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Carolina Frabasile, Michel
Henry. La fenomenologia del sentire
1. Introduzione 
La ricerca fenomenologica di Henry pone come questione focale la filosofia
trascendentale, indagando le condizioni di possibilità dell'apparire delle cose.Il
problema della visibilità delle cose e del loro apparire davanti a noi è stato
affrontato in primis da
Kant, per poi impegnare altri pensatori del Novecento, quali Husserl e Heidegger,
dimostrandosi il tema maggiore della filosofia. Lo studio fenomenologico
proposto da Henry si fa carico delle aporie lasciate insolute tanto dal pensiero
kantiano quanto da quello husserliano, avendo attribuito, sia Kant che Husserl,
il ruolo originario dell'apertura della manifestazione ad un atto e ad un
principio trascendentale relegato nell'ambito della non visibilità e della non
manifestazione: l'io penso e l'intenzionalità.
L'io penso kantiano, forma vuota, e l'atto intenzionale di Husserl, puro
«riferimento a», sono entrambi funzioni così radicate nella purezza formale da
dover trarre dall'esterno la loro materia e i loro vissuti per mettersi in moto,
non dimostrandosi dunque la prima sorgente della manifestazione. Il concetto di
«coscienza di», a cui sono riconducibili l'io penso e l'intenzionalità, oltre a
non essere il principio primo della fenomenalità, in quanto forma pura è
strutturalmente impossibilitato ad essere dimora dell'affettività, sostrato
originario della manifestazione, non possedendo lo statuto fenomenologico per
accogliere le stimmungen, o
tonalità affettive. Henry, attraverso un serrato susseguirsi di illazioni
fenomenologiche, pone la materia affettiva a luogo originario della
manifestazione, da una parte dimostrando che un atto privo di contenuti e vuoto
di vissuti non possa vedere né far vedere nulla, dall'altra sottolineandone
l'incapacità di fondare l'affettività.
Il fenomenologo francese trapianta la genesi della manifestazione, ancorata da
sempre nella tradizione della filosofia occidentale nelle varie declinazioni
della relazione soggetto-oggetto, nell'immanenza del vissuto patico, nel
sostrato che precede e fonda ogni relazione e ogni trascendenza verso l'oggetto
kantiano, il nòemahusserliano
e l'ente heideggeriano.1 L'immanenza
della paticità, allontanandosi totalmente dalla conoscenza kantiana e
husserliana, dall'apertura dell'orizzonte di Heidegger, è immediatamente nota a
se stessa, in quanto primariamente provata da sé, a prescindere da qualsiasi
rapporto soggetto-oggetto e atto intenzionale.
La rivoluzione fenomenologica compiuta da Henry, avendo rovesciato la
fenomenologia husserliana della forma intenzionale in una fenomenologia della
materia o del vissuto, approda a tre nuovi risultati rilevanti sul fronte
fenomenologico-ontologico: in
primis, introducendo la
visibilità nel mondo e del mondo, il soggetto vede e si rappresenta la realtà
mondana, avendo ricevuto la materia kantiana, la hùle husserliana
e l'ente heideggeriano, solo successivamente ad un vedersi non intenzionale e
immanente.
Il soggetto si vede, si sente ed è affetto da sé stesso dal momento che i suoi
atti non si distanziano mai da lui, ma anzi rimangono in lui; dunque egli li
riceve e li subisce in virtù del fatto di compierli. L'io riceve i propri atti
da sé e, ricevendo se stesso, esiste come rivelazione di sé, dimostrandosi
condizione di ogni ricezione e di ogni rivelazione estatica delle cose. In
secundis, dal momento che il soggetto si costituisce nella ricezione di sé,
quest'ultimo è caratterizzato da una duplice natura, quella del pensiero e
dell'affettività, che con Henry si amalgamano in un unicum ontologico
grazie all'auto affezione dell'io il quale garantisce l'identità di ragione e
sentimento, diversamente da quanto è accaduto fino ad ora quando la sfera
noetica e affettiva erano scisse. Il terzo traguardo raggiunto dal fenomenologo
francese riguarda la concezione di un io rigorosamente individuale a discapito
del modello coscienziale proposto da Husserl che non teneva conto dell'unicità
del soggetto per salvaguardare la coscienza dal decadimento al rango di cosa e
tutelarne la funzione di ultimo costituente degli oggetti.
Nella fenomenologia di Henry l'io riguadagna l'individualità smarrita, liberato
da un potere ontologico impersonale, in quanto letteralmente potere di nessuno,
per ottenere un potere in cui la singolarità e individualità sono salvaguardate
nel momento stesso in cui il soggetto compie degli atti.
2. La sconfitta dell'intenzionalità e la vita emotiva a fondamento della
manifestazione 
La proposta filosofica di Michel Henry, discostandosi dall'eidetica husserliana,
non ha più come oggetto di indagine la topica dei fenomeni in generale,
raggruppati sulla base dell'intenzionalità, ma «il fenomeno in quanto tale, la
fenomenalità, l'essenza della manifestazione, ossia ciò che è assolutamente
richiesto perché una manifestazione si produca».2 Il
filosofo francese inquadra sotto una nuova prospettiva il problema dell'essenza
della manifestazione in quanto tale e delle condizioni di possibilità di
quest'ultima, non focalizzando più l'attenzione su ciò che deve dimostrarsi come
dato assoluto, ma sull'evidenza del suo modus
manifestandi.
Per giungere al fenomeno stesso può essere intrapresa un'unica via: la via del
vissuto patico, primigenia a qual si voglia forma di intenzionalità. Il metodo
fenomenologico penetra nel singolo fenomeno considerato: scava entro di esso per
farsi strada dovendolo patire, nel senso etimologico del termine, per
comprenderlo. Il pàthos,
fondamento ultimo della fenomenalità, fa da passepartout in
quanto permette di penetrare l'essenza della manifestatività di tutti i
fenomeni, considerati nella loro unicità.
