Anna Maria di Miscio, Antropologia del corpo. Thomas Csordas, Nancy Scheper Hughes, Ivo Quaranta

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Anna Maria di Miscio, Antropologia del corpo. Thomas Csordas, Nancy Scheper Hughes, Ivo Quaranta


 

Il corpo, la   salute e la malattia sono al nostro sguardo realtà di per sé evidenti, ma sono anche e soprattutto costruzione sociale prodotta e riprodotta in campi sociali che chiudono solo momentaneamente l’esperienza dell’essere-avere un corpo in una definizione sempre parziale e mai definitiva.

Non c’è, o non dovrebbe esserci, alcuna differenza tra essere un corpo ed avere un corpo, tra il sentire del corpo e la sua rappresentazione, tra il corpo anatomico e il corpo come agente dell’esperienza, tra i due livelli di percezione ed elaborazione, dal corpo come soggetto di conoscenza, del corpo come oggetto di conoscenza (Ivo Quaranta, 2008).

Non c’è corpo come luogo separato dalla mente, ma un mindful body (Scheper Hughes, 1987). La percezione e organizzazione della realtà sono radicate nell’esperienza del corpo, in saperi e tecnologie incorporate, o meglio, nell’esperienza di incorporazione di tecnologie e saperi. Il corpo assorbe un sapere attinto dall’esperienza individuale e sociale, comune e condivisa, e impara a posizionarsi sulla scena sociale, incorporando tecnologie culturali, tecniche del sesso, del camminare, lavarsi, partorire, mangiare, a partire da processi di apprendimento, di socializzazione primaria e secondaria (Mauss, 1950). Il gesto è tecnica, il corpo è strumento.

La relazione tra mente e corpo, tra il sé e l’altro non può che essere orientata dalla circolarità tra essere e avere un corpo, da una metabolizzazione, elaborazione creativa dell’altro, della sua differenza.  La mente e il corpo hanno una dimensione relazionale. Tra gli elementi peculiari dell’identità l’altro è parte costitutiva.
La dinamica mobile e processuale che dà forma mai definita una volta per tutte all’identità è sussunta sulla scena sociale in una relazione dialogica che mi (in)forma di nuove possibilità espressive del corpo, in un processo di retroazione tra me e l’altro. Non c’è alcuna dimensione umana e sociale nel mio io allo specchio, nell’identico a me stesso, non c’è mente che non viva e non si nutra nella circolarità e nella reciprocità tra il sè e l’altro da sè.

Il riconoscimento del sè e dell’altro è possibile solo dentro uno spazio relazionale, il suo luogo è la piazza, il suo strumento è la pace. Il misconoscimento si nutre invece delle categorie della discriminazione, della stigmatizzazione dell’altro, della sua differenza, il suo luogo è l’arena, il suo strumento è la guerra.
Identità e alterità non sono essenze, ma processualità dinamiche, perché il segreto che siamo noi, esseri umani, non scaturisce dalla nuda vita, ma dalla incorporazione e condivisione di saperi e tecnologie, dalla nostra capacità di abitare e trasformare un mondo, non già dato una volta per tutte, ma costruito, fabbricato, e al tempo stesso di esserne penetrati e trasformati. Il corpo è agente della storia ed è agito dalla storia, è corpo narrante e corpo narrato, preso nelle dinamiche tra dimensione individuale, sociale e politica.

Le pratiche di costruzione dell’identità non hanno radici in una dimensione preculturale o universale, quanto piuttosto nella dimensione individuale e collettiva dell’esperienza. Sono dinamiche di costruzione dell’identità che possono agire il cambiamento, liberare processi di trasformazione e produzione culturale, o dissolvere  la coscienza del soggetto nelle precarietà di condizioni materiali di esistenza, nella crisi della demartiniana presenza (Pandolfi 1991).

Centrali in una nuova Antropologia del corpo sono due concetti, incorporazione e mindful-body, maturati nell’Antropologia Culturale del Nord America, di Thomas Csordas, di Margaret Lock e Nancy Scepher Hughes.
È del 1987 un articolo di Margaret Lock e Nancy Scepher Hughes, “The mindful body, a prolegomenon to future work in medical anthropology”, che ha orientato l’Antropologia Culturale verso una maggior attenzione al corpo inteso non più come mera entità naturale quanto piuttosto come corpo preso tra dinamiche di produzione, riproduzione e costruzione culturale.

