Donata Romizzi, Bushido. Filosofia ed etica dei samurai

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Donata Romizzi, Bushido. Filosofia ed etica dei samurai


 

1. Introduzione

 

Bushidō: letteralmente, la “via del guerriero a cavallo”. Il termine è composto da diversi ideogrammi[1]: bu sta per il concetto di “guerriero”, ed è composto a sua volta da un ideogramma che sta per “dominare” o “fermare” e da un altro che sta per “alabarda”. Shi corrisponde forse all’anèr greco, poiché indica l’uomo considerato in tutto il suo valore virile e spirituale, ed è composto dal segno del dieci e da quello dell’uno, a simboleggiare la concezione buddista secondo cui l’uomo compendia in sé il cosmo.  corrisponde al cinese tao, ed indica la via, il percorso, in senso allegorico: il metodo (etimologicamente inteso) da seguire per una piena realizzazione spirituale. L’ideogramma che i cinesi leggono tao e i giapponesi  sembra fosse composto dalla rappresentazione grafica di tre idee[2]: una strada, la testa di un maestro, i piedi di un altro uomo – ad indicare un discepolo che segue il maestro sulla via.

Il bushidō contiene dunque la visione del mondo, l’etica, la disciplina di vita dei bushi (guerrieri), o samurai (dal verbo saburaru/samuraru: “servire”). Il processo di formazione del bushidō in Giappone raggiunge l’apice della maturità nel XVII secolo, ma il termine bushido è probabilmente più recente: è nel XVIII-XIX secolo che esso va a sostituire l’espressione kyûba no michi, la “via dell’arco e del cavallo”. Il codice filosofico-etico dei samurai non fu mai messo per iscritto, ma è depositato all’interno di una secolare tradizione orale giapponese, e delle gesta la cui memoria essa custodisce: per questo non è possibile indicare una precisa epoca o un preciso luogo di nascita del bushidō. Una prima elaborazione, il “bushidō guerriero”[3], prese corpo nel Medioevo giapponese, parallelamente al rafforzarsi del sistema feudale, nei secoli dal XIII al XVII; esso è caratterizzato dall’influenza del buddhismo zen (importato in Giappone dalla Cina già a partire dal VI secolo). Una seconda fase, del “bushidō confuciano”, vede un forte influsso del confucianesimo, corrispondentemente al periodo di pace che va dall’era Tokugawa (1603) alla Restaurazione Meji, segnata dalle dimissioni dell’ultimo shogun (1868) e dalla fine della società feudale. L’ultima declinazione del bushidō è quella detta del “bushidō nazionale”, quella sorta di patriottismo mistico o shintoismo di Stato che dalla Restaurazione Meji giunge fino alle gesta dei rinomati kamikaze nella Seconda Guerra Mondiale. Se è vero che lo spirito del bushidō ha continuato a influenzare la società giapponese fino all’età contemporanea[4], ed è stato anzi sfruttato per alimentare il ben noto nazionalismo giapponese emerso nell’ultimo conflitto mondiale, si può dubitare dell’autenticità del “bushidō nazionale”:

 

Secondo noi, l’editto che nel 1870 soppresse formalmente il Feudalesimo, rappresentò il primo segnale di rintocchi a morte del Bushidō, e l’editto pubblicato cinque anni dopo, che vietava l’uso della spada, […] risuonava ormai nella nuova epoca dei ‘sofisti, degli economisti e dei calcolatori’.[5] 

 

Non è probabilmente un caso, tuttavia, che Hagakure – il più importante testo scritto che raccolga, anche se non in forma esaustivamente codificata, lo spirito del bushidō – fu stampato per la prima volta con questo titolo e portato a conoscenza del grande pubblico proprio tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento. Bruciato dagli Americani alla fine del secondo conflitto mondiale, nella convinzione che fosse la causa del fanatismo nazionalista giapponese, fu riscoperto e commentato in seguito da Yukio Mishima[6], che tentò con il suo drammatico suicidio di richiamarne lo spirito ai Giapponesi. Questi pochi elementi sono sufficienti a capire come si possa concludere che

 

…conoscere il Bushidō […] significa conoscere gran parte della storia della cultura del Giappone tradizionale e, in parte, significativi aspetti della sua anima contemporanea assieme alle dimensioni del conflitto in atto fra modernità e tradizione.[7] 

 

2. Hagakure e la vita al cospetto della morte

 

«Ho scoperto che la Via del Samurai è la morte». Questa è una delle prime riflessioni, forse la prima per importanza, contenute in Hagakure, testo risalente al XVIII secolo. Esso contiene riflessioni e aneddoti di Yamamoto Tsunetomo, o Jōchō, ex-samurai fattosi monaco buddista nel 1700, alla morte del proprio signore[8]. Alla morte di Jōchō, il suo discepolo Tsunetomo, contrariamente alla volontà del maestro, trascrive gli insegnamenti raccolti in sette anni di vicinanza[9], e lo scritto comincia a circolare fra i samurai come un codice segreto. La parola Hagakure, letteralmente, significa “nascosto tra le foglie”. Non si sa con certezza, tuttavia, a cosa questa espressione intendesse alludere: se a una poesia di un monaco del XIII secolo, se alla modestia del samurai, che serve il proprio signore senza mettersi in mostra, se alla capanna di Jōchō o al castello del suo daimyo, nascosti tra le fronde[10].

«La Via del samurai – dunque – è la morte»: la piena realizzazione del sé passa per il suo annientamento, reale o figurato, e questo per due ordini di ragioni. La prima è che il fondamentale dovere di un samurai è quello di “servire”[11], nel senso pieno del termine: la sua vita “serve”, non ha valore per sé, ma in funzione di altro, del servizio. «Quasi fossi un fantasma, pur vivendo col corpo, pensa in ogni momento al sovrano»[12]. La massima dignità e l’onore del samurai sono legati al rapporto di fedeltà con il proprio daimyo[13]. «Morire per il sovrano è il valore supremo, più importante di qualsiasi vittoria sul nemico»[14]. Servizio e fedeltà significano abbandono del proprio io: questa è una dottrina che appare facilmente ‘scandalosa’ ad una prospettiva occidentale, poiché nella storia dell’Occidente il progresso si è fortemente legato all’affermazione dei diritti e delle libertà individuali. L’individualismo è un carattere a tutt’oggi molto forte nella cultura occidentale, ma ha probabilmente un prezzo da pagare, che è il terrore della morte. Di converso, e questo fa parte del secondo ordine di ragioni di cui si diceva, i samurai vengono educati, con l’ausilio del buddhismo zen[15], a non temere affatto la morte, a non allontanarla dai loro pensieri come un tabù, ma anzi a tenerla sempre presente: «La Via del Samurai significa essere posseduto dal pensiero della morte»[16].