Per comprendere la fenomenalità è necessario esperire ciascun singolo fenomeno
primariamente a livello patico poiché l'affettività precede e fonda
l'instaurarsi di una relazione intenzionale e, precedendola, rende quest'ultima
possibile:
Ogni proprietà reale del vissuto reale si
rivela originariamente a se stessa, portando così in sé il sapere iniziale
di ciò che è: è sullo sfondo di un tale sapere e presupponendolo che può
nascere uno sguardo che getta davanti a sé il contenuto di questo sapere,
l'immanenza, il pàthos, la
loro determinazione secondo la modalità propria di questo vissuto, al fine
di coglierli davanti a lui come altrettanti carattere irreali componenti
l'essenza noematica di questa cogitatio.3
La fenomenalità, o essenza della manifestazione, benché fondi la dimensione del
visibile, si rivela nella sua immanenza patica e rimane confinata nel regno
dell'invisibile, decisa a non emergere nel dehors accessibile
allo sguardo. Da quanto detto, ne deriva che l'elemento trascendentale della
soggettività non si identifichi più con l'intenzionalità, ma con la dimensione
affettiva che rimane segregata e secretata nella dimensione invisibile
dell'immanenza. Dal momento che l'essenza della manifestazione è invisibile,
l'atto intenzionale non la dona nella sua veracità, ma ne presenta un sostituto
noematico «per il fatto che si limita al suo guardare e vuole guardare e si
dirige verso ciò che guarda, deve dunque sostituire alla cogitatio invisibile
che l'abita un equivalente oggettivo, la sua essenza noematica di cui il metodo
produce laboriosamente la costituzione come sua propria condizione di
possibilità».4
Lo sguardo ci fornisce una rappresentazione della fenomenalità, rendendola
presente dinanzi a noi e mettendola in scena grazie a una luce esterna ad essa
che ne tradisce l'immanenza assoluta. Henry analizza l'impianto teoretico
husserliano, evidenziando come all'interno di quest'ultimo convivano due
fenomenologie: l'una intenzionale e formale, l'altra materiale e relativa ai
contenuti o vissuti. Tuttavia nel pensiero di Husserl queste ultime non
rivestono un ruolo paritetico, ma il primato fenomenologico spetta alla forma
dell'intenzionalità, la quale assume il compito di manifestare ciò che è reale,
a prescindere dal suo intreccio con gli erlebnisse.
L'errore commesso da Husserl consiste nell'individuare l'intenzionalità, il
vedere puro, come unico canale attraverso cui possa avvenire il mostrarsi e il
darsi. Nel § 24 di Idee I Husserl
esprime chiaramente il postulato da cui la fenomenologia classica muove i primi
passi, stabilendo che l'indagine filosofica parta da ciò che si mostra
esclusivamente attraverso l'intuizione o visione: «ogni visione originalmente
offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà
originalmente nell'intuizione (per così dire, in carne ed ossa) è da assumere
come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà».5 Henry
individua nel presupposto husserliano dell'unica forma possibile di
manifestazione la causa della paralisi dell'iter fenomenologico,
impossibilitato a procedere verso l'auto-donarsi del vissuto.
Permeare l'essenza della coscienza o della soggettività trascendentale è
l'obiettivo primario di Husserl il quale, al fine di raggiungerlo, considera
l'intenzionalità o «la coscienza di» come la sola proprietà essenziale della
soggettività, estromettendo e cancellando il ruolo dell'affettività, principio
che in vero fonda originariamente ogni oggetto del pensiero. Il vissuto,
sorgente prima della coscienza trascendentale, non riempiendo l'orizzonte del
visibile e non assurgendo alla fenomenalità, è irraggiungibile dalla forma
intenzionale; dunque esso è soppiantato dall'impalcatura generale della
coscienza, ovvero dalla forma a priori che la caratterizza a livello universale:
l'intenzionalità. «Il soggetto non è più un soggetto, ma la soggettività, e la
soggettività è il "riferirsi a... "ossia è ciò che rende possibile ed in cui
consiste l'essenza del fenomeno, l'essenza della manifestazione, l'oggetto».6
Husserl da una parte assume a essenza della soggettività l'oggetto, il noema,
facendo coincidere l'analisi di quest'ultimo con l'analisi della soggettività
stessa, dall'altra l'oggetto non è più concepito come ente a se stante, ma solo
nella sua oggettività costruita dal soggetto. Si assiste dunque ad un rimando
essenziale soggetto-oggetto tale per cui essi non sono riconosciuti come
autonomi, ma si conferirebbero senso l'uno all'altro: l'essenza della
soggettività è l'oggettività e l'essenza dell'oggettività è la soggettività.
Per penetrare l'essenza del soggetto Husserl ricorre soltanto a ciò che si
mostra, ma, paradossalmente, si appella all'intenzionalità della coscienza che
non si mostra mai, non irrompe mai nella sfera del fenomenicità, non soddisfando
i requisiti dell'apparire. Il principio intenzionale, struttura portante della
soggettività, è antitetico all'assioma fondamentale della fenomenologia
husserliana, non presentandosi mai nel modo richiesto da quest'ultima e
sfuggendo all'apprensione visiva.
Henry si domanda «come può dunque essere accreditato "fenomenologicamente"
l'atto intenzionale che fa giungere i suoi correlati nella condizione noematica
del fenomeno puro o dell'apparire in carne ed ossa, ma non diventa mai a sua
volta il noema di
una noesi, l'oggetto di un atto intenzionale, non giunge mai nella condizione
della manifestazione?».7 Se
tutto ciò che è reale è tale in quanto si mostra, se il mostrarsi è indice di
realtà, vorrà dire che anche il principio manifestante, l'intenzionalità, per
essere ritenuto reale, dovrà esso stesso apparire.
È allora chiaro che la fenomenologia storica si auto corroda poiché lo sguardo
intenzionale, unico principio di ogni apparire posto da Husserl, non dandosi sul
piano fenomenico, è invalidato dal «principio dei principi» della fenomenologia
ortodossa, «quanta apparenza, tanto essere».8
«Il principio dei principi», affermando un rapporto direttamente proporzionale
tra la sfera ontologica e quella fenomenica, mette in dubbio anche la liceità
dell'attività costitutiva della coscienza, l'intenzionalità, madre di tutti gli
oggetti, la quale non si dà mai a vedere per se stessa, ma è sempre l'ombra di
un oggetto da essa costituito, di un nòema.
L'operato coscienziale non appare mai di per sé, ma traspare dall'oggetto visto
o cogitatum. Lo stesso Husserl
afferma ciò nel § 21 delle Meditazioni
Cartesiane: «L'oggetto intenzionale che sta dalla parte del cogitatum
esplica -- per ragioni facili da intendersi -- la funzione di guida
trascendentale per la rivelazione
della molteplicità tipica di cogitationes».9
Henry riscontra il paradosso della fenomenologia storica nell'intenzionalità la
quale, benché sia principio di ogni apparire, esula da qualunque statuto
fenomenologico in quanto non è mai intuibile. In aggiunta l'atto intenzionale,
così com'è concepito da Husserl, non può portare a compimento alcuna
manifestazione poiché, per mantenere la propria purezza, non è autorizzato a
contaminarsi con il vissuto. È proprio la caratteristica di purezza, l'essere
puro atto intenzionale, che condanna quest'ultimo all'inconsistenza della
vuotezza, non potendosi mischiare alla sensazione.
L'ossessione di una purezza formale sfocia in un'impossibilità fenomenologica,
nel nichilismo dell'attività stessa della coscienza intenzionale dal momento che
uno sguardo puro è privo di materia, di contenuto e dunque non ha niente da
mettere in scena e da dare.
