Vittorio Cucchi. La vita di Buddha nei testi del canone Pali. INTRODUZIONE di Gabriele Burrini. La vita di Buddha nelle fonti canoniche e letterarie. Uno spiccato interesse per la figura del Buddha sorse nella storia del buddhismo quattro secoli dopo il Parinirvana, cioè dopo la "totale estinzione", che colse l'Illuminato a ottant'anni, presumibilmente nel 486 a.C. L'interesse tardivo trova una sua giustificazione nel fatto che il Buddha stesso aveva più volte additato ai monaci (bkiksu) di assumere come normativa non la sua vita o la sua "esperienza", bensì la Legge (Dharma) universale da lui predicata: che è la Legge da sempre esposta dai Buddha di tutti i tempi. "Dopo la mia morte siate ciascuno a voi stessi la vostra propria isola, il vostro proprio rifugio. [...] La Legge che ho predicato, la disciplina che ho stabilito saranno la vostra guida dopo la mia scomparsa" (Digha-Nikaya, II, pp. 100, 154) "Siate luce a voi stessi, siate rifugio a voi stessi, senza altro rifugio: la Dottrina sia luce, la Dottrina sia rifugio, senza altro rifugio" (Mahaparinirvanasutra, p. 36). Questa centralità della Legge o della disciplina, a discapito di ogni centralità della teofania, è decisamente nuova nell'ambito delle religioni antiche e non solo di quella indiana nelle quali era lo ierofante o il brahmano a fungere da mediatore con il mondo dello spirito. Ciò lascia intendere che l'uomo cui il Buddha destina il suo insegnamento è già un essere potenzialmente responsabile di se stesso, consapevole di sé, virtualmente libero: in ciò la modernità del messaggio buddhista. Il movimento buddhista che si sviluppò all'indomani del Parinirvana, si concentrò pertanto sulla corretta trasmissione dei discorsi del Buddha e sull'osservanza delle norme ascetiche destinate a confluire nel Vinayapitaka, il "Canestro della disciplina". A questo movimento la tradizione buddhista ha dato il nome di Theravada ("Veicolo degli anziani") o di Hinayana ("Piccolo Veicolo"), secondo la designazione fornita da quella corrente sorta nel I secolo che si diede il nome aulico di Mahayana ("Grande Veicolo"). L'asceta theravada vedeva dunque nel Buddha nient'altro che il simbolo della Legge o dell'illuminazione: è questo il motivo per curi la primitiva arte buddhista non ci ha lasciato raffigurazioni del Buddha ma soltanto rappresentazioni simboliche della Legge o del Nirvana, quali la Ruota (Cakra) e lo stupa. Il Buddha diverrà per la prima volta oggetto di raffigurazioni soltanto nella prima metà del II secolo d.C., a Mathura e nel distretto del Gandhara. Ora, proprio il Vinayapitaka raccoglie discorsi in Cui il Buddha riferisce ampi episodi della sua vita, contenuti nelle sezioni del Mahavagga, del Cullavagga o del Sutta-Vibhanga; a questi col tempo si aggiunsero i testi narrativi e dottrinari compresi nel Suttapitaka ("Canestro delle prediche") e precisamente nelle sezioni del Digha Nikaya, del Majjhima Nikaya, del Samyutta Nikaya, dell'Anguttara-Nikaya e di pochi altri testi presenti nelle sezioni del Khuddaka Nikaya. Di tutti questi testi vengono offerti ampi excerpta nella presente opera. Un più vasto interesse di tipo letterario, oltre che religioso, per la vita dell'Illuminato sorse a cavallo tra il I secolo a.C. e l'inizio dell'era volgare, grazie a un'ampia serie di fattori che portò alla formazione del grande Veicolo non ultima la crescente adesione dei laici (upasaka) al messaggio del Buddha. Significativo è un episodio narrato nel canone pali: Un ricco banchiere di nome Anathapindada, che beneficava con larghe donazioni la Comunità, cadde malato e chiese l'assistenza spirituale di Sariputta: che, recatosi presso il benefattore, gli predicò l'insegnamento sul disgusto da provare verso gli oggetti dei sensi. Entusiasta per quelle parole, Anathapindada si meravigliò di non aver mai udito prima un così profondo e retto insegnamento. Ma Sariputta rispose che tali verità erano riservate ai monaci. A quel punto il ricco banchiere chiese che non si negasse questa predicazione ai laici, perché vi erano "figli di famiglia" che, per non aver udito questo insegnamento, si perdevano, quando invece sarebbero potuti divenire profondi conoscitori del Dharma (Majjhima Nikaya, III, p.261). Al generoso entusiasmo dei laici, che con le loro donazioni sostenevano la Comunità, assistevano i monaci, costruivano templi e conventi, la Legge buddhista prometteva come unica ricompensa l'acquisizione di grandi meriti per una migliore rinascita sul piano spirituale ma non l'Illuminazione, che rimaneva esclusivo coronamento della disciplina. Ai laici non fu chiesto, insomma, di sviluppare altra disciplina interiore che non fosse quella della compassione (karuna) o dell'amorevolezza (maitri), unica forza che nella vita laicale può antidotare gli effetti della luce del karman. La crescente importanza dei laici e l'ampio interesse per virtù come la compassione, la pazienza, la carità, lo spirito di sacrificio si riflettono in una vasta raccolta di testi compresi nel Khuddaka Nikaya, i Jataka, ovvero "le Nascite" anteriori del Buddha, durante le sue