 

Nella Via del Samurai […] basta essere pronti a morire. […] Un uomo coraggioso non pensa alla vittoria o alla sconfitta, ma va incontro alla morte furiosamente come un pazzo. In questo modo si risveglia dal sonno dell’illusione.[17]

 

‘In un mondo irreale, la morte è l’unica verità’. Vivere la vita quotidiana come se si fosse già morti, è seguire la Via della Verità.[18]

 

…è una mente attaccata alla vita e alla morte che deve essere definitivamente abbandonata. In tal caso potrete compiere azioni meravigliose poiché avrete raggiunto uno stato superindividuale della coscienza.[19]

 

Nella prospettiva del buddhismo zen, ogni determinazione, quindi ogni distinzione e ogni individualità, è solo apparenza. Vivere in questo mondo illusorio significa attaccarsi con la mente o con la volontà a cose determinate, compresi se stessi: a qualcosa di irreale in quanto impermanente. ‘Lasciando la presa’ su ciò che inevitabilmente diviene, compare e scompare, è e non è, si può pervenire alla visione di un’unità assoluta, in cui si risolve anche l’antitesi vita/morte (questo tipo di intuizione, nella dottrina zen, corrisponde al satori). Percorrendo rettamente la Via, si abbandona necessariamente l’io, anche perché si entra armonicamente nel processo immanente del farsi di un Principio assoluto, ovviamente sovraindividuale[20]. Conformandosi al proprio dovere, cioè alla propria natura[21], l’io si dissolve in un farsi delle cose, e lascia che questo farsi, naturalmente, sia[22]. Per questo,

 

«L’idea essenziale per il bushi è quella della morte. Questa idea deve essere presente dinanzi alla sua mente giorno e notte, notte e giorno, dall’alba del primo giorno dell’anno fino all’ultimo minuto dell’ultimo giorno. […] Il samurai deve considerare ogni giorno della sua vita come l’ultimo».[23]

 

3. Impermanenza ed unità, vuoto e silenzio, respirazione

 

Tra i fiori il ciliegio

Tra gli uomini il guerriero[24]

 

Il fiore del ciliegio (sakura) è il fra i giapponesi il simbolo del bushidō, e spesso anche dell’intero Giappone[25]. Il samurai deve avere tutte le caratteristiche del fiore di ciliegio: la semplicità, la purezza, la delicatezza[26], e, in particolare, la disposizione a cadere con naturalezza quando è il momento (tipicamente, all’apice della fioritura). Mono no aware (letteralmente: commozione delle cose) è il sentimento che accompagna la contemplazione nostalgica e piena di compassione della bellezza effimera della natura, del momento che se ne va nel farsi del suo ritmo sacro. Il mondo è segnato dalla naturale impermanenza delle cose:

 

A cosa potrei

Paragonare questo mondo?

Alla scia bianca

Dietro la barca

Nella debole luce dell’alba[27].

 

Data la transitorietà delle gioie e dei dolori – suggerisce Hagakure – è sbagliato lasciare che l’animo sia turbato dalle une o dagli altri: «innanzitutto è necessario che il samurai avverta dentro di sé la presenza di una forza tranquilla»[28]. In secondo luogo, la transitorietà delle cose è un invito a concentrare l’attenzione sul momento presente:

 

Nella vita la cosa più importante è quella di vivere il momento presente con la massima attenzione. Tutta l’esistenza non è altro che un susseguirsi di un momento dopo l’altro. […] …ma gli uomini si lasciano sfuggire il momento presente per andare in cerca di altre cose e così non arrivano mai a realizzarsi[29]

 

Mantenere questo atteggiamento interiore – si ammette in Hagakure – è molto difficile, e si può ottenere solo attraverso una mente “pura e non contorta”. La purezza dell’anima e la sincerità del cuore sono virtù importantissime per lo scintoismo. Per riportarne alla luce il carattere divino, l’anima va pulita e lustrata come uno specchio: lo specchio ha un valore simbolico centrale nello scintoismo, e ciò è dimostrato anche dal fatto che – secondo lo Shintō - esso è uno dei tre emblemi del potere (insieme alla spada e a un gioiello) che la dea Amaterasu consegna al nipote quando lo invia sulla terra a fondare l’impero giapponese. Per purificarsi, era opportuno sottoporsi a certe pratiche, come il ritiro, le abluzioni con acqua gelata, i digiuni, le ascensioni.

Anche alcuni caratteri della meditazione buddista, tuttavia, erano idonei a creare la “forza tranquilla” del samurai: il vuoto mentale, il silenzio, la respirazione, la percezione dell’unità di tutto. Il maestro di spada del XVII secolo Yukio Munenori, nel suo trattato La spada che dà la vita, si concentra particolarmente sull’insegnamento della dottrina del “Non-Pensiero”, della “Non-Mente” e della comprensione del “Vuoto”. Come già accennato, il buddhismo depreca il fermarsi della mente su qualsiasi determinazione, su qualunque individualità: questo fermarsi si definisce “attaccamento”, ed è considerato malattia. Così,

 

Pensare solamente a vincere è malattia. Pensare solamente a usare le arti marziali è malattia. Pensare solamente a dimostrare i risultati del proprio allenamento è malattia. […] Anche fissarsi sul pensiero di espellere tale malattia è malattia. Tutto ciò che la mente trattiene in modo assoluto dovrebbe essere considerata malattia.[30]

 

Occorre dunque raggiungere uno stato in cui la mente è assolutamente libera di vagare, senza soffermarsi su nulla di definito, neanche – come si diceva – su se stessi. Mushin è lo stato di “non-mente”, che ha per fondamento il muga, cioè “non-io”. Dissolto l’io, si perde anche ogni contrapposizione fra soggetto contemplante e oggetto contemplato[31]. Un uomo capace di raggiungere questo stato «è come la luna, che sembra seguire le innumerevoli onde, ma che in realtà non si muove affatto»[32].