Tematizzare uno sguardo puro vuol dire tematizzare uno sguardo alienato, quindi
inetto poiché, se esso non attecchisce al suolo esperienziale, decadendo dal suo
grado di massima purezza a sguardo spurio, non sarà mai in grado di vedere e di
far vedere nulla, come evidenzia Henry nelle seguenti righe:
La riduzione è il guardare puro dell'essenza
della cogitatio,
«riferirsi-a» questa essenza. E cosa vediamo in questo guardare puro in
quanto l'essenza della cogitatio,
in quanto la sua realtà? Vediamo questo «riferirsi-a» se stesso. Il cerchio
è dunque perfetto. Nella riduzione il pensiero si riferisce a se stesso
sullo sfondo di ciò che esso è: del «riferirsi-a». È questo cerchio --
l'illusione -- che, richiudendosi su se stesso, occulta ciò che gli manca e
che presuppone costantemente. Cos'è che manca quando, nel cerchio
riflessivo, il «riferirsi-a» si riferisce a se stesso? Niente meno che la
possibilità di questo «riferirsi-a »se stesso come tale.
Questa possibilità è fenomenologica. Il
«riferirsi-a» se stesso è fenomenologico. «Riferirsi-a»,
fenomenologicamente, significa guardare. Che il «riferirsi-a» non sia in
quanto tale la sua propria possibilità fenomenologica, in modo rigoroso,
vuol dire questo: il vedere non si vede. Questo vuol dire: il vedere non è
un fenomeno in sé e per sé. Un vedere che non fosse che vedere sarebbe
fenomenologicamente nullo, non vedrebbe niente. Non si ha vedere se non alla
condizione che, in modo inavvertito, il vedere sia più che se stesso.10
Ciononostante, qualora l'intenzionalità non fosse preda di paradossi intrinseci
alla fenomenologia husserliana che pone come principio dell'apparire ciò che non
appare, contraddicendo l'assioma «tanto apparire, tanto essere», essa non si
addirebbe alla rivelazione di una regione ontologica: la regione inerente alle
tonalità affettive. Tutte le operazioni della coscienza sono caratterizzate da
tonalità affettive definite, perfino le attività massimamente raziocinanti
prevedono un'aurea emotiva nella quale svolgersi, non essendo possibile una
condizione emotivamente asettica.
Se Henry identifica l'aspetto trascendentale della soggettività nel carattere
affettivo degli atti della coscienza, la fenomenologia husserliana non ha un
quadro teorico appropriato a cui riferire questa affettività trascendentale.
L'affettività è esclusa dalla teoria dell'intenzionalità, assunta come unica
forma donante, poiché essa non può ridursi a correlato di una percezione o a nòema di
un atto intenzionale.
La Stimmung, tonalità
affettiva, non può essere l'oggetto di un pensiero poiché, se così fosse,
prendendo come esempio il sentimento del dolore, «noi potremmo lasciarlo lì
davanti a noi, inoffensivo, constatato da noi come da uno spettatore straniero».11 Il
dolore, come tutte le realtà affettive, non rientra nella cornice concettuale di
una filosofia della distanza, non si piega alla noesi, dal momento che la sua
essenza non è pensabile, ma patibile. La fenomenologia storica, decisa a
tutelare strenuamente l'assoluta funzione manifestante dell'intenzionalità, non
ha riconosciuto all'ontologia patica la sovranità sul regno della soggettività,
ignorando che la sfera emozionale sia onnicomprensiva, riguardando anche le
operazioni della coscienza.
Se Husserl avesse riconosciuto che il pàthos vada
a inficiare la struttura degli atti della «coscienza di», avrebbe dovuto
ammettere l'insufficienza di una fenomenologia della sola intenzionalità,
integrando quest'ultima con una fenomenologia materiale, relativa ai contenuti o
ai vissuti dell'atto intenzionale. «In questa nuova fenomenologia, l'atto di
coscienza ha sempre un pàthos perché
ha già, per ragioni di essenza, un vissuto fatica, esultanza, apatia,
solitudine, abbandono al mondo e alla morte, anzi è quel "vissuto", un vissuto
che è l'essere stesso dell'atto cosciente».12
3. M. Henry e la fenomenologia dell'immanenza 
Henry, rispettando la liceità fenomenologica, elabora un nuovo modello
dell'essenza della manifestazione atto a superare le aporie sollevate da una
teoria fenomenologica fondata sulla trascendenza. Il filosofo francese propone
un paradigma dell'essenza della manifestazione il cui fulcro non risulti più
essere la trascendenza tout court,
ma l'immanenza dell'atto della trascendenza: Henry, neutralizzando il rapporto
intenzionale, pone come condizione ultima dell'apparire l'assenza della distanza
tra ciò che appare e ciò che permette l'apparire. Egli, dopo aver dimostrato la
necessità di un pensiero dell'auto apparire, teorizza una dottrina della
manifestazione basata sull'atto dell'auto manifestazione, appellandosi a
principi fenomenologici che avvalorino una manifestazione immanente, opposta a
quella della trascendenza. Henry, chiarendo che cosa intenda per manifestazione
inestatica, spiega che
Per una manifestazione, non essere l'opera
della trascendenza, significa, dunque, sorgere e realizzarsi
indipendentemente dal movimento con cui l'essenza si lancia e si proietta in
avanti sotto la forma di un orizzonte -- sorgere, realizzarsi e mantenersi
indipendentemente dal processo ontologico dell'obiettivazione, ovvero per la
precisione in assenza di ogni trascendenza.13
Da quanto detto è chiaro che la proposta fenomenologica di Henry concepisca
l'atto della trascendenza che dispiega l'orizzonte, conditio
sine qua non del darsi degli
enti, come immanenza e intrinsecamente privo di alcunché di trascendente poiché
esso instaura un rapporto inestatico a sé, e come tale, rifugge ogni rapporto
esteriore. Il concetto di immanenza è riconducibile alla categoria di
ricettività intesa come potere originario che rende auto ricettivo l'atto che
dispiega l'orizzonte, il quale si mantiene presso di sé auto ricevendosi. Dunque
l'atto della trascendenza, dal momento che si riceve da sé, è in grado di
pervenire al proprio contenuto senza discostarsi da sé, ovvero facendo a meno di
oggettivare il proprio contenuto tematizzandolo come termine trascendente.
