cfr., ad esempio, E. Husserl, Idee per
una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit.,
vol. II, pp. 453-sgg. 
-
Phénomenologie et métaphysique du
mouvement, in: PP, p. 19. 
-
Ivi, p. 17. 
-
In Husserl un soggetto non corporeo è
apoditticamente concepibile e fenomenologicamente indispensabile, per
marcare la differenza di principio tra il flusso di coscienza, in cui
«essere» e «manifestazione» si fondono in maniera necessaria, e il
mondo spazio-temporale, la cui strutturazione ordinata e coerente
è invece contingente e sempre aperta alla possibilità del non
essere. Se il mondo si rivelasse improvvisamente una «parvenza
trascendentale», l'io puro rimarrebbe il soggetto di questa esperienza
dell'annientamento del mondo e della sua trasformazione in un caos
fenomenico, ma non possiederebbe più il suo corpo: «Se il mondo creato,
il mondo oggettivo della mia esperienza è annientato, non per questo
anch'io stesso sono annientato, l'io puro che compie questa esperienza,
come non è annientata questa stessa esperienza. [...] Io, questo uomo
secondo la parvenza trascendentale, sarei però in verità senza corpo; e
dovessi perdere questo stesso corpo trascendentale apparente, non
cesserei tuttavia di essere soggetto in senso proprio - il soggetto di
un'esperienza ormai trasformata in un caos assurdo» (E. Husserl, Filosofia
prima, cit., p. 113). 
-
Cfr. § 7. 
-
Méditation sur «Le monde naturel comme
problème philosophique», in: MNMEH, p. 94. 
-
Com'è noto, paura e angoscia costituiscono
le due modalità fondamentali della situazione emotiva dell'esserci (in
quanto è un «progetto gettato»), corrispondenti rispettivamente
all'inautenticità e all'autenticità della sua esistenza. Al di là delle
ragioni della «selezione» heideggeriana, dall'ampio spettro della vita
emotiva dell'uomo, di queste due dimensioni esistenziali, Patočka
rimarca fenomenologicamente l'essenziale connessione dello stato
d'animo, qualunque ne sia la «qualità», con la dinamica del corpo:
«Lo stato d'animo [la «situazione emotiva»] è strettamente connesso con
la corporeità, con l'essere-un-corpo. [...] Anche il linguaggio lo
testimonia: euforia, depressione, tutti questi termini catturano la
continuità tra uno stato d'animo e il modo in cui stiamo operando. Lo
stato d'animo ci reprime o ci incoraggia. Lo afferriamo corporeamente,
lo sentiamo nel nostro dinamismo. In esso afferriamo certe possibilità:
a volte viviamo in modo da sfidare tutto, altre volte fluttuiamo
leggeri, come sulle ali. Il soggetto corporeo, dinamico, è radicato in
tali posture. Ulteriori componenti del nostro modo di sentire - per
esempio: piacere, pena - sono stati corporei nel contesto di
un'esperienza vissuta che si auto-comprende» (BCLW, p. 79). 
-
Méditation sur «Le monde naturel comme
problème philosophique», in: MNMEH, p. 96. 
-
Ibidem. 
-
La corporeità dell'esistenza ci rivela
immediatamente il senso più elementare e concreto della «trascendenza»,
ovvero il movimento come struttura «da... verso...»:
«Senza andare più lontano, la semplice metafora della «trascendenza»
dell'uomo è l'indice di questa corporeità. [...] Sul fondamento della
corporeità, la nostra attività è sempre un movimento da... verso..., ha
sempre un punto di partenza e una meta. Su questo fondamento, la nostra
esistenza è sempre caricata, nella sua attività, del peso del bisogno,
della ripetizione, della restituzione e del prolungamento della
corporeità propria» (Méditation sur «Le monde naturel comme problème
philosophique», in: MNMEH, pp. 104-105). 
-
Méditation sur «Le monde naturel comme
problème philosophique», in: MNMEH, pp. 93-94. 
-
Cfr., per esempio, La conception
aristotélicienne du mouvement: signification philosophique et recherches
historiques, in: MNMEH, pp. 127-138. 
-
BCLW, p. 147. 
-
Leçons sur la corporeité, in: PP,
p. 97. 
-
[Corpo e mondo], in: CCF, p. 185. 
-
Cfr. nota 136. 