Quando la mente non si ferma, essa riesce ad appartenere al Vuoto[33], eterno e immutabile (non essendo nulla di definito, esso non è nulla di impermanente[34]), e può forse comprendere le misteriose parole di Hagakure: «‘Il corpo proviene da un luogo senza forma’. Essere nel Nulla è il significato delle parole: ‘La Forma è Vuoto’»[35].

“Essere nel Nulla” ci rimanda alla reale coincidenza delle illusorie contrapposizioni, che va compresa per arrivare ad intuire come tutto sia da ricondurre ad unità. Lo spadaccino Munenori impartisce una “lezione dell’Esistenza e della Non-Esistenza”[36]:

 

…l’esistenza è sempre presente, come lo è la non-esistenza. Quando è nascosta, l’esistenza è non-esistenza; quando è manifesta, è esistenza. […]  Se vedi l’esistenza e la non-esistenza […] come due cose diverse, difficilmente riuscirai a vincere […] La miriade di stili delle arti marziali si trova in definitiva in quest’unico passo.

 

Anche Seng t’san, Patriarca Zen morto nel 606 d. C., aveva indicato poeticamente la via dell’unità delle cose:

 

Ciò che è è uguale a ciò che non è / E ciò che non è è uguale a ciò che è / Dove questo stato di cose non è raggiunto / Non indugiare.

Uno in tutto / Tutto in uno / Se solo ciò è realizzato / Non darti più pensiero di non esser perfetto!

La fede è il “non-due” […]

 

Anche in Hagakure l’unità interiore e il pensiero “non-discriminante” sono considerate condizioni del valore e del coraggio del samurai. Del resto, i samurai dovevano imparare a «non usare la spada, ma essere la spada stessa»: anche in questo caso, si realizza un’unità armonica tra l’arma e il soggetto che la usa[37].

Una e unica deve essere – secondo Hagakure – anche la parola del samurai. Non solo nel senso che il samurai non deve essere ipocrita e deve tenere fede alla parola data, ma anche nel senso che il samurai deve parlare il meno possibile: «La cosa essenziale nel parlare è quella di non parlare affatto. […] Quando invece è necessario parlare, è bene dire poche parole con giudizio»[38]. Un detto giapponese, del resto, recita: «È solo una melagrana colui che, quando apre bocca, mostra intero il contenuto del suo cuore»[39].

«La Via consiste – invece – nella giusta respirazione, senza curarsi dei pensieri vani»[40]. La respirazione è molto importante anche in combattimento, e occorre agire con tempismo rispetto al ritmo dell’inspirazione, che è la fase passiva (yin) del ciclo respiratorio, e dell’espirazione, che ne è invece la fase attiva (yang): colpire espirando mentre l’avversario sta inspirando.

 

4. Il carattere costitutivo delle relazioni nella vita del samurai

 

Se è vero che il samurai fa largo uso dei precetti zen per essere costantemente pronto a straccarsi dalla vita e per sviluppare al meglio le sue tecniche di combattimento, non si deve però pensare alla figura del samurai come immersa perennemente in un silenzioso e cogitabondo isolamento: la sua vita è più attiva che contemplativa, ed ha un carattere intrinsecamente relazionale[41]. La vita del samurai, in se stessa, come abbiamo visto, non ha senso. Da una parte gli stessi precetti zen le conferiscono un significato solo in relazione a un Principio assoluto, del cui farsi la vita singola è solo un momento transitorio[42]. D’altra parte, la vita del samurai è indissolubilmente intessuta in una rete sociale costituita da reciproche obbligazioni morali (giri). I cinque principi etici fondamentali dello Shintō sono: la giusta relazione fra signore e vassallo, la giusta relazione fra padre e figlio, la giusta relazione fra marito e moglie, la giusta relazione tra fratello maggiore e minore, la giusta relazione fra amici. Oltre a un vincolo di fedeltà, il vassallo è legato al proprio signore da una vera e propria forma d’amore, che non deve mai essere ‘urlato’ o esibito, ma viene silenziosamente custodito nel proprio cuore, e coltivato anche nella lontananza spaziale e nell’anonimato:

 

Anche un uomo che passa l’intera vita in un villaggio di campagna, ignorato da tutti, […] per il solo fatto di essere un vassallo può sentire una profonda gratitudine verso il suo signore, fino a versare lacrime. […] È un sentimento simile all’amore. […] L’amore nascosto è il modello dell’amore. L’amore più profondo è quello di chi, anche senza manifestare il suo sentimento, è disposto a morire per la persona amata.[43]

 

L’amore nascosto, o amore segreto, è un concetto importante nella cultura giapponese – e in questo caso non fa differenza se sia rivolto a una donna o al proprio signore[44]. Una poesia citata in Hagakure recita: «Alla mia morte, dal fumo conoscerai il mio amore, tenuto nascosto nel mio cuore»[45]. Mishima, nel suo commento ad Hagakure, contrappone all’amore segreto l’amore romantico occidentale, che, afferma, «comporta la dichiarazione, il corteggiamento, la conquista. L’energia generata dall’amore non si accumula, così, all’interno, bensì irradia di continuo verso l’esterno»[46], si dissipa.

La vita del samurai, si diceva, ha carattere costitutivamente relazionale. Jōchō, in Hagakure, consiglia ripetutamente al samurai di distinguersi dal monaco buddista nel partecipare alla vita sociale, di stringere amicizie leali, di chiedere consiglio ad altri, di curare i rapporti con i compagni e di partecipare alle occasioni conviviali di circostanza.

 

I monaci di oggi che desiderano ritirarsi dalla vita sociale […] sono gente corrotta. […] È da codardi ritirarsi dal consorzio umano. Abbandonare il mondo, pensando di fare cosa buona, non è una giusta teoria.[47]

 

Una virtù fondamentale del samurai, e virtù cardinale del confucianesimo, è la benevolenza, o gentilezza d’animo (Jin). L’ideogramma che la rappresenta è formato dal segno che significa “Uomo” e da quello che significa “due”, «a esprimere l’uomo non come entità conchiusa e limitata nel proprio io, ma in relazione all’altro e agli altri (uomini, esseri, cose)»[48]. Il samurai deve mostrare quella delicatezza d’animo che lo rende paragonabile al fiore di ciliegio, perché «i più valorosi sono i più delicati: chi meglio sa amare, meglio sa osare»[49]. La benevolenza verso gli altri uomini si manifesta attraverso la gentilezza, a cui Hagakure ripetutamente richiama, e, soprattutto, attraverso la capacità di empatia verso i deboli, i calpestati, i vinti. In questo senso, la virtù confuciana della benevolenza si lega a quella buddista della compassione[50]. La compassione, seguendo Hagakure, non consiste infatti solo nell’agire sempre per il prossimo piuttosto che per se stessi, ma soprattutto nel saper perdonare colpe ed errori trascendendo il giudizio razionale: «‘C’è una ragione oltre la ragione’. Questa è la compassione che va oltre la ragione e l’errore»[51]. Hagakure invita ripetutamente a dare a chi ha sbagliato sempre un’altra possibilità.