La filosofia dell'immanenza, detenendo il proprio atto in sé, ottiene un duplice
risultato: la sua opera affiora alla fenomenalità senza implicare distanza,
opponendosi all'orizzonte e agli enti che su di esso si stagliano. Il
fenomenologo francese, differentemente dagli esponenti della filosofia della
trascendenza, da Kant a Husserl, permette all'elemento trascendentale di
guadagnare il rango di una visibilità inestatica, non dileguandosi dopo aver
assolto la propria funzione come avviene per la coscienza husserliana e l'essere
heideggeriano. Henry dichiara che
L'essenza della ricettività originaria che
garantisce la ricezione della trascendenza stessa è l'immanenza. La
determinazione dell'essenza originaria della ricettività, è, tuttavia, anche
quella del suo contenuto. Il modo originario della ricettività, in quanto
costituito dall'immanenza, è l'atto di raggiungere il suo contenuto senza
muoversi né superarsi verso questo contenuto, in modo tale che la realtà
ontologica costituita da questo contenuto puro non sia per lui in alcun modo
trascendente e non si trovi affatto posta a dinnanzi ad esso come un
orizzonte. Che il suo proprio contenuto non sia affatto trascendente il
potere che assicura la sua ricezione, che la realtà ontologica che essa
raggiunge senza superarsi verso di essa non sia come tale né esteriore né
estranea all'essenza della ricettività considerata nel modo originario della
sua realizzazione, tutto questo fa apparire un simile contenuto come un
«contenuto immanente».14
Immanente dunque è ciò che risulta essere incorporato nell'atto della
trascendenza, facendo parte della sua struttura interna come elemento
costitutivo e rivelandosi in esso. Henry sostiene che ogni atto della coscienza,
ovvero ogni atto trascendentale, sia un atto di auto ricezione, affettato da se
stesso in quanto auto affezione. Mediante l'auto ricezione la ricettività si
tramuta in passività ontologica dal momento che
Ricevere un contenuto significa essere affetti
da esso. In quanto il contenuto che l'essenza originaria della ricettività
riceve è costituito da essa, quest'essenza è anche affetta da essa quando
riceve il contenuto che le appartiene, quando riceve se stessa. Essere
affetti da sé, impressionare se stessi, significa costituirsi come
auto-affezione. L'auto-affezione è la struttura costitutiva dell'essenza
originaria della ricettività.15
4. L'immanenza come essenza della trascendenza 
Il principio fenomenologico su cui Henry erige il suo pensiero, considerabile al
contempo traguardo e punto di partenza con cui è sancito il distacco da quel
modello fenomenologico per cui la manifestazione è oggettivazione, rivelandosi e
trascendendosi tramite la rappresentazione, consiste nel concepire la
manifestazione come manifestazione dell'essenza a se stessa dal momento che, in
accordo con quanto detto fino ad ora, la realtà fenomenologica dell'atto che
dispiega l'orizzonte è un apparire che appare a se stesso. «La possibilità
ontologica della manifestazione dell'essenza sta nel retro-riferimento
dell'essenza a se stessa»;16 dunque
l'auto apparire della manifestazione si rivela essere la condizione prima di
ogni manifestazione in generale grazie all'auto affezione e alla ricettività che
caratterizzano quest'ultima.
La proposta fenomenologica di Henry, definibile fenomenologia dell'immanenza,
supera il modello della trascendenza grazie al principio dell'auto affezione che
è in grado di ricevere il proprio atto poiché essa non si rappresenta un oggetto
esterno all'atto della rappresentazione, ma riceve ciò che la costituisce
intrinsecamente, essendole in toto immanente.
È necessario ora delucidare l'immanenza a sé dell'atto della trascendenza,
illustrando i legami che quest'ultima instaura con l'immanenza dell'auto
affezione. Per fare ciò è bene partire dall'analisi della trascendenza che,
tanto nell'ontologia quanto nella filosofia della coscienza, è la condizione
ultima della possibilità della manifestazione. Henry vuole chiarire l'essenza
dell'atto della trascendenza, stabilendo quale tipo di realtà sia quella che si
trascende. A questo fine il fenomenologo francese esamina l'impalcatura interna
della trascendenza ontologica della coscienza, intesa come condizione di
rivelazione dell'ente nell'area del trascendente, determinando la natura ultima
della trascendenza stessa, ovvero di quella funzione della coscienza che si
determina come trascendentale e intenzionale. La conclusione a cui Henry
approda, coerente con l'iter fenomenologico intrapreso, stabilisce che l'atto
del superamento non possa coincidere con un atto che si separa da sé,
collocandosi nell'esteriorità, poiché si tratterebbe di un atto avente il modus
essendi di un ente che è separato
da un altro, non facendo accedere ad alcuna manifestazione in nome di tale
separazione.
In vero il superamento coincide con l'atto della trascendenza solo se traghetta
se stesso nell'atto di oltrepassarsi, ovvero solo se rimane nella propria
dimensione di immanenza, ricevendosi e rimanendo fedele all'auto ricezione in
quanto auto affezione per natura.
La coscienza dunque, proprio perché rimane presso di sé ricevendosi nella
manifestazione inestatica, si dimostra essere a tutti gli effetti principio
trascendentale. Essa è trascendenza, aborrendo qualunque separazione o distanza,
poiché fornisce a se stessa una forma di fenomenalità, sebbene altra: la
fenomenalità emotiva del termine dei propri atti, che rivela ciò che le sta
dinnanzi come suo nòema.
La rivoluzione che compie Henry nel panorama della fenomenologia consiste
nell'assumere come condizione ontologica, fondante ogni atto trascendente,
l'autorivelazione immanente della coscienza. L'immanenza è l'essenza della
trascendenza, dal momento che la trascendenza trapassa nel visibile non tramite
se stessa, poiché rivelerebbe solo l'orizzonte del Niente, ma grazie al sostrato
immanente dell'atto che dischiude l'orizzonte e si riceve in quanto atto che
apre, essendo affectus ab se. Per
il modello fenomenologico inaugurato da Henry
la realtà del contenuto ontologico puro
dell'essenza originaria della ricettività è la realtà fenomenologica della
trascendenza. Per questo l'immanenza, che costituisce la struttura interna
di questo modo originario di ricettività, si rivela essere l'essenza della
trascendenza, perché la rivela e la rende quindi possibile nel suo stesso
essere.17
Al contrario per la fenomenologia classica invece la manifestazione è radicata
nella dimensione mondana, esaurendo quest'ultima nel luogo dell'esteriorità. Il
discrimine tra la filosofia husserliana e la fenomenologia eretica di Henry
risiede nel venire meno in quest'ultima del concetto di intenzionalità inerente
al principio di manifestazione. Se dunque, secondo la prospettiva di Husserl, la
coscienza assume spessore ontologico grazie alla realtà mondana, per Henry essa
esiste di per sé, in quanto il filosofo francese ammette due forme di
fenomenalità: una trascendente e una immanente.
Henry mette in luce la relazione intrattenuta dalle due forme di fenomenalità,
stabilendo che si tratti di una relazione per la quale esse non siano sullo
stesso piano ontologico, ma una risulta essere subordinata e dipendente
dall'altra. La fenomenalità dell'immanenza fonda quella della trascendenza, «la
fenomenalità fondata appartiene, come quella fondante alla coscienza, ma, per
essere ciò che è, ossia atto di trascendenza, atto di dirigersi verso il mondo o
uno dei suoi enti come proprio termine intenzionale, essa dipende in maniera
trascendentale dalla prima come da una specie di onda portante».18
Dunque l'atto primigenio dell'essenza della manifestazione ha il carattere
dell'immanenza e da qui è affermabile la possibilità della coscienza di esistere
a prescindere dal mondo, dal presenziare nel mondo in quanto «possibilità
originaria della coscienza stessa e come tale è la sua essenza».19 Henry
sovverte il paradigma classico della fenomenologia fondato sulla trascendenza e
sull'intenzionalità della coscienza, mostrando come l'intenzionalità, per non
cadere nel non essere, necessiti di fare perno su una modalità di rivelazione
più originaria e di matrice pre-intenzionale, come quella dell'immanenza.