innumerevoli vite da bodhisattva, da cercatore dell'illuminazione (bodhi). Si tratta di 547 racconti edificanti che, sebbene redatti in tempi tardi, sono l'esito di una tradizione orale che data al II secolo a.C., dal momento che già all'epoca Sunga (100 a.c.) appartengono già dei bassorilievi che illustrano queste vite anteriori dell'illuminato. Nel buddhismo popolare dei primi secoli della nostra era le storie dei Jataka rappresentarono la prima forma di interesse per la vita e la figura del "monaco degli Sakya" (Sakyamuni). A esservi celebrato non era però il Buddha nella sua compiutezza di Illuminato ma il bodhisattva nella sua ricerca umana dell'Assoluto: sotto aspetti molteplici come molteplici e infiniti sono, secondo la Legge buddhista, i volti della compassione. La fortuna dei Jataka percorse tutta la geografia del buddhismo: nell'India centrale, a Sanci (a 40 km a nord est di Bhopal) circa quaranta scene tratte dai Jataka abbelliscono gli storici stupa, mentre nell'isola di Ceylon, secondo la testimonianza del pellegrino buddhista Fa hsien (IV V secolo d.C.) che vi assistette a una fastosa processione, venivano disposte ai lati della strada ben cinquecento dipinti che commemoravano le vite anteriori dell'illuminato. Celebre è divenuta una poetica riduzione dei Jataka chiamata jatakamala ("Ghirlanda delle nascite"), scritta in sanscrito da Arya Sura (III IV secolo). L'opera, che raccoglie trentaquattro storie edificanti, è una vera e propria gemma della letteratura sanscrita buddhista e potrebbe formare una trilogia ideale con il Buddhacarita ("Gesta del Buddha") di Asvaghosa e il Bodhicaryavatara ("L'entrata nel cammino che conduce all'illuminazione") di Santideva: il poema di Arya Sura potrebbe essere il libero canto del "cammino d'amore" che precede ogni "cammino di conoscenza", il testo di Asvaghosa sarebbe il canto del miracolo che celebra il trionfò dell'illuminazione, infine le pagine di Santideva farebbero da prolungato coro che con afflato di preghiera celebra la bellezza della compassione e la luce del pensiero le due mete eterne dei bodhisattva del mondo. Alla letteratura Jataka si affianca un altro genere letterario detto avadana, risalente anch'esso ai primi secoli dell'era volgare. A questo genere fa capo il Mahavastu ("Libro dei grandi avvenimenti"), che risale agli inizi dell'era volgare (con parti che però datano anche al IV secolo d.C.) e proviene dalla cerchia dei Lokottaravadin, ramo della corrente theravada dei Mahasanghika. Il testo, redatto in "sanscrito misto", narra in forma romanzata la vita del Buddha, partendo dalle sue esistenze precedenti di bodhisattva, ma tale è l'intervento di prodigi e miracoli che il Buddha ne viene trasfigurato in un essere trascendente (lokottara), che non ha più nulla di umano. Il Mahavastu dipinge, quasi su un orizzonte infinito, la pluralità dei Buddha del passato, circondati a loro volta dagli innumerevoli Buddha che dimorano nelle più lontane regioni dello spazio: dopo aver acquisito ineguagliabili meriti spirituali sotto cinquecento Buddha mitici, Sakyamuni è divenuto uno dei tantissimi illuminati che presiedono agli innumerevoli Campi buddhici (buddhaksetra) dello spazio: "Ce ne sono migliaia e poi ancora migliaia, tanti che, a raccontarne, è impossibile vederne il fondo". Si vuole che da queste idee abbia tratto avvio quel processo di divinizzazione anzi di cosmicizzazione che connota la concezione mahayanica dei Buddha e dei bodhisattva. A metà strada come il Mahavastu fra il Piccolo Veicolo e il Grande Veicolo è un'altra importante biografia del Buddha, risalente al II IV secolo d.c.: il Lalitavistara ["La dettagliata descrizione del gioco della vicenda umana (dell'Illuminato)"]. Quest'opera, che pur provenendo dalla setta theravada dei Sarvastivadin rappresenta uno dei Sutra (testi sacri) più importanti del Grande Veicolo, al pari del Loto della Buona Legge - per citare il più noto , è redatta parte in prosa e parte in poesia e raccoglie gli eventi che vanno dal "prologo in cielo", cioè la dipartita del bodhisattva dal cielo dei Tushita, fino alla predicazione del Sermone di Benares, che segna la prima "messa in movimento della Ruota della Legge". Si tratta di una biografia leggendaria connotata dalla presenza di prodigi, miracoli, interventi di esseri divini, com'è tipico dei Sutra mahayanici. Il Lalitavistara che secondo Etienne Lamotte è un'edizione accresciuta (ma scorretta) di diverse guide per pellegrinaggi giustapposte insieme ha ispirato molte opere dell'arte del Gandhara e diverse scene del monumentale complesso di stupa di Borobudur, nell'isola di Giava (VIII secolo d.C.). Da ricordare è infine il Buddhacarita ("Le gesta del Buddha") del poeta Asvaghosa (I secolo d.c.), opera poetica scritta in sanscrito classico, secondo lo stile dei poemi epico storici detto mahakavya. Il Buddhacarita, quale ci è pervenuto, consta di quattordici canti che narrano la vicenda umano-divina del Buddha, dalla nascita miracolosa fino all'illuminazione sotto l'Albero della Bodhi; ma originariamente l'opera completa si concludeva con il Parinirvana, come attestano le versioni cinese e tibetana che contano ventotto capitoli. Il Buddhacarita ebbe notevole fortuna nella successiva storia del buddhismo, sia per la bellezza della sua poesia, ricca di similitudini e artifici letterari, sia per i suoi contenuti morali e sapienziali. Gabriele Burrini. Vittorio Cucchi. La vita di Buddha nei testi del canone Pali. Le tappe della vita del Buddha. Riportiamo qui una breve cronologia della vita dei buddha. Com'è consueto nella storia indiana, le date sono molto ipotetiche, tanto che ancora oggi gli studiosi discutono sull'anno di nascita dell'illuminato. 