Rei: il termine significa, di nuovo, gentilezza, ma ha un campo semantico che accoglie anche i significati di “cortesia”, “riti”, “etichetta”. Scrive Nitobe:

 

Conformando la propria vita ad una rigida etichetta, sostengono i confuciani, l’uomo può elevarsi ad acquisire un animo nobile. Porre una norma al gesto è un esercizio di autodisciplina.[52]

 

Nelle sue Lezioni spirituali, Mishima dedica un intero paragrafo all’etichetta, affrontando la contrapposizione fra etichetta e spontaneità: ad occhi occidentali, la rigida etichetta tipicamente giapponese può facilmente apparire sinonimo di ipocrisia. Mishima affronta l’argomento con una considerazione interessante, che rimanda anche a quanto detto sopra sull’amore nascosto: contrariamente a quanto si vorrebbe far trapelare con la spontaneità, «è assolutamente errato supporre che gli altri possano comprendere i nostri sentimenti profondi»[53]. È vero che «la convenienza spinta oltre giusti limiti diventa una menzogna»[54], e, di contro, la sincerità (intesa come buona fede) è una delle virtù fondamentali del confucianesimo. Tuttavia, l’esteriorità ha un ruolo assolutamente rilevante nella via del samurai. La dignità, l’imperturbabilità, l’onore del guerriero devono avere visibili corrispettivi esteriori: prudenza, riservatezza, buone maniere… persino al belletto sul viso[55] è lecito e opportuno ricorrere, secondo Hagakure. Mishima osserva: «la caratteristica fondamentale di Hagakure non è una moralità introspettiva, bensì una moralità attenta all’apparenza, rovesciata verso l’esterno»[56]. Del resto, l’idea di onore – fondamentale per i samurai, in quanto la loro buona reputazione ne costituiva la componente immortale – si traduceva nei termini “nome” (na), “aspetto” (menmoku), e “che risuona all’esterno” (gaibun)[57]. Con l’importanza dell’esteriorità, ritroviamo il valore fondamentale dello specchio: «onde perfezionare sembiante e portamento, un samurai deve abituarsi a correggerli guardandosi allo specchio»[58]. Lo specchio diventa, per il guerriero, uno strumento di introspezione.

 

5. Le virtù fondamentali del samurai

 

In che cosa consiste il segreto di un samurai? […] Innanzitutto questo: dedicarsi anima e corpo al servizio del signore è il suo dovere fondamentale. Oltre a questo deve coltivare interiormente tre virtù: la sapienza, la benevolenza e il coraggio.

 

Del concetto di dovere e della fedeltà del samurai si è già detto, come anche della benevolenza. Si noti nella prosecuzione del frammento, a conferma di quanto affermato in precedenza, come le virtù fondamentali del samurai – persino la sapienza – siano tali da presupporre che la sua esistenza trovi il suo senso in un orizzonte fatto di relazioni:

 

La sapienza consiste nel saper ascoltare gli altri […] La benevolenza consiste nell’agire per il bene degli altri […] Il coraggio consiste nel digrignare i denti […]. Riguardo al comportamento esteriore, le cose importanti sono: la compostezza, la condotta, il modo di parlare e la calligrafia. […] Nella loro ricerca si dovrebbe sentire una pacata forza interiore.[59]

 

Della benevolenza e dell’importanza dell’esteriorità si è già detto[60]. Restano da approfondire il concetto di sapienza e quello di coraggio.

Già dal frammento appena citato, appare evidente che essere sapienti non significa, nell’ambito del bushidō, essere colti, ma la sapienza ha un significato più vicino a quella che un occidentale chiamerebbe saggezza. Essa, infatti, non si identifica con la cultura, per un motivo interessante e ancora una volta legato all’abbandono dell’io:

 

Purtroppo molti compiono delle imprese unicamente per i loro interessi. Sotto questo aspetto la cultura è una delle imprese più pericolose.[61]

 

Secondo Hagakure, conoscere un numero “eccessivo” di cose può costituire persino un ostacolo sulla Via del samurai. Nitobe, in effetti, fa notare che nella formazione del guerriero gli aspetti ‘intellettualistici’ venivano deliberatamente piuttosto trascurati, e ammette anche che ciò ha costituito una causa del mancato sviluppo del pensiero filosofico astratto in Giappone: «Il vero Samurai chiama un dotto letterato: uno sciocco che odora di libri»[62]. In Hagakure si fa presente più volte che, dal momento in cui il dovere di un samurai è costituito dal servizio al signore, un illetterato può benissimo compiere il proprio dovere meglio di una persona colta che ‘perda tempo’ con la cultura: «bisogna abbandonare ogni speculazione e pensare soltanto ad essere servizievoli»[63].

Ma sapienza non è neppure capacità di raziocinio, né buon senso. Nella Via del samurai, l’irrazionalismo va di pari passo con l’antiutilitarismo, ed è sostenuto dal buddhismo Zen (è invece piuttosto in contrasto con il confucianesimo, che teneva in gran conto l’erudizione):

 

Verbosità e intelletto

Più si convive con essi più si va fuori strada

Basta dunque con le parole e l’intelletto

E non vi sarà più un luogo dove non passeremo liberamente.[64]

 

Abbiamo già visto come il samurai debba andare «incontro alla morte furiosamente come un pazzo»[65]: chi, di fronte alla morte, avanza considerazioni di logica o buon senso è un “uomo calcolatore”[66], che secondo Mishima, col suo comportamento porta alla luce «il vizio che umanesimo e razionalismo nascondono»[67]: la debolezza e la viltà. Hagakure mette in guardia: il termine “codardia” è composto da ideogrammi che significano “mente” e “pensare”[68]. In Hagakure si legge anche: «Alcuni dicono che morire senza aver portato a termine la propria missione equivale a morire invano. Questa è la logica dei mercanti gonfi d’orgoglio»[69]. Lo stesso disprezzo che gli antichi samurai riservavano ai mercanti e al denaro, Mishima lo riserva anche agli intellettuali - categoria di cui pure si può ben affermare che abbia fatto parte a pieno titolo. Nelle Lezioni spirituali dedica un capitolo a “gli effeminati intellettuali”[70], ed anche ne La via del samurai un paragrafo “Sugli intellettuali” non riserva certo a questa figura dei toni morbidi:

 

…se, mediante ingegno e retorica, uno nasconde la propria interiore codardia e avidità, allora costui inganna se stesso per mezzo di una filosofia su misura, e fa la penosa figura dell’impostore[71]

 

Così, il bushidō nega quelli che sono stati in fondo dei veri e propri pilastri nello sviluppo della civiltà occidentale: l’individualismo, il razionalismo[72], l’utilitarismo e anche, se vogliamo, il contrattualismo. Nel bushidō, infatti, sono considerati offensivi e non dignitosi patti o giuramenti scritti, come i contratti, poiché esprimono una mancanza di fiducia nella parola data, che dovrebbe costituire invece un’assicurazione sufficiente da parte di uomini d’onore[73]. Mishima si spinge ad affermare l’inadeguatezza di ogni legge:

 

La legge è essenzialmente una convenzione della società moderna, mentre la natura umana è assai più profonda e più complessa, e supera i limiti dell’attuale legislazione[74]

 

Tornando alla sapienza, essa non coincide neppure con la capacità di comprendere cose attraverso una forma più profonda di pensiero. Abbiamo già visto come lo zen istruisse i samurai sulla via del “Non-Pensiero”. In Hagakure, si legge:

 

Alcune cose le capisci attraverso il tuo ragionamento; ma ci sono altre cose che non si possono capire in nessun modo. […] Le cose che si possono comprendere facilmente sono poco profonde[75]

 

A cosa affidarsi, dunque, se non alla cultura, alla ragione, al pensiero? Si sarà notato che Hagakure definiva la sapienza come “saper ascoltare gli altri”: questo è senza dubbio un ottimo spunto di riflessione, oggigiorno. Ma c’è di più. Prima di rendere conto alla ragione, il samurai deve rendere conto al suo cuore: «‘Quando il tuo cuore chiama, come rispondi?’» - recita il verso di una poesia citato in Hagakure[76]. La sincerità del cuore è una virtù fondamentale per lo scintoismo: come si diceva, esso va tenuto lustro come uno specchio. Ma la purezza di cuore, per il samurai, ha un valore conoscitivo oltre che morale, facendo così in parte le veci del pensiero. Makoto è, qui, il concetto centrale. Esso «comprende le idee di veracità, onestà e lealtà. […] Esprime Makoto colui che evita di pensare al proprio interesse, […] che sa liberarsi dalle passioni e dai conflitti emotivi», ma – inoltre - «Makoto significa che le parole devono divenire azioni […], è ‘sentire e vivere immediatamente le cose del mondo senza la mediazione del pensiero’»[77].

L’ultimo frammento citato ci conduce, infine, ad un’altra questione importante: la via del samurai è sorretta da una filosofia dell’azione, e non del pensiero. «Questa è la vera contemplazione: immergersi nell’azione del momento» - recita Hagakure[78]. Il samurai deve oltrepassare la contrapposizione tra contemplare e agire, e tanto nel combattimento quanto nella meditazione gli è richiesto l’abbandono delle funzioni mentali esplicite e articolate[79]. Il samurai, insomma, deve raggiungere in ogni ambito l’immediatezza, in senso letterale, che è poi ciò che gli consente – al bisogno – l’azione fulminea o la decisione rapida:

 

‘Una decisione va presa nello spazio di sette respiri’ […] ‘Se un uomo esita troppo a lungo a prendere una decisione, s’addormenta’ […] si affrontano i problemi con spirito fermo, fresco e affilato come un rasoio […] bisogna essere determinati[80]

 

L’azione, per il samurai, oltrepassa calcoli e pensiero, e vale più di essi. Mishima ha dedicato un intero saggio (breve) all’azione, scritto fra il 1969 e il 1970: Introduzione alla filosofia dell’azione[81]. Come in effetti appare paradossale che l’intellettuale Mishima adoperi la massima severità contro gli intellettuali, altrettanto autocontraddittoria sembrerebbe l’istanza di scrivere articolate riflessioni a dimostrazione che l’azione vale più della riflessione. È un paradosso di cui Mishima appare consapevole:

 

In tutto questo tempo in cui mi sono dilungato ad argomentare sull’azione, ho provato un costante senso di inadeguatezza. L’azione infetti non è esprimibile con parole. […] Espressa con parole l’azione dilegua come fumo, senza lasciare tracce, e ogni tentativo di costruire un discorso logico su di essa appare assurdo e ridicolo agli occhi di un uomo d’azione. Un simile uomo non si muove secondo un sistema logico.[82]

 

Se l’azione deve trascendere il più possibile le mediazioni intellettuali, il bushidō mette però in guardia sul fatto che, per agire – nell’istante[83] – in modo deciso e immediato, è necessario essere sempre preparati, come mette spesso in rilievo Hagakure:

 

Un samurai che studia la situazione in anticipo e si prefigura ogni evenienza e le possibili soluzioni è saggio e, quando l’occasione si presenta, è capace di affrontarla nel modo migliore. In ogni caso, il samurai illuminato è quello che si prepara…[84]

 

Hagakure invita ad essere sempre pronti e vigili in ogni circostanza, di pace come di guerra, in pubblico come nel privato, per essere sempre pronti a decidere e agire istantaneamente. Tuttavia, in caso di imprevisti, il samurai deve saper sfoderare una dote altrettanto preziosa: quella dell’adattabilità ad ogni situazione. Hagakure, come esempio, cita l’atteggiamento da tenere se si è sorpresi da un acquazzone: se si cerca freneticamente di coprirsi, ci si bagnerà ugualmente, «se invece ti rassegni al fatto di bagnarti fin dall’inizio, la cosa non ti dispiacerà per niente»[85]. Così, il “credo del samurai” recita: «non ho principii, l’adattabilità è il mio principio», e il bambù assurge a simbolo di ciò che, piegandosi sempre, non si spezza mai.[86]

 

6. Il coraggio e l’umiltà sulla via della perfettibilità

 