L'opera della trascendenza si rende manifesta a se stessa non tramite il
processo di distanziamento da sé, ma grazie all'identità del manifestato e
dell'atto manifestante che le permette di accedere alla rivelazione del proprio
essere. Henry, analizzando la struttura interna dell'essenza e determinandone la
natura ontologica, sviluppa un pensiero fenomenologico innovativo i cui punti
cardine sono l'immanenza dell'atto della rivelazione e la possibilità di
giungere all'essenza della manifestazione nell'immediato, ovvero a prescindere
del processo di oggettivazione. «La determinazione ontologica del concetto di
immediato scarta la pretesa di fare dell'oggettivazione la condizione di ogni
presenza e, di conseguenza, di comprendere l'oggettivazione come l'universale
mediazione con cui tutto ciò che è trova il suo essere».20 L'immanenza,
struttura ontologica ultima, permette alla coscienza di esistere in un luogo
invisibile, a prescindere dell'estrinsecarsi da sé per mostrarsi
nell'esteriorità dell'oggetto tematizzato.
5. M. Henry e la filosofia fenomenologica dell'affettività 
Henry, avendo abbandonato la trascendenza come struttura ultima della coscienza,
elabora una nuova concezione dell'io fondato sull'immanenza, determinazione
ontologica essenziale della manifestazione e terreno in cui si radica l'auto
ricezione. La soggettività si rivela nell'auto-affezione dal momento che
l'affettività è «l'esperienza più semplice, quella che si intuisce prima dell'ek-stase,
l'esperienza immediata di sé, il sentimento originario che la coscienza ha di se
stessa».21
Con il termine affettività Henry non indica la sensibilità, ossia il potere di
sentire qualcosa mediante i cinque sensi, ma si riferisce a una forma originaria
di affezione che consiste nell'auto affezione, nell'essere affetti da se stessi.
Tra il concetto di sensibilità e sentimento intercorre una diversità essenziale
che risiede nel ruolo della trascendenza. Se la sensibilità, in quanto potere di
ricezione, necessita della formazione estatica dell'orizzonte da parte della
trascendenza: il sentimento non ha bisogno di mediazioni trascendenti poiché è
potere di provare qualcosa e di essere affetto a prescindere dalla distanza
fenomenologica.
Il sentimento non può essere colto dalla sensibilità, non essendo percepibile e
sperimentabile alla stregua di un ente, dal momento che ciò che rientra nella
dimensione del sentimento non si dà, per sua natura, all'esperienza sensibile.
Il sentimento, potendo sentire solo se e essendo esso stesso ciò che prova e ciò
che è provato, ciò che colpisce e ciò che è colpito, è denominato da Henry
ipseità. Il termine ipseità definisce «ciò che si sente se stesso, in modo tale
da non essere qualcosa che viene sentito, ma il fatto stesso di sentirsi così se
stesso, che il suo "qualche cosa"è costituito da questo "sentirsi se stesso",
l'essere "affectus"da sè, l'essere del Sé e la sua possibilità».22 Il
sentimento, concretizzandosi a livello fenomenologico nell'affettività, fonda
l'identità del sé dal momento che ne costituisce l'ipseità e la rivela.
6. L'essenza del sentimento 
Henry, sottoponendo al vaglio fenomenologico l'immanenza, o passività
ontologica, assume quest'ultima come condizione prima della manifestazione.
Attenendosi ad un discorso fenomenologico, la condizione originaria dell'essere
risiede in uno stato di passività che si traduce nell'essere consegnato
inevitabilmente a sé, costretto ad assumere la propria ipseità e a subire il
proprio essere, più forte di ogni libertà. L'impossibilità di sfuggire da sè del
sentimento non è rivelato da un atto della trascendenza, ma si identifica con lo
stesso potere di sentirsi come il sé che ha un contenuto trasparente, che appare
a se stesso, superato da questo stesso contenuto, benché gli sia identico.
Stando a quanto detto, Henry sconvolge il significato di alcuni concetti
fenomenologici, quali l'identità, la trasparenza e il superamento, attribuendovi
una nuova semantica. L'identità di cui parla il filosofo francese consiste
nell'identità fenomenologica del sentimento con se stesso e col suo contenuto la
cui trasparenza, lungi dall'essere quella del «vetro che lascia vedere, al di là
di sé, un'altra cosa, ogni cosa, e che di se stesso ed in se stesso non lascia
vedere nulla, il nèant»,23 consiste
nel tuffarsi in sé, superandosi soltanto verso il suo contenuto.
Il superamento non riguarda il superamento della trascendenza verso l'oggetto,
ma il sentimento supera se stesso attraverso la «propria profusione per la quale
il sé è il superamento di sé come identico a se stesso».24L'affettività
riconosce la sua essenza nel soffrire se stessa, rivelando la sua identità nel
soffrire, verso cui essa è radicale impotenza. L'impotenza del sentimento si
realizza nell'impotenza verso se stesso, essendo consegnato a sé a tal punto da
non poter «contestare, né rifiutare, né assumere, né accettare ciò che egli è
nella sua identità con se stesso».25
Il sentimento si fonda sull'assenza di potere rispetto «a ciò che più gli
importa ed è essenziale: il suo proprio essere»,26 essendo
sottomesso a sé ed alla sua autoaffezione. L'affettività si rivela
nell'impossibilità di porsi a distanza da sé, non potendo guadagnare una
prospettiva oggettiva di sé attraverso cui possa scappare da se stessa. Dunque,
benchè il «sentimento sia il dono che non può essere rifiutato, l'arrivo di ciò
che non può essere tenuto lontano»,27 in
questa impotenza del soffrire emerge la potenza del sentimento che è «il
sentimento stesso, il sentire come tale nella sua essenza, come sentir-si se
stesso, nel modo del suo compiersi».28
7. L'invisibilità della vita e l'essenza dell'affettività 
L'interpretazione ontologica dell'affettività conduce ad interpretare la vita
come affettività o sentimento. Henry scrive che «vivere, come già i greci
avevano riconosciuto, e come, più vicino a noi avrebbero detto poi Nietzsche e
Heidegger, significa essere29»;
tuttavia per essere il filosofo francese non intende «quel sentimento che -- in
sede precritica -- è uno dei modi di realizzazione della vita, ma intende la
struttura stessa della vita, la struttura interna di tutto ciò che è».30
La ricerca fenomenologica condotta da Henry, mossa dall'obiettivo di determinare
il fondamento della realtà fenomenica, giunge a concepire l'essere, principio
della manifestazione, come invisibile, come «ciò che non si lascia mai vedere in
un mondo né alla maniera di un mondo».31
In Vedere l'invisibile. Saggio su
Kandinskij, opera in cui Henry pone la pittura astratta a origine di ogni
pittura, l'essere coincide con la vita la quale si è rivelata esclusione di ogni
trascendenza, non essendole strutturalmente possibile offrirsi a oggetto di una
conoscenza come correlato di un atto intenzionale. La vita, essendo invisibile,
«nell'assenza di questo mondo e della sua luce, prima di sorgere in questo
orizzonte di esteriorità che mette ogni cosa a distanza da noi e ce lo pro-pone
a titolo di ob-jectum»,32 sfugge
alla conoscenza, ovvero all'intenzionalità, la quale si fonda sulla visione.