A partire dalla critica agli assunti della Teologia Cristiana che hanno separato lo spirito e la materia, dal dualismo cartesiano, res cogitans/res extensa, fino alle categorie culturali e storiche di costruzione della corporeità, le due autrici ridefiniscono il corpo sia come luogo dell’agentività e dell’esperienza del soggetto che come prodotto di pratiche discorsive e rappresentazioni simboliche.

Dunque abbiamo un corpo, oggetto di elaborazione e pratiche culturali, e siamo un corpo che vive e agisce nel mondo.
Le rappresentazioni del corpo plasmano l’esperienza, organizzano le modalità di sentire e abitare il corpo, sono dispostivi di costruzione della realtà clinica, della salute, della malattia.  Ma ridurre il corpo a oggetto plasmato da dinamiche sociali e storiche vuol dire negare l’attività di produzione corporea di significati e pratiche sociali, non vedere la produttività corporea nella processualità dialettica tra corpo individuale portatore di esperienza soggettiva, corpo sociale, oggetto di rappresentazioni simboliche e pratiche discorsive, e corpo politico come luogo del controllo del Biopotere sui corpi.

L’esperienza della sofferenza e della malattia è (in)formata dalla cultura, dai linguaggi e dai saperi della Biomedica, ma al tempo stesso è discorso e linguaggio del corpo in cui si intrecciano esperienze soggettive e dinamiche sociali, politiche ed economiche.
Il corpo, prodotto e produttore di pratiche sociali e politiche, vive nella tensione dialettica tra corpo individuale, simbologie culturali e assetti sociali. E la malattia, o meglio il sintomo della malattia,  può essere inteso sia come momento di resistenza, di critica all’egemonia, che come idioma del corpo legittimato e riconosciuto dai linguaggi della Biomedica per esprimere la sofferenza.

In questa prospettiva la malattia nei contesti della povertà e della esclusione sociale è state letta e interpretata come effetto devastante dei poteri forti sulla marginalità e al tempo stesso come  espressione dell’esperienza di marginalità, come incorporazione di condizioni precarie di esistenza.

La possibilità di riconsiderare il corpo come mindful body è stata elaborata a partire dalla sospensione delle nostre certezze sul corpo, radicate nei dualismi della nostra tradizione filosofica, che hanno offerto alla Biomedica una base epistemolgica per osservare e reificare il corpo.
La messa a fuoco del concetto di minful-body ha consentito di ripensare un corpo molteplice, intrecciato tra natura e cultura, passione e ragione, esperienza, rappresentazioni dell’esperienza e dinamiche biopolitiche che regolano la sessualità, il tempo del lavoro e della festa, le definizioni di salute e malattia.

La nuova Antropologia Culturale critica elabora una riflessione sul corpo e sull’identità secondo modalità differenti rispetto ai saperi dell’Occidente, alla finzione delle identità nazionali che chiudono l’esperienza dentro i confini dell’etnicità e dei fondamentalismi culturali e religiosi.
Particolare attenzione merita la definizione essenzialista dell’identità culturale , di fatto appresa in processi di socializzazione primaria e secondaria, ma poi mentalizzata come naturale, cristallizzata e immutabile: l’identico per definizione è sempre uguale a sé stesso, è un soggetto normalizzato dentro rapporti di potere e autorità da dispostivi che lo definiscono sano, malato o deviante. Qualsiasi slittamento da questa identità normalzzata è medicalizzata come forma di disturbo della personalità nelle pratiche della Biomedica, che si è contesa tra Stato e Chiesa il controllo sui corpi e che ha prodotto un testo autorevole dell’esperienza del corpo e della malattia, la cartella clinica.