8 aprile 566 a.C. (o una data intermedia fra il 557 e il 570) Il principe Siddhartha (Colui che ha raggiunto lo scopo') nasce nel Parco di Lumbini, presso Kapilavastu (pali: Kapilavatthu), capitale dello staterello himalayano degli Sakya, una oligarchia guerriera che vantava fra i suoi antenati Gautama, veggente dell'epoca vedica. Il padre è il re Suddhodana, la madre la regina Maya; a una settimana dal parto Maya muore e il principino viene lasciato alle cure della zia materna Mahaprajapati. 550 a.C. Vengono celebrate le nozze del principe sedicenne con la cugina Yashodhara (sembra tuttavia che successivamente egli abbia avuto anche un'altra moglie di nome Gopa). 537 a.C. A 29 anni abbandona la reggia di Kapilavastu e rinuncia alle ricchezze per dedicarsi alla vita ascetica. 536 523 a.C. Segue alcuni guru del suo tempo. A Vaisali (pali: Vesali; odierna Besarh) diviene discepolo di Arada Kalama (pali: Alara Kalama) che lo istruisce sulla "sfera del nulla". Insoddisfatto dei risultati, si trasferisce nel Magadha, regione nord orientale dell'india. Qui, nei pressi del Gange, diviene discepolo di Udraka Ramaputra (pali: Uddaka Ramaputta), assieme ad altri cinque discepoli detti Bhadravargiya ("Membri della banda fortunata"). In seguito Siddhartha abbandona anche questo guru e diviene un libero anacoreta della giungla. Affiancato dai cinque compagni, si dedica a pratiche penitenziali di mortificazione e di digiuno. 523 a.C. Dopo aver abbandonato la via della mortificazione ed essere stato, per questo motivo, respinto dai cinque compagni, siede in meditazione sotto l'albero pipal (Ficus religiosa) e medita per sette giorni. Alla fine, nella notte del plenilunio dell'8 dicembre secondo la tradizione conquista l'illuminazione e diviene un Buddha. 522 a.C. Recatosi a Benares, città sacra sita in riva al Gange, ritrova i cinque compagni e predica loro il cosiddetto Sermone di Benares, che contiene la prima esposizione della Legge buddhista. Nello stesso anno Bimbisara, re del Magadha, mecenate e amico personale del Buddha, gli fa dono della Foresta di Bambù, favorendo così la diffusione del suo insegnamento. 522 a.C. e post Per una quarantina di anni il Buddha si dedica alla vita della Comunità e a un fecondo proselitismo: converte laici, asceti erranti, briganti, giovani brahmani e ricche cortigiane. 507 a.C. Si sceglie come servitore il fedele Ananda: divenuto eminente discepolo, quest'ultimo ricordava a memoria tutti i grandi discorsi del Buddha e li recitò nel primo concilio di Rajagrha. 486 a.C. (o una data Intermedia fra il 477 e il 486) Il Buddha entra nel Parinirvana: il suo corpo viene cremato e le reliquie vengono divise fra la Comunità. I La nascita del Bodhisatta e la profezia di Asita [Gli episodi salienti dell'infanzia e della giovinezza del futuro Buddha vengono narrati dallo stesso illuminato che rivela ai suoi discepoli la storia di Vipassi, il primo dei mitici Buddha che lo avevano preceduto, nel corso di interminabili evi cosmici, sulla strada dell'illuminazione. Bodhisattva (pali: bodhisatta) è secondo il buddhismo canonico l'essere spirituale destinato a ottenere la bodhi (l'illuminazione), dopo una serie infinita di incarnazioni.] In quel tempo, dopo aver lasciato il Cielo delle Delizie (Tushita) entrò il Bodhisatta Vipassi nel grembo di sua madre: perfetta era in lui la memoria delle sue vite precedenti, perfetta la coscienza. Regola immutabile è che, quando il Bodhisatta lascia il cielo delle Delizie per entrare nel grembo di sua madre, l'universo intero il mondo degli dei, di Mara, di Brahma, e il mondo degli asceti, dei brahmani, dei re e delle genti che sono sulla terra sia pervaso da un bagliore di luce di potenza infinita, superiore alla luce del mondo divino; pieni dello splendore infinito di questa luce sono allora anche gli immensi spazi che separano fra loro gli universi, quei mondi oscurati dal male e immersi nelle tenebre, quei mondi che il sole e la luna non possono illuminare pur con tutto il loro chiarore. E gli esseri che abitano questi regni delle tenebre si trovano mirabilmente rischiarati dallo splendore infinito; possono allora guardarsi e dirsi, riconoscendosi l'un l'altro: "Certo, anche altri esseri sono nati qui". Tremano, ondeggiano e risuonano i diecimila mondi dell'universo. Regola immutabile è che, quando il Bodhisatta entra nel grembo di sua madre, quattro figli di dei raggiungano le quattro regioni dello spazio cosmico per proteggere