L'invisibilità della vita è data dalla sua essenza immanente e dall'auto
affezione originaria di quest'ultima, in quanto
La vita sente e prova se stessa immediatamente
in modo da coincidere con sé in ogni punto del suo essere e, interamente
immersa in sé ed esaurendosi in questo sentimento di sé, in modo da
compiersi come pathos. La «maniera» in cui l'interno si rivela a se stesso,
in cui la vita vive sé stessa, in cui l'impressione immediatamente si
auto-impressiona e il sentimento affetta se stesso- prima di ogni controllo
e indipendentemente da esso- è l'Affettività.33
L'enigmaticità dell'essere non risiede nel suo sfuggirci o nel ritirarsi lontano
da noi, ma nel toccarci. L'invisibile sta nel comprendere l'essere come
affezione, «affezione originale, sua effettività prima, e essenza di ogni
effettività, la fenomenalità stessa assoluta, irrecusabile, quale essa si rivela
originariamente a se stessa. È l'affettività».34
Henry, al fine di rendere espliciti i concetti chiave della fenomenologia che
inaugura, stabilisce la differenza semantica che intercorre tra il termine di
affettività e di affezione. L'affezione, la cui condizione di possibilità sta
nell'affettività, o nell'auto affezione, consiste nella modificazione che si
verifica sull'io in seguito all'impatto con un ente esterno. Il presupposto per
poter esser colpito da un ente esterno, accogliendo un determinato contenuto
sensibile, è che esista però un potere di sentire primordiale, che abbia la
forma del sé, essendo un essere che si sente in antecedenza e che è
essenzialmente affettivo.
Una volta sancita la differenza semantica tra affettività e affezione e chiariti
i rapporti, il filosofo francese si chiede se le affezioni fondino le tonalità
affettive le quali differenziano il potere di sentire le cose da una concezione
asetticamente teorica di quest'ultime date allo sguardo. La risposta è negativa
poiché, sebbene il potere di sentire un ente supponga l'apertura e la ricezione
dell'orizzonte in cui è posto l'ente e quindi la possibilità di un'affezione del
soggetto da parte di quest'ultimo, l'orizzonte è solo l'ambito dell'apparire di
un oggetto, non riguardandone l'essere provato. Le affezioni sensibili non
stanno alla base delle tonalità del sentire, le quali invece affondano le loro
radici nell'affettività originaria, principio ontologico e natura affettiva
dell'atto di sentire l'ente che spiega il carattere affettivo della sensibilità.
Il sentire rappresenta la trascendenza o intenzionalità in quanto affettiva
poiché «c'è un apparire che "non è" ma avviene e che consiste "in un lavoro
segreto", clandestino, che "si rivela" semplicemente nel sentirsi, provarsi, di
là da ogni "violenta" visibilizzazione».35 L'atto
della trascendenza non può essere dicotomizzato come ciò che in
primis si oppone al mondo e poi
si fa toccare da esso: il mondo è dato al soggetto come ciò che lo afficit,
che tocca l'io nel momento stesso in cui è dischiuso l'orizzonte poiché anche la
fredda osservazione è contestualizzata entro una tonalità affettiva, per
l'appunto la freddezza. L'affettività è l'essenza del rapporto al mondo,
rapporto che è sempre affectus da
una Stimmung, da una tonalità
affettiva.
Non si tratta di «conoscere» il fondamento, ma
di «patirlo», perché l'antinomicità del fondamento è un dato vissuto più che
saputo e il pensiero che riesce a «individuarlo», a «concepirlo» non è un
pensiero «dialettico», ma, proprio perché è un'esperienza affettiva, è un
pensiero, a tutti gli effetti, che prova.36
La comprensione affettiva dell'essere è la modalità di rapporto che si instaura
tra il soggetto e il mondo: l'impassibilità dello sguardo o della contemplazione
sono anch'esse calate in una stimmung,
in una tonalità affettiva. L'affettività e il comprendere si compenetrano
reciprocamente dal momento che ogni atto di comprensione è affettivo e ogni stimmung è
comprendente, dispiegando l'orizzonte e colorando lo sfondo su cui si staglia
l'oggetto a cui essa si riferisce secondo la tinta di una determinata tonalità
affettiva.
8. L'affettività a fondamento dell'intenzionalità 
Fino alla svolta fenomenologica compiuta da Henry, i sentimenti sono stati
sottoposti alla struttura intenzionale, per cui essi si riferiscono sempre ad un
termine esterno; di conseguenza l'intenzionalità dei sentimenti, posta sotto la
giurisdizione dell'husserliana coscienza intenzionale, è stata sottomessa al
paradigma fenomenologico-ontologico della trascendenza.
L'estensione del paradigma della manifestazione, come trascendenza e
intenzionalità, alla sfera affettiva ha negato la possibilità di una filosofia
del sentimento in cui il potere di rivelare le strutture ultime del sentimento
fosse detenuto dall'affettività. Henry ha confutato il modello della
trascendenza intenzionale, mostrandone l'incompatibilità ontologica con
l'affettività che è immanenza, aderenza totale a se stessa e assenza di ogni
distanza fenomenologica.
L'affettività come auto affezione, in ragione della sua immanenza, è condizione
di possibilità dell'intenzionalità e della sua trascendenza: nell'atto della
trascendenza la coscienza immanente non si separa da sé, dissolvendosi
nell'oggetto da cui nulla più la distinguerebbe e rendendone impossibile la
manifestazione. «La coscienza immanente trattiene e riceve, rivelandolo, l'atto
intenzionale stesso che essa compie, mantenendo l'opposizione reale tra sé ed i
suoi termini noematici e rendendo così effettiva la loro manifestazione».37 Henry
si oppone alla tradizione fenomenologica che concepisce l'affettività come
intenzionale, ritenendo che essa non abbia la struttura della trascendenza o
dell'intenzionalità e che proprio grazie alla sua struttura non intenzionale
possa fondare l'intenzionalità.