Nella stessa prosettiva centrale è anche il concetto di incorporazione dell’antropologo Thomas Csordas, che va oltre le dicotomie corpo/mente, natura/cultura, materia/spirito, della filosofia cartesiana e della Teologia Cristiana.
Incorporazione per Csordas è sia una disposizione del corpo a farsi strutturare dal contesto sociale, sia una capacità di produrre altre e differenti rappresentazioni del corpo, del mondo e della realtà sociale. L’incorporazione è il risultato di una retroazione tra percezione, rappresentazione e azione, è il risultato di una iscrizione nel corpo di ampi processi sociali e al tempo stesso il risultato di produzioni individuali del sè, del corpo, dell’agire intenzionale del corpo nel mondo.

L’incorporazione è dunque un concetto che si è imposto, insieme al mindful-body di Margaret Lock e Nancy Scepher Hughes, in Antropologia come ponte tra una fenomenologia culturale che legge il corpo come presenza e progetto nel mondo e un’Antropologia centrata sull’impatto e sugli effetti delle forze sociali e politiche, dei saperi medici sul corpo individuale e sociale. Il concetto di incorporazione fa riferimento sia alla produzione corporea di forme culturali e storiche che alle pratiche discorsive e culturali incorporate, che si fanno codice del corpo nella gestualità, nella postura, nel movimento.
È una condizione in cui il corpo è prodotto nella intersezione tra dimensione soggettiva e intersoggettiva dell’esperienza, tra esperienza individuale del corpo e testi che (in)formano codici comportamentali e vestimentali, tra interdizioni e prescrizioni che circoscrivono la sessualità, i confini del desiderio.

Il corpo è preso nell’intersezione tra dispositivi di controllo che il Biopotere esercita sui corpi e le strategie di resistenza elaborate dai soggetti. Il corpo è il luogo dove si incarnano identità mobili prodotte nella tensione tra forme culturali, mondi locali e scenari globalizzati. E come sottolinea T. J. Csordas, uno studio sul corpo non può che ripartire dalle forme di incorporazione e dagli stili di oggettivazione corporea.
La sua riflessione riparte dalla constatazione della variabilità culturale e storica della relazione mente/corpo. Il corpo è il risultato di una produzione sociale e la Biologia è la  costruzione sociale della conoscenza sul corpo.

Ma, invertendo i termini, la fenomenolgia culturale proposta da Csordas assume la storia e i processi culturali come produzione di nuove forme della corporeità, come nel caso delle tecnologie biomediche, del cyberspazio, ma anche della della nuova icona, il cyborg, che corrode i confini tra organico e inorganico e che ha un potere trasformativo del corpo, esalta la sua natura tecno-culturale, artificiale.

La seconda riflessione, nella fenomenologia culturale elaborata da Csordas, è la relazione tra il corpo come entità biologica e i processi di incorporazione che in-formano il corpo, e per analogia tra il testo, nella sua oggettualità materiale, e la testualità come produzione che dà forma al testo (Barthes). La analogia tra corpo e testo discende dalla svolta semiotica in Antropologia e dalla definizione geertziana della cultura come testo e sistema di simboli, una svolta semiotica che ha ridefinito il corpo come testo della cultura, da leggere e interpretare.

La cultura per Geertz è testo espresso in azioni simboliche, esempi fugaci di comportamento, l’incessante attività di produzione simbolica genera campi di iscrizione socio-culturale in cui anche il corpo entra come testo fluttuante, prodotto e riprodotto in pratiche discorsive in cui intervengono le iscrizioni della storia e la cultura. La riflessione sul corpo come testo, che riparte dall’assunto gertziano della cultura come testo, mette a fuoco gli assemblaggi provvisori del corpo come oggetto di rappresentazioni simboliche, costrutto culturale plasmato da formazioni discorsive che creano effetti di realtà e alimentano processi di formazione delle identità, delimitano ciò che è normale o deviante, il bello e il brutto, il normale e il patologico, i ruoli di genere, il femminile e il maschile.
Tuttavia, afferma Csordas, la definizione del corpo-testo ha accantonato la simultaneità dell’esperienza del corpo e dal corpo e ha privilegiato la rappresentazione del corpo come produzione discorsiva, costruzione culturale.