il bambino; essi dicono allora: "Nessun essere, umano o non umano, nessun essere faccia del male al Bodhisatta o alla madre del Bodhisatta". Regola immutabile è che, quando il Bodhisatta entra nel grembo di sua madre, sua madre possieda per natura la virtù e manifesti il suo sdegno per tutto ciò che è omicidio, furto, menzogna e intemperanza. Regola immutabile è che, quando il Bodhisatta entra nel grembo di sua madre, la madre sia lontana da ogni desiderio di abbandonarsi ai piaceri dei sensi e respinga, anzi, ogni assalto e ogni insidia di uomini; quando il Bodhisatta entra nel suo grembo, solo allora la madre prova piacere nei suoi cinque sensi, e di questo piacere è colma e risollevata nel profondo del suo spirito. Regola immutabile è che, quando il Bodhisatta entra nel grembo di sua madre, nessun male venga a turbare la madre, integra nella sua salute e immune da qualsiasi dolore; vede la madre nel suo grembo gli organi e le membra del Bodhisatta in tutta la loro perfezione; distingue la madre infallibilmente ogni forma del Perfetto che porta in grembo, proprio come un uomo dalla vista acuta scorgerebbe un filo azzurro, rosso, giallo o bianco infilato in una pietra preziosa purissima, a otto facce, tagliata da mano di maestro, limpida e senza difetti, perfetta in tutti i suoi aspetti. Ecco un'altra delle regole immutabili: sette giorni dopo la nascita di un Bodhisatta, la madre del Bodhisatta muore, per rinascere nel cielo delle Delizie; questa è una regola immutabile. E regole immutabili sono anche queste: mentre le altre donne danno alla luce il loro figlio dopo averlo portato in grembo per nove o dieci mesi, la madre di un Bodhisatta partorisce soltanto dopo dieci mesi: e se le altre donne partoriscono sedute o sdraiate, la madre di un Bodhisatta partorisce soltanto stando in piedi. Quando poi un Bodhisatta esce dal grembo di sua madre, sono gli dei ad accoglierlo prima degli uomini: anche questo è regola immutabile; e quando il Bodhisatta esce dal grembo di sua madre, prima che i suoi piedi possano toccare la terra, quattro figli di dei lo accolgono e lo presentano a sua madre dicendo: "Gioisci, donna, perché dotato di potenza è il figlio che ti è nato". Regola immutabile è che il Bodhisatta, quando esce dal grembo di sua madre, venga al mondo senza macchia, mondato da ogni sozzura di liquido, di muco e di sangue, immacolato e puro come una pietra preziosa posta su una stoffa di Benares: il tessuto non fa sbiadire la pietra, né la pietra sporca la stoffa, perché la pietra e la stoffa sono due realtà pure; e così avviene al momento in cui si compie la nascita di un Bodhisatta. Quando il Bodhisatta esce dal grembo della madre, scendono dal cielo due cascate d'acqua, calda l'una e fredda l'altra, come lavacri per il bambino e per la madre; e, quando il Bodhisatta è ormai nato, si alza subito in piedi e fa sette passi verso Nord: un baldacchino bianco sta sopra la sua testa e il bambino, guardando intorno a sé in direzione dei quattro punti cardinali, grida con voce di toro: "Io sono il signore del mondo; sono io l'essere più anziano che vi sia al mondo, io sono il primo. Questa delle mie nascite è l'ultima, e non ci sarà più per me una nuova esistenza". Nato che fu il piccolo Vipassi, il re Bandhuma, suo padre, fu informato in questi termini: "Ti è nato un figlio, Signore: Vuoi vederlo?". Visto il bambino, il re Bandhuma fece chiamare i brahmani e disse loro: "Esaminate il bambino, brahmani, voi che siete esperti di cose divine!". Esaminarono il neonato, i brahmani, e subito dissero al re: "Gioisci, Signore: grande fortuna è per te la nascita di questo bambino nella tua famiglia; questo bambino porta infatti i trentadue segni caratteristici [lakshana] di un grande uomo. E di fronte a chi di questi segni è dotato si aprono due vie, che escludono tutte le altre: se egli rimane nella sua casa, sarà un Signore della Ruota [cakravartin] un re giusto e virtuoso, signore dei quattro punti dell'orizzonte, che riuscirà a estendere il SUO dominio a tutte le campagne e possiederà egli i sette tesori. Ecco allora i sette tesori che egli possiede: il tesoro della ruota, il tesoro dell'elefante, il tesoro del cavallo, il tesoro della pietra preziosa, il tesoro della donna, il tesoro del maggiordomo e il tesoro del consigliere; in tutto, dunque, sette tesori. Più di mille eroi saranno i suoi figli, trionfatori di armate nemiche. Sottometterà questo mondo e l'oceano che lo circonda e reggerà le sue terre non con la spada e con l'oppressione, ma con la giustizia. Se, invece, questo bambino lascia la sua casa e abbraccia la vita errante degli asceti, allora egli diverrà Santo, un Buddha perfetto e compiuto, libero dai legami del mondo. "Quali sono dunque questi trentadue segni caratteristici di un grande uomo, i segni dei quali è dotato anche questo bambino, i segni che gli aprono due sole vie, quella di Signore della Ruota e quella di Buddha perfetto e compiuto? "Questo bambino ha la pianta dei piedi ben fatta; sotto la pianta di entrambi i piedi del bambino, poi, è tracciata una ruota dai