«Quando la spada si spezza, si usano le mani; quando vengono tagliate le mani, si getta a terra il nemico con le spalle; quando vengono ferite le spalle, con la bocca si potrà mordere il collo di  dieci o quindici avversari».[87]

 

Il guerriero coraggioso, in Hagakure, non solo affronta le difficoltà, ma rilancia con accanimento, “digrigna i denti” – secondo la definizione del coraggio già incontrata nel precedente paragrafo. In Hagakure è citato il proverbio: «quando l’acqua è alta, anche la barca sale»[88]: il samurai deve gioire delle difficoltà, perché esse gli permettono di temprare il carattere a dar prova di valore.  è il coraggio, il cui ideogramma sta anche per “audacia” e, significativamente, per “generosità”[89]. Siamo rimandati, ancora una volta, all’idea di un generoso sacrificio di sé, in questo caso ad una norma impersonale, sovraindividuale, di giustizia: Confucio definisce la mancanza di coraggio come lo stato in cui si sa esattamente ciò che sarebbe giusto compiere, ma non lo si compie[90]. È importante rilevare, allora, che il coraggio del samurai non deve essere una forma di affermazione dell’io, e che esso è esprimibile anche in stato di pace, nella pietà filiale e nello stile di vita austero. Il coraggio è strettamente legato all’imperturbabilità dell’animo[91]: il coraggio di fronte alla morte è dimostrato, ad esempio, dalla capacità di scrivere, nell’imminenza del trapasso, brevi componimenti poetici di commiato, o jisei. Questo, ad esempio, è quello di Mishima, scritto in occasione del suo drammatico seppuku: «Nel breve corso/ dell’umana esistenza/ scelgo l’eterno».

Non bisogna tuttavia pensare che al samurai – dall’animo tranquillo, sensibile e compassionevole – fosse estranea la violenza. In Hagakuresi trovano frammenti scioccanti, da questo punto di vista:

 

Si dice che tagliando a qualcuno la faccia in lungo e in largo, urinandogli sopra e calpestandolo poi con i sandali di paglia, gli si distacchi la pelle. […] È una pratica segreta.[92]

 

In un caso di rissa fra due uomini, racconta poi Hagakure, il daimyo chiamato a giudicare il comportamento dei suoi vassalli, fa crocifiggere i due litiganti, e – cosa in notevole contrasto con la compassione e le tendenze pacifiche del buddhismo – punisce anche gli uomini intervenuti a separarli[93]. In un altro caso citato in Hagakure, un ladro viene punito con atroci torture, e dimostra il proprio coraggio restando imperturbabile[94].

Oltre al contrasto fra violenza e compassione, il bushidō presenta anche quello tra coraggio e umiltà[95], palese in questo passo di Hagakure:

 

La Via […] non è altro che conoscere i propri difetti. […] La parola ‘saggio’ è formata da due ideogrammi che significano ‘conoscere’ e ‘difetto’. […] Comunque, […] un samurai che con una grande ambizione, non sia convinto di essere il migliore di tutti, non potrà mai dimostrare la sua bravura. Per dimostrare la propria bravura bisogna avere una grande ambizione e un grande orgoglio.[96]

 

Una rappresentazione del paradosso potrebbe essere rinvenuta in una significativa metafora, tratta ancora una volta da Hagakure, relativa alla figura del samurai: «La sua veste è foderata con pelle di cane all’interno e con pelle di tigre all’esterno»[97]. Anche se l’immagine non viene ulteriormente spiegata (almeno nelle traduzioni italiane dell’opera), si può ben ipotizzare che indichi una modestia e un’umiltà applicate dal guerriero nel proprio intimo, contrapposte al coraggio e alla determinazione che mostra all’esterno.

L’umiltà del samurai è soprattutto legata alla percezione, che egli deve sempre tenere presente, dell’infinità perfettibilità del guerriero nel percorrere la Via. Hagakure raccomanda più volte di non indugiare nel pensiero dei propri progressi, del proprio successo, covando, ancor peggio, l’idea di aver raggiunto la propria meta. A proposito dei gradi di perfezione nell’arte della scherma, troviamo scritto:

 

[…] c’è ancora un grado, indescrivibile, che sta al di sopra di tutti. Entrando sempre più profondamente nella Via si comincia a comprendere di trovarsi in un mondo infinito, e che non si può mai dire di essere arrivati. Allora si capiscono bene i propri limiti e non si pensa più di essere perfetti nella vita. […] ‘Non ho imparato la Via per vincere gli altri, ma per vincere me stesso’. Questo vuol dire che noi, oggi, dobbiamo cercare di essere migliori di ieri, e, domani, migliori di oggi. Giorno per giorno, per tutta la vita, bisogna camminare nella Via, in un mondo senza confini.[98]

 

 

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

 

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[1] Cfr. Polia (1997), p. 32.

[2] Cfr. Nitobe (1980), p. 10.

[3] Cfr. Nitobe (1980), p. 13.

[4] Cfr. Nitobe (1980), pp. 147-153.

[5] Nitobe (1980), p. 165

[6] Cfr. Mishima (2000)

[7] Polia (1997), p. 12

[8] Una legge del 1661 aveva proibito lo junshi, il suicidio dei samurai con cui essi, tradizionalmente, intendevano raggiungere il proprio signore oltre la morte.

[9] Hagakure è composto di 11 volumi: la prefazione e i primi due contengono le conversazioni e gli insegnamenti più generali di Jōchō; i volumi dal III al X vertono sulla storia e su personaggi del Giappone, mentre l’XI è un riassunto dell’opera.

[10] Cfr. Mishima (2000), pp. 63-64.

[11] «In che cosa consiste il segreto di un samurai? Volendolo rivelare, bisogna affermare innanzitutto questo: dedicarsi anima e corpo al servizio del signore è il suo dovere fondamentale» (Hagakure (20011), pp. 76-77).

[12] Hagakure (20011), p. 21.

[13] Chû, la fedeltà o lealtà, è la fondamentale categoria di obblighi morali che fanno parte del più generale giri (cfr. Nitobe (1980), n. 16, p. 60): quest’ultimo «non è solo un obbligo morale da compiersi scrupolosamente. Giri comporta un’adesione profonda del uore e della sfera affettiva: è un dovere in cui si crede, che si ama, cui si obbedisce con gioia e partecipazione completa» (Polia (1997), p. 70).