-
Il mondo naturale e la fenomenologia,
in: MNF, p. 97. 
-
[Corpo e mondo], in: CCF, pp.
185-186. 
-
Cfr. PE. 
-
Cfr. E. Husserl, La cosa e lo
spazio. Lineamenti fondamentali di fenomenologia e teoria della ragione (trad.
it. di A. Caputo), Rubbettino, Soveria Mannelli 2009. 
-
BCLW, p. 31. 
-
Ibidem. 
-
Il concetto di «dislocazione», come chiave
interpretativa della fenomenologia asoggettiva, è stato sviluppato e
approfondito nel libro di A. Pantano che abbiamo già citato. 
-
L'espace et sa problématique, in:
QP, pp. 55-56. 
-
Nonostante l'analisi dello spazio occupi,
tutto sommato, una zona periferica dell'architettura fenomenologica di Essere
e tempo, è innegabile che sia stato proprio Heidegger a preparare il
terreno per la considerazione esistenziale della spazialità, saldandola
strutturalmente all'essere-nel-mondo: «È solo la comprensione
dell'essere-nel-mondo come struttura essenziale dell'esserci a render
possibile la visione della spazialità esistenziale dell'esserci» (Essere
e tempo, cit., p. 88). Evidente appare, anche terminologicamente, il
debito di Patočka verso queste pagine heideggeriane sullo spazio. 
-
L'espace et sa problématique, in:
QP, p. 61. 
-
Ivi, p. 59. 
-
Ivi, p. 63. 
-
Ivi, p. 62. 
-
Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze
europee e la fenomenologia trascendentale, cit., pp. 210-211: «L'epochè crea
una singolare solitudine filosofica, che è l'esigenza metodica
fondamentale di una filosofia realmente radicale. [...] L'io che attingo
nell'epochè [ ] è denominato «io» soltanto per un equivoco, anche
se si tratta di un equivoco essenziale, perché quando io cerco di
definirlo riflessivamente non posso dire che: questo io sono io, io che
attuo l'epochè, io che interrogo il mondo quale fenomeno, il
mondo che vale ora per me nel suo essere e nel suo essere così-e-così,
con tutti gli uomini in esso, gli uomini di cui io sono tanto sicuro; io
che sto al di sopra di tutta l'esistenza naturale che ha senso per me,
che sono il polo egologico della vita trascendentale entro cui il mondo
ha senso per me puramente in quanto mondo; io che nella mia concrezione
includo tutto ciò». 
-
Il paradosso fenomenologico della
soggettività umana, oggetto nel mondo e soggetto per il
mondo, viene sviluppato e chiarito da Husserl nei §§ 53-54 della Crisi. 
-
Per un'analisi della nuova configurazione
assunta dalla «soggettività trascendentale» in Husserl, mi permetto di
rinviare a: M. Smargiassi, La soggettività trascendentale concreta.
Linee per una rilettura della fenomenologia di Edmund Husserl,
Aracne, Roma 2003. 
-
L'espace et sa problématique, in:
QP, pp. 62-63. 
-
«[I fenomeni dell'interpellazione]
presuppongono la simultaneità del tu e dell'io, cioè lo
spazio. Lo spazio è in questo senso ordo coexistentiae» (L'espace
et sa problématique (Annexes), in QP, p. 310). 
-
«L'orientamento globale del vissuto (senza
eccettuare il vissuto corporeo che è l'esperienza sensibile) sull'oggetto è
fondamentale per la comprensione del nostro rapporto originario con lo
spazio che si approfondisce e si struttura perché esso è una presenza
personale, un rapportarsi personale ad altri enti e, in ultima analisi,
all'universo di tutti gli enti. Per questa ragione, il rapporto con
lo spazio è indissolubilmente legato alla struttura del pronome
personale» (L'espace et sa problématique (Annexes),
in: QP, pp. 308-309). 
-
E. Husserl, Meditazioni cartesiane e
discorsi parigini, cit., p. 115. La questione dell'esperienza
dell'altro, dell'empatia, non rappresenta per Husserl un problema
specifico e settoriale della fenomenologia trascendentale, in quanto la
sua chiarificazione teoretica consente di fondare una «teoria
trascendentale del mondo oggettivo». Infatti, «al senso d'essere del
mondo, specialmente della natura in quanto oggettiva, appartiene l'esserci-per-ognuno,
come sempre da noi cointenzionato quando parliamo di realtà oggettiva.