mille raggi, perfetta nel suo cerchio e nel SUO mozzo. I suoi talloni sono ben formati, lunghe sono le dita delle mani e quelle dei piedi. Morbide e vellutate le sue mani, e così anche i suoi piedi; tonde come conchiglie le sue caviglie, come quelle di un'antilope le sue gambe. Può il fanciullo, quando sta in piedi, toccare le ginocchia con le mani senza dover piegare il corpo, e interamente coperto dalla guaina è il suo pene; vigoroso come il bronzo, baciato da un colorito d'oro, alla sua pelle tanto levigata e delicata impuro pulviscolo non può attaccarsi. I suoi peli sono separati e nascono ciascuno da un SUO poro; hanno la punta arricciata e sono tutti del colore blu scuro del collirio, con il ricciolo rivolto verso destra. Il fanciullo ha un portamento divino e dalla sua fronte sporgono sette protuberanze: simile a quello di un leone è il suo profilo, e non ci sono solchi fra le sue spalle; proporzionato come un fico baniano è il suo corpo, uguale alla lunghezza del suo corpo è l'apertura delle sue braccia. Armoniosamente arrotondato il suo busto, e sviluppato il senso del gusto; mascella di leone, Con quaranta denti, tutti regolari e perfetti; lunga la lingua; divina è la sua voce, simile al canto dell'uccello karavika. Di un blu intenso sono i suoi occhi e di giovenca le ciglia; tra le sopracciglia, poi, Spunta un ciuffo di peli bianchi vellutati. E il suo capo è simile a un turbante di re. Tutto ciò è segno di un Grande uomo [Mahapurusa] ". Allora il re fece dare ai brahmani degli abiti nuovi e diede soddisfazione a tutti i loro desideri. E al piccolo Vipassi il re diede delle nutrici, alcune che lo allattassero, altre che si prendessero cura di lui, e altre ancora incaricate di portarlo sulla loro anca; un baldacchino bianco stava sopra di lui notte e giorno, secondo gli ordini ricevuti: non doveva essere turbato, il fanciullo, dal caldo e dal freddo, o da polvere e rugiada. E subito ben amato dal Suo popolo fu il piccolo Vipassi; per tutti egli divenne il preferito, come il loto azzurro, bianco o rosso, che tutti amano e apprezzano. E così passava il piccolo dall'anca dell'una all'anca dell'altra, e tutti con sé volevano averlo. E aveva il piccolo Vipassi, quando nacque, una voce adorabile, chiara, armoniosa e affascinante, in tutto simile al canto dell'uccello karavika dell'Himalaya. Vista penetrante era a lui quando nacque, capacità di cogliere nitide le forme fino a una lega di distanza, giorno e notte: conseguenza era, questa, delle buone azioni compiute al tempo delle sue esistenze anteriori. Prevedere il futuro poteva il fanciullo, alla nascita, proprio come fanno i Deva nel Cielo delle Delizie; e come un veggente tutto il popolo prese a venerarlo, e proprio per questo gli diedero questo nome: Vipassi, ovvero "buon veggente". Quando, poi, il re Bandhuma sedeva in tribunale, teneva il bambino sulle ginocchia, a lui comunicando la legge che al caso trattato poteva applicarsi; finché il fanciullo, sempre seduto sulle ginocchia del padre, ed immerso in riflessione, pronunciava con la sua bocca una sentenza conforme a giustizia: ciò accrebbe ancor più la sua fama di veggente e lo confermò nel nome che gli era stato dato. Poi fece costruire il re Bandhuma tre palazzi per Vipassi: un palazzo per la stagione delle piogge, uno per l'inverno, e il terzo per l'estate; tre palazzi forniti di tutto ciò che poteva deliziare i cinque sensi. E nel palazzo a questa stagione destinato trascorreva Vipassi la stagione delle piogge servito da donne esperte nella musica; e mai scendeva a terra dall'alto del suo palazzo. (Digha Nikaya, XIV, 1 sez. 17 29; 31 38) ASITA: IL SIMEONE DEL BUDDHISMO [Di fronte a questo episodio è ovvio pensare a quanto narrato dal Vangelo secondo Luca, (2, 25-36), anche se, di fatto, la divergenza di atteggiamento fra Simeone e Asita è sostanziale: il primo si dice felice per il fatto di avere visto la nascita del salvatore nella sua vecchiaia e felice dichiara di poter prendere congedo dalla vita, mentre il secondo si abbandona all'afflizione per il fatto che la sua età ormai tarda non gli permetterà di ascoltare il messaggio che quel bambino, una volta adulto, potrà rivelare. Gli Sakya sono la dinastia guerriera dalla quale è nato Siddhartha.] Il veggente Asita contemplò con i suoi occhi un gruppo di Deva del mondo vicino che, risollevati nel profondo del cuore, manifestavano la loro gioia e la loro felicità; i Deva dalle vesti scintillanti, poi, agitavano i loro mantelli e lodavano senza sosta il loro re. Al vedere questo spettacolo chiese il veggente: "Perché i Deva sono così felici? Perché agitate i vostri mantelli? Un tale entusiasmo non si vide nemmeno il giorno della battaglia che decise la sconfitta degli Asura e la vittoria dei Deva. Quale prodigio, allora, hanno visto i Deva per essere così felici? Lanciano grida di gioia e cantano; suonano, agitano le braccia e danzano; vi supplico, abitanti delle cime del Meru: dissipate in fretta i miei dubbi". "Nella città degli Sakya, nel parco di Lumbini, è venuto al mondo il Bodhisatta, la perla mirabile, l'incomparabile; egli