[14] Hagakure (20011), p. 61. Si noti anche che «un vassallo che si dedica anima e corpo al servizio del suo signore ubbidisce sia in situazioni propizie che avverse» (Hagakure (20011), p. 14)

[15] «Se voi realmente volete assumere i valori più profondi dello zen, dovete rinunciare alla vostra vita e penetrare nello stesso pozzo della morte» (Nitobe (1980), p. 184).

[16] Hagakure (20011), p. 49. Nello stesso frammento si aggiunge: «lealtà e pietà filiale sono presenti in quest’unico pensiero della morte»: evidentemente, avere presente la morte significa comprendere che non ha senso vivere per se stessi.

[17] Hagakure (20011), p. 31; corsivo mio.

[18] Hagakure (20011), p. 158.

[19] Hagakure, cit. in Nitobe (1980), p. 26.

[20] Non è un caso se in Nitobe (1980) si esprime apprezzamento per Hegel (cfr. p. 140).

[21] Cfr. le considerazioni di Nitobe sul dharma, che è dovere in senso diverso dal giri (Nitobe (1980), pp. 9-10).

[22] «… anche usare le armi e uccidere qualcuno quando ciò non può essere evitato è la Via del Cielo. Se chiedi il significato di tutto ciò, si può rispondere che i fiori sbocciano e la vegetazione è in rigoglio quando spirano le brezze primaverili, ma le foglie cadono e gli alberi appassiscono quando arrivano i geli dell’autunno» (Munenori (2004) Cfr. pp. 47-50).

[23] Daidōji Yuzan, cit. in Polia (1997), p. 104. Nel suo commento all’Hagakure, Mishima sostiene che la morte sia una “potente medicina” per recuperare la vitalità e il senso della vita (Mishima (2000), pp. 54-55), e sottolinea come cambi necessariamente la lettura dell’Hagakure in tempi in cui il rapporto con la morte è mutato (Mishima (2000), pp. 58-60)

[24] Detto giapponese citato in Nitobe (1980), p. 19.

[25] «Se qualcuno chiede/ qual è lo spirito dello Yamato/ è un fiore di ciliegio/ che profuma il sole del mattino» (N. Motoori, cit. in Polia (1997), p. 110).

[26] «L’eroe è forte come una montagna, gentile come una brezza»: antico detto giapponese citato in Nitobe (1980), p. 19.

[27] Così scriveva S. Mansei nell’VIII sec.: cit. in Munenori (2004), p. 143. Mishima (2000, pp. 81-112) parla di “nichilismo” dell’Hagakure. Alcuni frammenti sembrano confermare questa tesi, ad esempio: «tutto il mondo non è altro che un sogno» (Hagakure (20011), p. 98), o «Nel mondo tutto è solo uno spettacolo di burattini» (Hagakure (20012) p. 36).

[28] Hagakure (20012), p. 109.

[29] Hagakure (20011), p. 79.

[30] Munenori (2004), p. 60.

[31] Cfr. Polia (1997), pp. 34-35.

[32] Munenori (2004), p. 64.

[33] «Se tu conosci il vuoto/ tu e il vuoto non siete differenti» (Ekai, cit. in Polia (1997), p. 35). Si noti che il titolo completo del saggio della Yourcenar su Mishima è Mishima o La visione del vuoto, pur vertendo il saggio stesso non tanto sul pensiero filosofico o nazionalista, quanto sull’opera letteraria di Mishima.

[34] «Dunque nel vuoto/ non ci sono i fenomeni di questo mondo,/ non ci sono i sensi, le idee, la capacità di/ discriminazione»: questo ed altro è contenuto in un sutra recitato nei templi zen (cfr. Polia (1997), pp. 115-117).

[35] Hagakure (20011), p. 83.

[36] Cfr. Munenori (2004), p. 65.

[37] Anche «il progresso nell’arte della calligrafia consiste nel creare l’armonia tra la pagina, il pennello e l’inchiostro; tendono ad essere così separati!» Hagakure (20012), p. 100.

[38] Hagakure (20011), p. 181.

[39] Cit. in Polia (1997), p. 56.

[40] Hagakure (20011), p. 23.

[41] A questo proposito, ancora un aspirante kamikaze nella II guerra mondiale diceva a un compagno: «Lei attribuisce troppa importanza alla vita. Immagini che l’intero mondo scompaia eccetto lei. Avrebbe ancora voglia di vivere? Se una vota umana ha un qualche significato è perché entra in rapporto con altri esseri umani» (Morris (2003), p. 303).

[42] Nitobe (1980, pp. 28-29) cita, senza specificarne l’autore o l’epoca di composizione, un “credo del samurai”, entro il quale è contenuta l’affermazione: «Non ho vita né morte: l’ ‘Assoluto’ è la mia vita e la mia morte».

[43] Hagakure (20011), p. 92. A proposito della lontananza tra vassallo e signore, anche Munenori (2004, p. 49) afferma: «Che cosa importa il grado di intimità? I vassalli sono come le mani e i piedi per un governante. Sono forse i piedi diversi dalle mani perché sono più lontani?».

[44] «Quando l’amore per una donna o per un giovane è puro e casto, esso non differisce dalla fedeltà e devozione a un sovrano» (Mishima (2000), p. 71).

[45] Hagakure (20011), p. 84. È interessante notare che Munenori (2004, n. 38, p. 130) , riferendosi alla necessità di non rendere pubblica l’arte della spada, esprima un pensiero simile: «Conoscere il Fiore Nascosto. Se è nascosto, diventa un fiore. Se non è nascosto, probabilmente non diventerà un fiore».

[46] Mishima (2000, p. 53).

[47] Hagakure (20011), p. 168.

[48] Polia (1997), pp. 86-87.

[49] Nitobe (1980), p. 72.

[50] Nitobe pone esplicitamente un interrogativo piuttosto facile a sorgere, sulla possibilità di conciliare la dottrina della compassione con il carattere guerriero del buddhismo giapponese: la risposta, per certi versi inquietante, sembra essere che le virtù proprie della moralità buddista sono solo uno stato preparatorio sulla via della vera ascesi, che invece eleverebbe “al di sopra del bene e del male” (cfr. Nitobe (1980), p. 23). Un problema analogo è sollevato da Mishima, riguardo la conciliabilità fra bushidō e Shintō, ove quest’ultimo vede il contatto con il sangue come una forma di contaminazione: anche in questo caso, pare che la via del samurai superi il problema alternativamente considerando la morte come elemento purificatore alla contaminazione, o ignorandolo del tutto, come suggerisce Jōchō in Hagakure (cfr. Mishima (2000), pp. 114-116).