Henry afferma che, essendo il comprendere strutturalmente affettivo per se
stesso, sia affettivo il mondo stesso nella sua interezza e nel suo orizzonte: è
il mondo in quanto tale ad essere affettivo, affettivo è l'ente in quanto ente
che si manifesta grazie ad un atto la cui essenza è l'affettività. È a motivo
dell'affettività, struttura dell'atto che dispiega il mondo, che è affettivo il
mondo e il sorgere in esso dell'ente.
Tramite le affezioni l'esistenza è modificata dall'ente esterno alla sua
soggettività, ma più precisamente non è l'ente che colpisce direttamente l'io,
piuttosto l'oggetto, ovvero la condizione in cui il soggetto fa apparire l'ente
davanti a sé. Henry stabilisce che l'atto mediante cui l'io costituisce
l'oggetto è sentimento poiché l'affettività non è determinata da ciò che appare
fuori di noi, ma è l'affettività che dà forma all'oggetto secondo la modalità
affettiva del proprio orizzonte. L'oggetto costituito assume una determinata
forma in base a come viene sentito dal soggetto, essendo riportato al quadro
delle sue tonalità affettive dominanti. Tutte le tonalità dipendono
dall'affettività-immanenza, primum ontologico,
che non dipende da nulla. Tuttavia il sentimento, benché vanti un'indipendenza
fenomenologica assoluta, è totalmente dipendente da sé, essendo segnato, come è
stato precedentemente spiegato, dall'impotenza di recidere il proprio legame con
se stesso.
In base a quanto detto è ontologicamente infondato il tentativo di individuare
una causa esterna alla vita affettiva, in quanto essa è radicata nella
dimensione della passività,
Una dimensione che però deve essere pe(n)sata,
per poter essere compresa nel suo statuto proprio, al contempo e in maniera
radicale come indissolubilità-singolarità di sé a sé, liberata quindi da
ogni «intenzione» «apposta-imposta», o posteriormente espressa, a e
sull'affettività di fondo che «sostiene» ogni vita individuale, e disciolta,
anche, da una «volontà» o «io» posti aldilà di o ponenti e op-ponentisi a
ciò che li affetta.38
Il sentimento, alienato da cause esterne, deve la sua autonomia all'immanenza
all'affettività originaria della vita. Esso coincide con il proprio sorgere ed è
lo zampillare, a partire da sé, di ciò che ha la proprietà di colpire e di
determinare l'oggetto che lo colpisce.
9. La rivelazione delle tonalità affettive e la sterilità della riflessione del lògos del
pensiero 
Il sentimento non è un fenomeno, ma la fenomenalità stessa, la condizione di
tutti i fenomeni in quanto esso è l'essenza originaria della manifestazione che
compie l'opera della rivelazione attraverso se stessa. L'affettività è auto
rivelazione, in essa la rivelazione ed il rivelato sono la «fiamma della
presenza pura e dell'esistenza pura, la fiamma che non illumina nient'altro che
se stessa e che non consuma niente, non lascia qualcosa di oscuro a partire dal
quale essa potrebbe prodursi».39 L'affettività
coincide con la rivelazione del suo essere ed è per questo che essa è l'essere,
quindi il modo di rivelare del sentimento non combacia con quello della
trascendenza o dell'intenzionalità, ma con quello dell'immanenza
dell'affettività.
Henry accusa la fenomenologia classica di aver occultato la manifestazione
originaria, ponendo, pregiudizialmente, il vero conoscitivo a fondamento di
tutte le possibili tonalità emotive. In quest'ottica la conoscenza
dell'affettività viene opposta all'affettività stessa: il potere che rivela il
sentimento non è il sentimento, poiché la sua verità è posta fuori da esso. Il
suo luogo di rivelazione è oggettivo dal momento che il sentimento è conoscibile
nella sua verità solo se è collocato nello spazio trascendente in cui è
costituita la sua oggettività.
Alla conoscenza oggettiva dell'affettività, per cui ciò che determina la verità
del dolore è il suo rapporto con la mondanità esteriore, Henry muove
un'obiezione: se il rapporto con l'esteriorità è valido per l'essere vero di
ogni ente e non solo per le tonalità affettive, che cosa diversifica queste
ultime da un ente qualunque, benché esse non si presentino mai alla stregua di
un ente, stringendo rapporti estrinseci con il mondo?
È inevitabile non riconoscere che l'essenza del sentimento non risieda nelle sue
relazioni con il mondo, dal momento che quest'ultimo non si manifesta nella
mondanità. L'essenza del sentimento è vivente, avendo residenza nella struttura
interna della vita, non al di fuori poiché «vedo, sento, provo sensazioni, muovo
le mani e gli occhi, ho fame, ho freddo, in modo tale da essere questo vedere,
questo ascoltare, questo provare sensazioni, questo movimento, questa fame, in
modo tale da inabissarmi nella loro pura soggettività, al punto da non potermi
più distinguere da essi».40
L'essenza delle tonalità affettive sta nel loro sentirsi, nel loro provarsi
tramite la passività originale del soffrire: il fondamento del sentimento è la
sua rivelazione di sé come sentimento, ovvero il suo essere dato a se stesso
mediante l'atto di riceversi, mediante la sua passività. L'affettività si rivela
nel regno dell'invisibile, mostrando la sua diversità ontologica rispetto a ciò
che si dà nel campo della visibilità. Un sentimento sfugge all'occhio ma,
Quando niente è visto e quando il potere che
ci fa vedere le cose viene meno, nella notte senza interruzioni che la luce,
ritirandosi, lascia dietro di sé nell'Invisibile, il sentimento è lì tutto
intero, che cresce invisibile in se stesso e si nutre della propria
oscurità. L'oscurità dell'invisibile che apre la dimensione ontologica in
cui il sentimento trova la sua esistenza originale.41
L'affettività dispiega il suo essere nell'invisibile, luogo che si trova
totalmente fuori dal mondo, dunque essa non potrà mai essere scoperta. Da qui,
per non cadere in un errore fenomenologico, non è possibile affermare che la
modificazione di un sentimento avvenga per opera dello sguardo dell'attenzione.
È necessario chiarire la natura ontologica del sentimento per non attribuire
alla riflessione il potere di causare la scomparsa o l'alterazione di quest'ultimo
dal momento che un sentimento non sparisce nel mondo «per la semplice ragione
che non si è mai trovato».42
Henry ritiene che la riflessione, il lògos,
benché cerchi inutilmente di includere nel proprio campo d'azione l'essere del
sentimento che non ricade in esso, non ha potere su ciò che non occupa mai la
posizione di oggetto. L'analisi teoretica più profonda non può penetrare la
dimora invisibile del sentimento; dunque l'ipotesi che l'affettività possa
essere scovata dalla sua zona d'ombra per trasferirla alla luce del visibile,
mediante gli spostamenti correlativi dell'attenzione, non è fenomenologicamente
plausibile.