viene per il bene e per la felicità degli uomini, e per questo noi siamo così felici e gioiosi. Colui che è la più eccelsa di tutte le creature, l'uomo superiore [Mahapurusa], il primo degli uomini, il più grande di tutti gli esseri, farà girare la Ruota del Dhamma nel bosco dei Veggenti, lui che ruggisce come un leone, il poderoso re degli animali". All'udire queste parole l'eremita Asita scese rapidamente dal cielo e si recò al palazzo di Suddhodana, dove si sedette al cospetto degli Sakya e domandò loro: "Dov'è il principe? Anch'io desidero vederlo". Allora gli Sakya mostrarono ad Asita il bambino, il loro principe, splendente come l'oro fuso nel crogiolo da un valente artigiano, mirabile nella sua gloria e nella sua bellezza incomparabile. Quando vide il principe splendente come una fiamma viva e come le stelle del firmamento, come il sole d'autunno quando è limpido e non offuscato da nubi, Asita si abbandonò alla gioia e fu rapito in estasi. I Deva del cielo tenevano sospeso nello spazio etereo che divide il cielo dalla terra un baldacchino, sontuoso nel dedalo di una miriade di stoffe e drappeggi, e agitavano code di yak impugnandole con manici d'oro; ma i Deva che sostenevano il baldacchino e agitavano le code di yak erano visibili solo all'asceta. Al colmo della felicità l'eremita Asita, chiamato la Gloria Nera, che portava i capelli a trecce, accolse quel bambino simile a una pietra preziosa scintillante su una stoffa color arancio, maestoso sotto il baldacchino innalzato in suo onore; esperto nell'interpretazione dei segni e dei presagi, Asita fece allora risuonare la sua voce gioiosa per salutare come si conviene il capo degli Sakya: "Ecco l'Incomparabile, il Capo di tutti gli esseri umani". Ma poi, ricordandosi della sua età ormai avanzata, cadde in uno stato di profonda tristezza e si mise a piangere. Di fronte alle sue lacrime, gli Sakya chiesero ad Asita: "Forse che il bambino corre qualche pericolo?". Per tranquillizzare gli Sakya l'eremita rispose: "Non prevedo nulla di funesto per il bambino, e non c'è alcun pericolo per lui, perché non è un essere inferiore: non è, infatti, di casta inferiore; non abbiate allora alcun timore. "Questo principe raggiungerà il grado più alto dell'Illuminazione perfetta e farà girare la Ruota del Dhamma; lui che possiede lo sguardo puro, e vede ciò che per gli uomini è bene, diffonderà lontano la Via Santa. "Ma la mia vita volge ormai alla fine, e la morte mi coglierà mentre il bambino sorriderà alla vita; io non ascolterò il Dhamma dell'Incomparabile: ecco perché sono così triste". Dopo aver riempito di gioia gli Sakya egli lasciò il palazzo per andare a riprendere la sua vita religiosa. Poi, in uno slancio di benevolenza, invitò Nalaka, il figlio di sua sorella, ad abbracciare la vita religiosa sotto la direzione dell'Incomparabile: "Quando sentirai parlare del Buddha, di colui che ha raggiunto l'illuminazione perfetta e cammina nella via del Dhamma, segui subito le sue istruzioni e incomincia la tua vita santa sotto la direzione del Beato". E Nalaka, seguendo il consiglio amichevole di colui che vedeva nel futuro il manifestarsi di ciò che è perfettamente puro, incominciò ad accumulare dei meriti e a difendersi dalle passioni, nell'attesa del Vittorioso. Quando venne il momento predetto da Asita, quando Nalaka venne a sapere che il Vittorioso stava per fare girare la Ruota della Legge, gli si fece incontro al Santo dei Santi, si convertì e gli chiese, al grande Saggio, di insegnargli la strada della saggezza suprema. (Mahavagga, 679-697) II I tre incontri [Parlando di Vipassi, il Buddha storico parla ancora di sé e della sua giovinezza: di come, cresciuto nel lusso della corte, a 29 anni scopre la realtà dell'esistere. Accompagnato dal fedele auriga Channa e dal Suo cavallo Kanthaka, il principe Siddhartha esce per tre volte dalla reggia e per tre volte ne torna addolorato, dopo aver incontrato sul Suo cammino un vecchio, un malato e un morto.] E in seguito, passati tanti, tanti giorni, ordinò il giovane signore Vipassi al suo cocchiere di preparare le carrozze da cerimonia: "Prepara le carrozze, buon cocchiere, e andiamo a passeggiare nel parco". "Sì, signore", rispose il cocchiere, e andò ad aggiogare le carrozze, ritornando poi ad avvertire il suo signore: "Pronte sono le carrozze, mio signore; ai tuoi ordini". E con la carrozza da cerimonia si recò Vipassi al parco. Lungo il cammino ebbe il giovane signore ad incontrare un uomo molto anziano, curvo come la trave di un tetto, decrepito, sostenuto dal suo bastone, barcollante sotto il peso degli anni, triste per la giovinezza perduta. Non appena lo vide, disse Vipassi: "Cosa mai ha fatto, mio buon cocchiere, quest'uomo, perché i suoi capelli e il Suo corpo non assomigliano ai capelli e al corpo degli altri uomini?". "Signore mio, è quest'uomo ciò che si chiama un vecchio". "Ma perché lo si chiama vecchio?". "Lo si chiama vecchio, mio signore, perché non gli resta molto tempo da vivere". "Ma allora, mio buon cocchiere, vado forse anch'io incontro alla vecchiaia? Forse che io