[51] Hagakure (20011), p. 63.

[52] Nitobe (1980), p. 77.

[53] Mishima (2003), pp. 20-21.

[54] Masamune, cit. in Nitobe (1980), p. 85.

[55] Cfr., per esempio, Hagakure (20011), p. 92.  Mishima commenta questo passo affermando: «Gli uomini devono avere il colorito dei fior di ceraso anche in morte» e «È questo un punto-chiave in cui la filosofia di Jōchō collima con l’estetica…» (Mishima (2000), p. 113).

[56] Mishima (2000), p. 90.

[57] Cfr. Nitobe (1980), p. 93.

[58] Hagakure, cit. in Mishima (2000), p. 96. Mishima commenta: «è opportuno dar risalto all’aspetto esteriore della moralità; a riflettere codesto aspetto esteriore sono, in primo luogo, il nemico e lo specchio. Il nemico esamina e valuta il tuo comportamento, e lo specchio fa altrettanto» (Mishima (2000), pp. 95-96).

[59] Hagakure (20011), pp. 76-77.

[60] A proposito della calligrafia, in particolare, va menzionato il fatto che essa veniva considerata della massima importanza in quanto si riteneva che rispecchiasse il carattere di la adoperava.

[61] Hagakure (20011), p. 40.

[62] Nitobe (1980), pp. 55. Cfr. anche alle pp. 107 e 111.

[63] Hagakure (20011), p. 73.

[64] Seng t’san, cit. in Polia (1997), p. 118.

[65] Cfr. supra, p. 3 (corsivo mio) A questo proposito, è interessante quanto osserva Mishima: «Il significato spirituale del brandire la spada al momento dell’attacco, tipico degli ufficiali giapponesi, era di testimoniare che soltanto l’irrazionale forza dello spirito può superare i limiti dei calcoli logici e dei piani di battaglia. L’essenza dell’azione è infrangere con energie irrazionali il limite a cui è approdata la razionalità» (Mishima (2003), p. 92). Morris, inoltre, fa presente che «Lo Hagakure […] unisce i caratteri di shini (morire) e kurui (divenire folle in una sola parola, shinigurui (la follia di morire), e prescrive al guerriero questa ardente condizione» (Morris (2003), p. 304).

[66] «L’uomo calcolatore è un codardo. […] Morire è una perdita, vivere è un guadagno ed è così che spesso si decide di non morire, ma questo è un atto di viltà» (Hagakure (20012), p. 69).

[67] «L’umanista, illudendosi di aver attinto ai valori universali, nasconde dietro tale corazza la debolezza dell’io e l’inconsistenza della sua tesi soggettiva».  (Mishima (2000), p. 97. Cfr. anche le pp. 129-131).

[68] Hagakure (20011), p. 163.

[69] Hagakure (20012), p. 8.

[70] Cfr. Mishima (2003), pp. 47-51.

[71] Mishima (2000), p. 97.

[72] «Quando la ragione avanza, la Via si dilegua» (Hagakure (20011), p. 72).

[73] Cfr., ad esempio, Nitobe (1980, p. 86): «Bushi no ichi-gon – parola di samurai – […] rappresentava una garanzia sufficiente della verità di un’affermazione e assumeva un peso tale che gli impegni venivano generalmente presi e adempiuti senza un atto scritto – che sarebbe stato considerato come assolutamente indegno dell’onore del samurai».

[74] Mishima (2003), p. 110.

[75] Hagakure (20011), p. 74.

[76] Hagakure (20011), p. 24 e p. 103.

[77] Nitobe (1980), pp. 19-20. Cfr. anche Polia (1997), p. 73 e segg.

[78] Hagakure (20011), p. 41.

[79] «La chiave dell’arte della spada zen, il segreto del samurai, consiste […] nella capacità di agire come per istinto. […] È lo stesso principio zen che presiede alla comprensione del reale mediante il trascendimento delle facoltà analitiche» (Mishima (2000), p. 19).

[80] Hagakure (20012), p. 76.  Il frammento contiene due detti giapponesi.

[81] Contenuto in Mishima (2003), pp 69-112.

[82] Mishima (2003) , p. 108.

[83] «L’azione è rapida, mentre il lavoro intellettuale e artistico impone tempi estremamente lunghi. Anche la vita esige una lunga pazienza, mentre la morte può consumarsi in un istante. […] L’azione ha il misterioso potere di compendiare una lunga vita nell’esplosione di un fuoco d’artificio» (Mishima (2003), pp. 72-73).

[84] Hagakure (20012), p. 30.

[85] Hagakure (20011), p. 40.

[86] Cfr. Polia (1997), p. 37. Per ciò che concerne il “credo del samurai”, cfr. supra, n. 42, p. 7.

[87] Hagakure (20011), p. 134.

[88] Hagakure (20011), p. 86.

[89] Cfr. Polia (1997), p. 58.

[90] Cfr. Nitobe (1980), p. 63.

[91] «L’aspetto spirituale del coraggio è dato da una presenza dell’animo calma e composta. La tranquillità è coraggio in riposo e ne costituisce la manifestazione ‘statica’, così come le gesta audaci ne costituiscono l’aspetto ‘dinamico’» (Nitobe (1980), p. 65).

[92] Hagakure (20011), p. 158.

[93] Hagakure (20011), p. 155.

[94] «Gli bruciarono tutti i peli del corpo e quindi gli strapparono le unghie. Lo bucarono col trapano […], ma lui non emise un lamento e non cambiò di colore. Alla fine gli spaccarono le spalle e lo misero a bollire nella salsa di soia» (Hagakure (20011), p. 143).

[95] Mishima stesso, commentando Hagakure, ammette: «…lo Hagakure è una filosofia di vita. Non si tratta di un sistema strutturato con rigorosa coerenza logica. Fra gli insegnamenti di Jōchō abbondano discrepanze e contraddizioni» (Mishima (2000), p. 72).

[96] Hagakure (20011), p. 28. Mishima commenta: « Mentre loda la virtù della modestia, […] Jōchō avvertiva il fascino, vedeva la maestosa radiosità, di ciò che si chiama hybris» (Mishima (2000), p. 74).

[97] Hagakure (20011), p. 35.

[98] Hagakure (20011), pp. 26-27.

 

Da: ww.bibliomanie.it/bushido_romizi.htm

 

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