A mio avviso l’errore interpretativo di Csordas sulla Antropologia geertziana sta nel chiudere e reificare la produttività dei concetti di cultura e corpo come testi. Pensare un testo immutabile, immobile nella sua materialità e nel tempo, che non si alimenta della molteplicità delle possibili interpretazioni contemporanee e successive, significa non restituire ad uno dei più grandi antropologi del Novecento il merito di aver avviato una riflessione sulla culture e sulle identità come processualità dinamiche, dentro e non fuori le dinamiche storiche, sociali, politiche ed economiche.
La testualità dei corpi e delle culture non è priva di quel soggetto che Geertz riconosce come il primo autore di ogni enunciazione e di ogni enunciato che in qualità di antropologo va osservando, analizzando e interpretando.

Ma seguiamo Csordas nella sua riflessione sui processi di incorporazione. La tradizione fenomenologia aggiunge per Csordas alla riflessione sul corpo come testo il concetto  essere-nel-mondo del corpo come presenza, come arco intenzionale attraverso il mondo, la percezione come processo corporeo e l’esperienza di realtà come incorporazione. Sono concetti che possiamo affiancare ora, prosegue Csordas, a quelli di testualità, rappresentazione e costruzione del corpo.
Dalla prospettiva della rappresentazione e della testualità possiamo pensare il corpo come testo e produzione simbolica e culturale di senso, da quella fenomenologica possiamo pensare al corpo come presenza e progetto, essere-nel-mondo, incorporazione dell’esperienza e delle identità, incorporazione delle modalità di abitare e muoversi nello spazio, di vivere l’esperienza culturalmente determinata della salute, della malattia e della morte.

Da un lato abbiamo dunque il condizionamento delle strutture che sovrastano il soggetto, dall’altro la dimensione agentiva della produzione corporea della cultura, ovvero la coesistenza nel soggetto sia della mera riproduzione di codici comportamentali e relazionali “naturalizzati” dalla Biomedica e dalla Teologia Cristiana, che un posizionamento critico rispetto alle forme in cui è costretto.

I processi di incorporazione dell’esperienza sono processi dal corpo e del corpo (Ivo Quaranta, 2008), sono processi di elaborazione sociale e di produzione culturale. Dal corpo, in quanto il soggetto è attivo produttore di conoscenza, e del corpo nella sua cosalità come prodotto di dinamiche, sociali culturali e storiche, di pratiche discorsive egemoniche sedimentate nella storia di tutti e nelle biografie di ciascuno, che retrocedono dalla sfera della consapevolezza, si fanno senso comune non problematizzato. L’arbitrarietà del sociale da cultura si fa natura, plasma la corporeità e si fa egemonia sul corpo.

Il concetto incorporazione consente di valutare anche processi di incorporazione del sapere durante i percorsi di apprendimento e di formazione medico-scientifica, fondati su un metodo oggettivante che rimuove il corpo come presenza, agentività e intenzionalità, e opera una riduzione del corpo osservato dallo sguardo medico a corpo anatomico, insieme di organi. È un sapere, una modalità di osservazione scientica incorporata che isola corpi nella loro nuda cosalità e di cui possiamo ripercorrere le origini nella filosofia arisotetelica, nella storia dalla Medicina, nella Teologia Cristiana che hanno bandito la corporeità separando mente e corpo e la possibilità di articolare, a partire dalle modalità percettive radicate nel corpo, una riflessione sul sé e sul mondo.

Le modalità di apprendimento della conoscenza medica sono radicate in apparati istituzionali, percorsi formativi, univeristà, laboratori e ospedali, in un contesto didattico in cui la centralità dello sguardo sul corpo è fondamentale.

L’osservazione e la dissezione anatomica del cadavere, la reficazione del corpo, sono esperienze trasformativa che riformulano la disposizione, il corpo stesso e l’habitus del discente durante la lezione di anatomia. Il percorso formativo dello studente di Medicina è infatti un processo di incorporazione del sapere fondato sul modellamento dello sguardo e su pratiche di apprendistato in sala settoria che si traducono, alla fine del suo addestramento, nelle pratiche mediche di oggettivazione del corpo del paziente.