non sono fuori dalla portata della vecchiaia?". "Tu, signore, sei in questo uguale a me: io e te siamo minacciati dalla vecchiaia, e fuori dalla sua portata non siamo". "Bene, mio cocchiere; per oggi sono soddisfatto del parco: riconducimi dunque al palazzo". "Sì, signore", rispose il cocchiere, e lo riportò a palazzo. Rientrato nei Suoi appartamenti, preso da preoccupazione e tristezza, ebbe Vipassi a pensare: "Ignominia è allora l'essere soggetto alla nascita, se la vecchiaia in questo modo incombe su chi è nato". A questo punto il re fece chiamare il cocchiere e gli chiese: "Si è divertito il giovane con la passeggiata nel parco? E' tornato contento?". "No Signore, non è per nulla contento". "Cosa ha visto, allora, mentre passeggiava?". E raccontò il cocchiere al re Bandhuma tutto ciò che era accaduto. Pensò allora il re fra sé: "Non è bene che Vipassi rifiuti il dono del potere; non è bene che egli lasci la casa per seguire la vita errante degli asceti: no, no, non deve compiersi la profezia dei brahmani esperti di cose divine". E per evitare questo pericolo, adottò il re ogni misura affinché il giovane fosse ancora trattenuto in mezzo al piacere dei sensi; e tra i piaceri dei sensi continuò il giovane a vivere. Eppure, trascorso molto, molto tempo, ordinò ancora il giovane signore al suo cocchiere di preparare le carrozze, e di nuovo uscì dal palazzo. Lungo il cammino si imbatté Vipassi in un uomo colpito dalla malattia, debole e prostrato, che giaceva sui suoi escrementi, bisognoso dell'aiuto degli altri per muoversi e nutrirsi; lo vide Vipassi, e chiese: "Cosa ha fatto, mio buon cocchiere, quest'uomo? I suoi occhi non assomigliano a quelli degli altri uomini, e diversa da quella degli altri è la sua voce". "Quest'uomo, mio signore, è un malato". "Ma che significa essere malato?" "Un malato, signore, è un uomo che difficilmente riacquisterà la sua salute". "Ma io, mio buon cocchiere? posso anch'io cadere vittima della malattia? Forse non è vero che la malattia non ha alcun potere su di me?". "Tutti noi, mio signore, io come te, siamo esposti alla malattia, e nessuno è immune dalla malattia". "Va bene, mio cocchiere, per oggi sono soddisfatto del parco: riconducimi dunque al palazzo". "Sì, signore", rispose il cocchiere, e lo riportò a palazzo. Rientrato nei suoi appartamenti in preda allo sconforto e alla tristezza, ebbe a pensare Vipassi: "Vera ignominia è dunque l'essere soggetto alla nascita, se in questo modo incombe su chi è nato la malattia". A questo punto il re fece chiamare il cocchiere e gli chiese: "Si è divertito il giovane a passeggiare nel parco? È tornato contento?". "No, signore, non è per nulla contento". "E allora, dimmi: cosa ha visto il giovane mentre passeggiava?" Riferì il cocchiere al re tutto ciò che era accaduto, e il re pensò fra sé: "Non è bene che Vipassi rifiuti il dono del potere; non è bene che egli lasci la sua casa per condurre la vita errante degli asceti; no, no, non deve compiersi la profezia dei brahmani esperti di cose divine". E per evitare questo pericolo, adottò il re ogni misura perché il giovane fosse ancora trattenuto in mezzo ai piaceri dei sensi; e tra i piaceri dei sensi il giovane continuò a vivere. Eppure, passato molto, molto tempo, il giovane ebbe di nuovo a uscire in carrozza, e lungo il cammino, fu attratto il suo sguardo da una moltitudine di persone dagli abiti variopinti, che si davano un gran da fare per innalzare una pira funeraria; attratto da quello spettacolo, il giovane interrogò il cocchiere: "Perché tutta questa gente dagli abiti variopinti è qui riunita per innalzare una pira?". "Ciò avviene, mio signore, perché qualcuno ha terminato i suoi giorni". "Portami allora vicino all'uomo che ha terminato i suoi giorni!" "Sì, signore", rispose il cocchiere, e fece come gli era stato ordinato; vide allora Vipassi il cadavere di colui che aveva terminato i suoi giorni, e chiese: "Cosa significa, buon cocchiere, terminare i propri giorni?". "Ciò significa, mio signore, che sua madre, suo padre, e tutti gli altri parenti, più non vedranno colui che ha terminato i suoi giorni, ed egli più non li vedrà". "Ma allora, sono anch'io soggetto alla morte? Non è vero che io ne sono immune? Il re, sua moglie e gli altri parenti più non mi vedranno, e io più non li vedrò?". "Tu, signore, sei soggetto alla morte, come lo sono io: il re e sua moglie più non ti vedranno, e tu più non vedrai loro". "Bene, buon cocchiere, per oggi sono soddisfatto del parco: riconducimi dunque al palazzo". "Sì, signore", rispose il cocchiere, e lo riportò a palazzo. Rientrato nei suoi appartamenti, cadde Vipassi in preda allo sconforto e alla tristezza, e si diede a pensare: "Davvero l'essere soggetti alla nascita è ignominia, se vecchiaia, malattia e morte così mostrano a Chi è nato il loro molto terribile". Ma il padre Bandhuma, informato dell'accaduto, si preoccupò ancora una volta di adottare ogni misura perché il figlio continuasse a vivere circondato da tutto ciò che poteva deliziare i cinque sensi; e tra i piaceri dei sensi visse Vipassi ancora a lungo. (Digha