Inoltre, al mondo dell'esperienza appartengono oggetti con predicati spirituali,
che per loro origine e senso rimandano a soggetti e in generale a
soggetti estranei e alle loro intenzionalità attivamente costitutive»
(ivi, pp. 115-116). 
-
Cfr. V Meditazione cartesiana, §§ 50-55. 
-
Cfr., in questa prospettiva, La
phénoménologie, la philosophie phénoménologique, et les Meditations
cartesiennes de Husserl, in: QP, pp. 149-188. 
-
[Corpo e mondo], in: CCF, p. 193. 
-
Ivi, p. 203. 
-
«Il fondamento ontologico originario
dell'esistenzialità dell'esserci è la temporalità. La totalità
articolata delle strutture dell'essere dell'esserci in quanto cura è
comprensibile esistenzialmente solo a partire da essa» (M. Heidegger, Essere
e tempo, cit., p. 287). 
-
[Corpo e mondo], in: CCF, p. 204. 
-
Ivi, pp. 204-205. 
-
Cfr. V Meditazione cartesiana, § 44. 
-
Il percorso sviluppato nella V Meditazione
non è l'unico possibile nella tematizzazione husserliana del problema
fenomenologico-trascendentale dell'intersoggettività. In alcuni inediti,
Husserl sembra fornire gli elementi per una (auto)critica fenomenologica
della «riduzione alla soggettività pura», nella stessa linea di Patočka.
Cfr., su questo, M. Smargiassi, «Solipsismo e intersoggettività nella
fenomenologia trascendentale di Edmund Husserl», in: Dialegesthai(2009). 
-
[Corpo e mondo], in: CCF, p. 195. 
-
Ibidem. 
-
Ivi, p. 196, nota 7. 
-
Ibidem. 
-
Cfr. Critica della ragion pura,
Analitica dei principi: «Confutazione dell'idealismo». 
-
[Corpo e mondo], pp. 194-195. 
-
Ivi, p. 196, nota 7. 
-
«Merleau-Ponty, proseguendo le analisi
husserliane del «potere sul corpo» e rinnovando la tradizione francese
che ha la sua origine in Maine de Biran, mette in rilievo con
particolare acutezza il carattere corporeo dell'esistenza, il corpo e il
potere sul corpo come componente originaria, insostituibile e fonte
autentica di tutte le possibilità dell'esistenza » (Meditation sur «Le
monde naturel comme problème philosophique», in: MNMEH, p. 97). 
-
Per quanto riguarda gli approdi della
fenomenologia henryana come «rivelazione della vita invisibile», si
vedano almeno: M. Henry, Incarnazione. Una filosofia della carne (trad.
it. di G. Sansonetti), SEI, Torino 2001; Id., Io sono la verità. Per
una filosofia del cristianesimo (trad. it. di G. Sansonetti),
Queriniana, Brescia 1997. 
-
«Il mondo della vita è il mondo del bene e
del male e la soggettività è quella del dramma del bene e del male; bene
e male di un essere essenzialmente finito che non saprebbe vivere senza
un progetto non tematico di un bene, senza «sapere», sempre non
tematicamente, che questo progetto è legato all'ombra della possibilità
estrema di non progettare del tutto. [...] La corporeità, la
reciprocità, la spazialità concreta compresa di familiarità ed
estraneità, sono tutte strutture costanti di questo mondo» (La
filosofia della crisi delle scienze secondo Edmund Husserl e la sua
concezione di una fenomenologia del «mondo della vita», in: MNF, p.
146). 
-
Sulla tensione tra «finitezza» e
«infinità» come orizzonte per comprendere il senso complessivo della
filosofia patočkiana, è illuminante la ricerca di F. Karfik, Unendlichwerden
durch die Endlichkeit. Eine Lektüre der Philosophie Jan Patoèkas,
Königshausen und Neumann, Würzburg 2008. 
-
Cfr. BCLW, p. 176. 
-
Paradossalmente, il corpo appare come ciò
che renderebbe più comprensibili e più concrete alcune delle tesi
fondamentali di Essere e tempo. Ma, di fatto, il fenomeno della
corporeità si ritira sempre di nuovo sullo sfondo, non si trova mai al
centro del campo tematico, non diventa un fondamento dell'analisi
esistenziale e della vita stessa della soggettività: «Heidegger non nega
la corporeità, non nega che siamo anche oggettivamente tra gli oggetti,
ma non analizza ciò ulteriormente, non lo riconosce come quel fondamento
della nostra vita che esso è» (BCLW, Ibidem). 