La conoscenza è acquisita e incorporata, esperita come naturale, e il corpo osservato da luogo dell’esperienza si fa oggetto inerte da esplorare, le parti del cadavere conservate in formalina possono essere toccate, incise. L’oggettività scientifica è costruita e modellata a partire dall’osservazione di un corpo-cadavere, depersonalizzato, senza nome né storia, un insieme di organi piuttosto che soggettività incarnata. Ivo Quaranta mette bene a fuoco i limiti di una scienza disincarnata, sia di un’antropologia del corpo che indaga il corpo come oggetto passivo di conoscenza, sia di un’antropologia dal corpo inteso come agente eroico decontestualizato. Incrociare le due prospettive consente allora di andare oltre certe tradizioni culturali rispetto alle quali dobbiamo operare una forte dose di autoriflessività

[http://www.trickster.lettere.unipd.it/archivio/4_contagio/index.html]. Il corpo è sia un prodotto della storia e della cultura, che il risultato di un’agentività corporea intenzionale, così come le relazioni di dominio sono tentativi di egemonia sui corpi e sulle soggettività incarnate.

L’Antropologia del e dal corpo si configura dunque come premessa e approdo di un’Antropologia Medica che osserva criticamente le definizioni di salute a malattia incorporate e le etichette nosologiche assegnate da saperi medici che danno un nome alla sofferenza circoscrivendo e delimitando, nei confini disciplinari della Biomedica e della Psichiatria, patologie, organi, corpi ed esperienza incarnata della malattia.

Le rappresentazione della malattia descrivono un’alterazione, una patologia, una riduzione al biologico di una molteplicità di processi di natura sociale politica ed economica che concorrono alla produzione di malattie emergenti determinate da malnutrizione, povertà, marginalità, dusoccupazione, una violenza strutturale naturalizzata (Paul Farmer).

L’Antropolgia Medica riflessiva si interroga sulle conseguenze sociali e politiche delle sue interpretazioni, chiede di posizionare etnografie dell’esperienza incarnata della malattia, di illuminare sugli assetti locali del potere sui corpi, sulle tensioni che attraversano le culture, sui processi di esclusione sociale dall’accesso alle risorse, che non sono fenomeni dell’esperienza privata e individuale del soggetto, chiamano piuttosto in causa l’ordine politico locale e globale.

Un esempio è la ricerca dell’antropologa statunitense Nancy Scheper Hughes tra i lavoratori salariati del Nord-Est del Brasile condotta su una particolare categoria nosologica, i nervios, medicalizzata e descritta dalla Biomedica come manifestazione di una patologia di natura psichiatrica, e che esprime inceve una condizione di malnutrizione cronica, manifestazione e metafora incorporata del sistema socio-politico.

Allora se da un lato la richiesta di medicalizzazione della sofferenza è ricerca di legittimazione del malessere, incorporazione del conflitto e della marginalità sociale, dall’altro la medicalizzazione è forma di controllo e potere del sapere medico sui corpi che occulta nelle categorie nosologiche e nei percorsi diagnostico-terapeutici le determinanti non sanitarie della malattia, povertà, denutrizione, disoccupazione, terrorismo politico.

L’Antropologia Medica mette dunque a fuoco il concetto di incorporazione dell’esperienza del disagio, sia come processo di produzione storico-culturale, come traccia incorporata di processi sociali ed economici iscritti nei corpi, che come produzione dal corpo a partire dall’agentività dei soggetti, dall’intenzionalità, intesa come presenza e progetto del mondo, di opporre resistenza all’ordine costituito. Un progetto  intenzionale attivato dai soggetti nella ricerca di una risposta alla domanda di libertà dalla sofferenza, ma anche di medicalizzazione e di cura.

Dunque Antropologia dal corpo, che mette a fuoco a partire da una fenomenolgia culturale l’agentività delle soggettività incarnate, e Antropologia del corpo come riflessione sulla costruzione storica e sociale della corporeità, della salute e della malattia. Emergono allora i concetti chiave della nuova Antropologia Medica: incorporazione, violenza strutturale e sofferenza sociale, che consentono di indagare la relazione tra dinamiche politiche ed economiche, tra disagio sociale e forme di resistenza messe in atto dagli attori sociali, emergono la sofferenza e la malattia come forma visibile della violenza strutturale sui corpi.

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