Il sentimento è la sostanza affettiva di ogni atto di coscienza e l'oscurità in
cui è immerso «non è un modo di illuminazione che può essere cambiato in altro e
che, attraverso una variazione continua della intensità della luce, può essere
portato alla chiarezza tipica dell'evidenza; non è un modo di illuminazione
contingente rispetto a ciò che esso illumina, rispetto al sentimento, esterno al
sentimento, trascendente rispetto ad esso».43
L'oscurità che caratterizza e determina fenomenologicamente il sentimento non ha
niente a che vedere con l'orizzonte mondano dal momento che essa è estranea alla
fenomenalità del mondo ed è identica all'invisibile in cui giace il principio
dell'immanenza. Henry, partendo dal presupposto che il pensiero non possa
illuminare il sentimento, inaugura una filosofia che colloca quest'ultimo fuori
dall'area della visibilità, opponendosi alla tradizione fenomenologica classica,
per cui l'azione dello sguardo provoca una modificazione del sentimento.
Se, da un punto di vista fenomenologico, gli oggetti possono esistere solo
nell'esteriorità mondana, ossia di fronte al pensiero, il sentimento ha il suo
proprio essere, nell'immanenza, nell'epochè dal
mondo. Il linguaggio del pensiero è muto riguardo al sentimento, non essendo
adeguato a quest'ultimo poiché non riesce a descriverlo per principio. Tuttavia
l'invisibilità della sfera affettiva è irriducibile solo ad una determinata
forma di linguaggio, quella del lògos del
pensiero. Il sentimento, non essendo riducibile al pensiero, «non si lascia
nominare e non può essere detto dal lègein che
lascia la presenza distendersi davanti a sè»44 dal
momento che il suo linguaggio è il lògos dell'essere
affettivo, definito dall'affettività, ovvero
L'essenza originale del Lògos cosicchè
questo rifiuta il linguaggio del mondo, il linguaggio del pensiero, e non
può mostrarsi in esso. Ma il linguaggio è l'essere. Che l'essere risieda
originalmente nell'affettività è ciò che impedisce di comprenderlo -- come è
accaduto da Parmenide sino ai giorni nostri -- a partire dal pensiero e come
identico al pensiero.45
A tal proposito Henry ritiene che sia un errore cercare di cogliere il contenuto
invisibile del sentimento per trasformarlo, tramite un atto intenzionale del
pensiero, in noema della
coscienza poiché il sentimento si esprime in un linguaggio altro, non attendendo
«neppure che il pensiero si rivolga verso di lui, non attende dal pensiero
nessuna risposta, è indifferente all'attenzione del pensiero, in modo tale che
quello che dice non può essere né sottolineato, né ratificato, né corretto, né
illuminato, né definito, né contraddetto da esso, rifiuta ogni presa di
posizione del pensiero».46
Per il pensiero il sentimento è un'incognita e ogni tentativo di interpretarlo è
inadeguato per principio dal momento che la struttura ontologica del sentimento
vive nell'invisibile.
Copyright © 2016 Frabasile
Carolina Frabasile. «Michel Henry. La fenomenologia del sentire». Dialegesthai.
Rivista telematica di filosofia [in
linea], anno 18 (2016) [inserito il 30 luglio 2016], disponibile su World Wide
Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [65 KB], ISSN 1128-5478.
Note
-
M. Henry, L'essenza
della manifestazione, Filema, Napoli 2009. 
-
G. Molteni, Introduzione
a Michel Henry. La svolta della fenomenologia, Mimesis, Milano 2005,
p. 117. 
-
Ibid., p. 164. 
-
Ibid., p. 168. 
-
E. Husserl, Idee
per una fenomenologia pura, I, tr. it. di G. Alliney, Einaudi,
Torino 1965, § 24 , pp. 50-51. 
-
G. Molteni, Introduzione
a Michel Henry. La svolta della fenomenologia, Mimesis, Milano 2005,
p. 135.
-
Ibid., p. 126. 
-
E. Husserl, Meditazioni
Cartesiane e I discorsi parigini, tr.
it. di F. Costa, Bompiani, Milano 1960, § 46, p. 153. 
-
Ibid. , § 21, p. 97. 
-
M. Henry, Fenomenologia
materiale, tr. it. di E. De Liguore e M. L. Iacarelli, a cura di P.
D'Oriano, Guerrini e Associati, Milano 2001, pp. 148-149. 
-
M. Henry, L'essence
de la manifestation, PUF, Paris 1990, p. 780. 
-
G. Molteni, Introduzione
a Michel Henry. La svolta della fenomenologia, Mimesis, Milano 2005,
p. 133. 
-
Ibid., pp. 264-265. 
-
Ibid., p. 266.
-
Ibid., p. 272. 
-
Ibid., p. 273. 
-
Ibid., p. 291. 
-
G. Molteni, Introduzione
a Michel Henry. La svolta della fenomenologia, Mimesis, Milano 2005,
p. 192. 
-
M. Henry, L'essenza
della manifestazione, Filema, Napoli 2009, p. 294. 
-
Ibid., p. 320. 
-
M. Henry, L'essence
de la manifestation, PUF, Paris 1990, p. 577. 
-
Ibid., p. 581. 
-
Ibid., p. 590.
-
Ibid., p. 191. 
-
Ibid., p. 593. 
-
Idem. 
-
Idem. 
-
Ibid., p. 594. 
-
Ibid., p. 596. 
-
Idem. 
-
M. Henry, Vedere
l'invisibile. Saggio su
Kandinskij, tr. it. di Roberto Cossu, a cura di P. D'oriano,
Guerrini e Associati, Milano, 2000, p. 15. 
-
Ibid., p. 16. 
-
Ibid., p. 15. 
-
Ibid., p. 598. 
-
F. C. Papparo, Allucinare
il mondo. Note sulla filosofia di Michel Henry, in Corpus filosofie
e saperi, Paparo Edizioni, Napoli, 2013, p. 59. 
-
Idem. 
-
G. Molteni, Introduzione
a Michel Henry. La svolta della fenomenologia, Mimesis, Milano 2005,
p. 218. 
-
F. C. Papparo, Allucinare
il mondo. Note sulla filosofia di Michel Henry, in Corpus filosofie
e saperi, Paparo Edizioni, Napoli, 2013, p. 62. 
-
M. Henry, L'essence
de la manifestation, PUF, Paris 1990, p. 667. 
-
M. Henry, Vedere
l'invisibile. Saggio su Kandinskij, tr. it. di Roberto Cossu, a cura
di P. D'oriano, Guerrini e Associati, Milano, 2000, p.13-14. 
-
M. Henry, L'essence
de la manifestation, PUF, Paris 1990, p. 680. 
-
Ibid., p. 681. 
-
Ibid., p. 683. 
-
Ibid., p. 689. 
-
Idem. 
-
Idem. 
Da: mondodomani.org/dialegesthai/cfr01.htm
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