-
Essere e tempo, cit., p. 160. 
-
Ivi, §§ 22-23-24. L'interpretazione del
senso esistenziale dello spazio viene dapprima delineata sulla base
dell'ente utilizzabile o «alla mano» (zu-handen), che acquista le
più elementari determinazioni spaziali («vicino», «lontano», «qui»,
«là», «dove», ecc.) in modo conforme al prendersi-cura disvelante
dell'esserci. Poi Heidegger passa a esaminare la spazialità propria
dell'esserci, il quale, come ente, è caratterizzato dal dis-allontanamento,
cioè dalla tendenza essenziale alla vicinanza («ottenere»,
«preparare», «avere a portata di mano», ecc.), e dall'orientamento,
cioè dall'assumere una determinata direzione. Infine, viene analizzata
più in generale la relazione tra lo spazio e l'essere-nel-mondo,
rilevando come la dimensione esistenziale della spazialità non possieda
ancora il senso oggettivo, «puro» dello spazio metrico e geometrico; al
contrario, quest'ultimo scaturisce solo da una de-mondanizzazione,
da una sospensione di quella struttura-di-mondo che contraddistingue
l'incontro con l'ente «alla mano». Non possiamo qui avviare un confronto
più ampio tra la concezione dello spazio di Heidegger e quella di
Patočka. Si può comunque osservare come nella fenomenologia della
spazialità dell'esserci, cui Patočka certamente si è richiamato sotto
diversi e importanti aspetti, emerga solo a tratti e in maniera non
sistematica il legame essenziale con l'intersoggettività, con l'apertura
dell'io ad altri, che, invece, occupa spesso il centro della riflessione
patočkiana sullo spazio. 
-
Ivi, p. 393. 
-
«L'«avanti» e l'«avanti-a-sé» indicano
l'avvenire quale è reso possibile dall'essere l'esserci tale che gli
importi del suo poter-essere. Il progettarsi-in-avanti
sull'«in-vista-di-se-stesso», progettarsi che si fonda nell'avvenire, è
un carattere essenziale dell'esistenzialità. Il senso primario
dell'esistenzialità è l'avvenire» (Ibidem, modificata). 
-
«La vicinanza massima
dell'essere-per-la-morte come possibilità coincide con la sua lontananza
massima da ogni realtà. Quanto più questa possibilità è compresa
senza veli, tanto più acutamente la comprensione penetra nella
possibilità in quanto impossibilità dell'esistenza in generale.
[...] L'essere-per-la-morte, come anticipazione della possibilità, rende
possibile la possibilità e la rende libera come tale» (M.
Heidegger, Essere e tempo, p. 319). Così intesa, la morte è
esistenzialmente il «trascendentale» della possibilità (la possibilità
dell'impossibilità come possibilità della possibilità) e, in
ultima istanza, della libertà. 
-
Cfr. M. Richir, Préface, in QP, p.
12. 
-
Sarebbe interessante rileggere
l'«abbandono» da parte di Heidegger della fenomenologia esistenziale e
la cosiddetta Kehre verso un pensiero dell'essere più originario
(non segnato dall'impronta epocale della metafisica e dell'umanismo)
alla luce della decisione di «oltrepassare» il fondamento corporeo
dell'esistenza (una decisione già compiuta, in fondo, nell'opera del
'27). Su questo piano Patočka, condividendo alcuni aspetti della Kehre heideggeriana
come tentativo di (ri)pensare il senso dell'essere e del tempo in una
prospettiva che sfugga all'alternativa di «soggetto» e «oggetto», ne
coglie anche i limiti e i rischi di irrazionalità e oscurità, rimanendo
fedele alla lezione fenomenologica di Husserl sulla concretezza della
vita soggettiva. A chiusura del saggio del 1967, Il mondo naturale e
la fenomenologia, si legge: «Ci siamo sforzati di non cadere in quel
soggettivismo che scorge l'assoluto stesso nel fondo dell'uomo [Hegel e,
in parte, Husserl] (e ai cui occhi l'uomo appare come un essere
interiormente infinito), e neppure nell'irrazionalismo di quell'essere
preliminare alla cui grazia e disgrazia si troverebbe esposto il senso
stesso dell'essere umano [la posizione del «secondo» Heidegger]» (Il
mondo naturale e la fenomenologia, in: MNF, p. 124). 
-
Cfr.: Le périls de l'orientation de la
science vers la tecnique selon Husserl et l'essence de la technique en
tant que péril selon Heidegger, in: LS, pp. 266-267. 
-
Il significato etico della
corporeità (o incarnazione) emerge chiaramente, prima del configurarsi
di una legge e di un discorso morale, in quella che Patočka chiama la missione
della soggettività verso il mondo, in quanto essa è, nella sua
essenza, chiarezza ed esigenza di chiarificazione, movimento
vivente della verità, rivelazione del senso dell'apparire
(una rivelazione mai completa e inesauribile, ma sempre di nuovo da
approfondire): «Questo fatto dell'azione nel corpo e nel mondo senza la
quale la soggettività stessa sarebbe impossibile, ha il senso di una
missione della soggettività verso il mondo. La soggettività è rinviata
al mondo e dipendente dal mondo, essa richiede come tale il mondo. Ma
sappiamo che la soggettività nella sua essenza è la chiarezza,
l'essere-allo-scoperto del mondo. La missione della soggettività verso
il mondo significa, certo, l'incompletezza di questa chiarezza, ma anche
un «appello del mondo» alla soggettività, un appello alla chiarezza.
[...]. Così l'incarnazione e la mondanità dell'uomo si accompagnano
anche ad un appello a ciò che non è dato, ma deve essere, in una
maniera più profonda, svelato, scoperto, condotto all'apparire» (IFS, p.
177). Nell'oltrepassare il «dato», nella prospettiva di qualcosa di
superiore, e di più alto, che occorre «portare alla luce», consiste
l'accezione più pregnante della trascendenza dell'uomo, secondo
Patočka. 
-
[Corpo e mondo], in: CCF, p. 191. 
-
Cfr. G. Marcel, Essere e avere,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1999. 
-
[Corpo e mondo], in: CCF, p. 189. 
-
Ivi, pp. 187-188. 
-
Ivi, p. 190. 
-
In un passaggio importante delle lezioni
di Introduzione alla fenomenologia di Husserl, discutendo la
tesi husserliana dell'ego come «presente vivente» ed
evidenziandone alcune aporie di fondo, Patočka cerca di afferrare, oltre
l'esito esplicito delle analisi della coscienza del tempo, il punto
nodale in cui la temporalità del soggetto manifesta il suo necessario
risvolto corporeo, la sua «incarnazione» e «oggettivazione»:«Se la
soggettività del soggetto è espressa [da Husserl] come nunc stans,
come ego in un istante costante, stabile, ne consegue che il
soggetto deve incessantemente oggettivarsi, trasformare se stesso in
oggetto per poter esistere come soggetto, e ciò in ultima analisi
significa, non appena si considerino tutte le implicazioni della
coscienza interna del tempo, che deve incarnarsi, deve essere la
soggettività di un soggetto corporeo» (IPH, p. 176). 
-
Per Patočka, neppure a Heidegger è
riuscito di pensare il tempo asoggettivamente, sebbene la
sua critica del «tempo vuoto» kantiano e la sua presa di distanza dal
«tempo della coscienza» di Husserl abbiano certamente aperto la strada
per un nuovo pensiero fenomenologico della temporalità: «Il tempo è da
concepire diversamente: 1) rispetto a Kant, in cui esso è una vuota
rappresentazione dell'immaginazione, una pura «immagine», qualcosa di
vuoto; 2) rispetto a Edmund Husserl e Heidegger, perché anch'essi vedono
il tempo come qualcosa di soggettivo, come ciò che unifica
soggettivamente attraverso l'anticipazione e la ritenzione, attraverso i
modi di temporalizzazione propri delle dimensioni della temporalità» (Forma-del-mondo
dell'esperienza e esperienza del mondo, in: CCF, p. 138). 
-
«Il progetto delle nostre possibilità
umane fondamentali è connesso al fatto che l'uomo, in quanto essere
finito, è anche, necessariamente, un essere temporale. In quanto finiti,
siamo anche temporali e, in quanto temporali, finiti. La nostra vita è
vita nel tempo, per un tempo, nella tensione tra inizio e fine,
continuamente presenti, questi ultimi, come limiti della nostra durata,
del tempo che è nostro» (Qu'est-ce que l'existence? In: MNMEH, p.
262). 
-
Cfr. BCLW, p. 178. 
-
«Acquisire il mondo, ancorarsi e radicarsi
in esso è possibile soltanto attraverso l'intermediario degli altri;
[...] ma tale acquisizione del mondo si realizza nell'ambito di una
protezione che [all'individuo] è garantita dall'accoglienza da parte
degli altri. È negli altri che la terra diventa calda, amabile, benigna.
Gli altri sono pertanto la dimora originaria, e non una mera necessità
esteriore» (Per la preistoria della scienza del movimento..., in:
MNF, cit., pp. 65-66). 
-
Corpo, possibilità, mondo, campo di
apparizione, in: CCF, p. 228. 
-
Il tema del lavoro costituisce in
Patočka un'altra prospettiva fondamentale sull'oggettivazione
inseparabile dal senso della soggettività umana, in quanto mondana e
corporea: «Si può accettare l'altro solo esponendo noi stessi,
provvedendo ai suoi bisogni non meno che ai nostri, e cioè lavorando. Il
lavoro è sostanzialmente il nostro metterci a disposizione e allo stesso
tempo il disporre di noi da parte degli altri, le cui radici sono in
quel collegamento fattizio della vita con se stessa che fa appunto della
vita una metafora ontologica» (SEFS, p. 35). 
-
Sul tempo come forza ontologica universale
e «mistero», in una riflessione carica di suggestioni heideggeriane, cfr. Les
fondements spirituels de la vie contemporaine, in: LS, p. 237. 
-
«La corporeità di ogni movimento ci
impedisce di perdere di vista il fatto che, in quanto noi ci muoviamo,
in quanto agiamo e in quanto in questo «fare» comprendiamo noi stessi e
le cose, noi facciamo parte della physis, del mondo che tutto
ingloba, della natura» (Méditation sur «Le monde naturel comme
problème philosophique», in: MNMEH, p. 93). Riletto nel
contesto della fenomenologia asoggettiva, la physis costituisce
quel movimento più vasto e più profondo(«universale», cosmico) in
cui si inserisce il movimento (finito) della soggettività, l'esistenza
umana. Ma la physis non rappresenta semplicemente un ritorno del
pensiero occidentale al suo passato pre-metafisico, né il suo appello si
esaurisce in un richiamo potente alle dimensioni corporee e terrestri
dell'esistenza; physis è anche, in Patočka, il nome di quel mistero
del mondo e del tempo da cui si genera incessantemente la
domanda della filosofia (la filosofia come «domandare») e in cui prende
forma, per l'uomo, la possibilità fondamentale di una vita-nella-verità. 
-
Sulla problematicità come struttura
dell'esistenza umana nel mondo e orizzonte permanente della filosofia
nella sua storia, cfr., per esempio, L'homme spirituel et l'intellectuel,
in: LS, pp. 247-sgg. 
-
Nel suo fondamento storico e come frutto
del lavoro congiunto di Husserl e Heidegger, la fenomenologia appare a
Patočka come «lo svelamento del cartesianismo essenziale di tutta la
nostra epoca moderna se, per usare la terminologia heideggeriana, si
guarda il cartesianismo come la somma delle conseguenze ontiche
dell'ontologia che prende le mosse con la dottrina delle sostanze, cioè
con la teoria di Cartesio dei due modi d'essere della res. La
fenomenologia non è nient'altro che l'aspirazione ad opporre a questo
concetto fondamentale dei tempi moderni il percorso di una ricerca»
(Che cos'è la fenomenologia, in: CCF, p. 345). Cfr., per una
discussione complessiva del problema, Cartésianisme et phénoménologie,
in MNMEH, pp. 180-226. 
-
Meriterebbe un'analisi specifica il
confronto tra Patočka e Emmanuel Lévinas, come due diverse ma in parte
convergenti linee di sviluppo di un «pensiero incarnato», in cui
l'eredità fenomenologica si modula nel tentativo di ridare un senso, non
ingenuo e non dogmatico, alla parola umanesimo, oltrepassando il
«verdetto» antiumanistico di Heidegger. 
Da: https://mondodomani.org
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