Nikaya, XIV, 2 sez. 1 133) LA MEMORIA DI SIDDHARTHA Teneramente coccolato ero io, con delicatezza infinita si accostavano a me; crearono per me nella casa di mio padre stagni coperti l'uno di loto azzurro, di loto bianco l'altro e di loto rosso il terzo, e tutte le piante di loto a me davano fiori. Solo preziosi unguenti di Benares si usavano per me, e da Benares venivano i miei tre abiti; giorno e notte un ombrello stava aperto sopra di me per proteggermi da freddo, calore, polvere e rugiada. Tre palazzi erano per me residenza: uno per l'estate, uno per l'inverno e uno per la stagione delle piogge. Nel palazzo della stagione delle piogge passavo i quattro mesi delle piogge, circondato da donne esperte nella musica, e da lì non uscivo; e se altrove servitori e schiavi non avevano che un piatto di riso rosso e un po' di zuppa di cui sostentarsi, nella casa di mio padre si dava loro non solo riso e minestra, ma anche della carne. Godevo sempre di tutte queste ricchezze, e vivevo circondato da queste cure amorose, quando nel mio cuore si insinuò con forza questo pensiero: in verità, l'uomo insensato che vive attaccato a questo mondo è soggetto alla vecchiaia, senza che alla vecchiaia possa sfuggire, prova fastidio, disgusto e avversione, quando di fronte a lui sta un altro uomo che alla vecchiaia è già arrivato; e alla vecchiaia anch'io sono soggetto, e non posso sfuggirvi. Ora, se io, che alla vecchiaia sono soggetto e non posso sfuggirvi, provassi fastidio, avversione e disgusto alla vista di un altro uomo per il quale la vecchiaia già è arrivata, tutto ciò non sarebbe giusto: e questo pensiero fece svanire in me tutto l'orgoglio della giovinezza. Eppure l'uomo insensato, attaccato a questo mondo, pur essendo egli stesso soggetto alla malattia, prova fastidio, avversione e disgusto quando vede un altro uomo che dalla malattia è colpito; e alla malattia anch'io sono soggetto e non posso sfuggirvi. Ora, se io, che alla malattia sono soggetto e non posso sfuggirvi, provassi fastidio, avversione e disgusto alla vista di un uomo in cui la malattia manifesta il suo volto, tutto ciò proprio non sarebbe giusto. E questo pensiero bastò a spegnere in me tutto l'orgoglio della mia salute. Eppure l'uomo insensato, attaccato a questo mondo, che vive sotto la minaccia incombente della morte, e alla morte non può sfuggire, prova fastidio, avversione e disgusto quando vede un altro uomo che giace ormai morto. E alla morte anch'io sono soggetto, e non posso sfuggirvi. E se io, che alla morte sono soggetto e non posso sfuggirvi, provassi fastidio, avversione e disgusto alla vista di un mio simile che giace ormai morto, tutto ciò non sarebbe certamente cosa giusta. E questo pensiero estinse in me tutto l'orgoglio dell'essere vivo. (Anguttara .Nikaya 1, 125) LA SCELTA RADICALE [Dopo le tre uscite, il principe Siddhartha decide di abbandonare la reggia in piena notte, in groppa a Kanthaka e insieme con Channa. Il primo incontro è con un asceta errante. Era il segno del destino: Siddhartha dà al suo servitore i propri gioielli e recide la lunga chioma per abbracciare la vita da anacoreta.] Ma ancora capitò a Vipassi di uscire dal suo palazzo: ecco allora davanti ai suoi occhi un uomo dal capo rasato, un asceta coperto da una tunica gialla. A quella vista Vipassi interrogò ancora il cocchiere: "E quest'uomo, buon cocchiere, che ha fatto? Il suo capo non è simile a quello degli altri uomini, e così diverso è il suo abito". "Quest'uomo, mio signore, è ciò che si chiama un solitario, perché egli ha lasciato la sua casa". "E cosa significa lasciare la propria casa?". "Lasciare la propria casa, signore, significa consacrarsi alla vita religiosa, dedicandosi alle buone azioni e mostrando benevolenza verso tutte le creature, rendendo sempre meritoria la propria condotta". "Vero uomo superiore è, caro cocchiere, colui che si chiama un solitario, perché perfetta in ogni attimo è la sua condotta: conducimi allora da quest'uomo che ha lasciato la sua casa. "Si, signore", rispose il cocchiere, e lo condusse al cospetto dell'asceta: a lui si rivolse Vipassi e gli disse: "Perché dunque, maestro, non è simile il tuo capo a quello degli altri uomini, e così diverso e il tuo abito?". "Io sono, mio signore, un uomo che ha lasciato la sua casa". "E cosa significa questa espressione?" "Significa, signore, consacrarsi alla vita religiosa, di chi si dedica alle buone azioni, con condotta meritoria, senza far del male ad alcuno, a tutte le creature mostrando benevolenza". "Veramente uomo superiore sei tu che tutti chiamano un solitario, perché perfetta in ogni attimo è la tua condotta". Disse allora il signore Vipassi al suo cocchiere: "Vieni, buon cocchiere, riporta a palazzo il cavallo: io invece, vado subito a tagliarmi i capelli e a cercare una tunica gialla; lascio infatti la mia casa e mi dedico alla vita errante degli asceti". "Sì, signore" rispose il cocchiere, e si allontanò. E il principe Vipassi, tagliati subito i capelli e indossata la tunica gialla, si allontanò dalla sua casa per abbracciare la vita errante degli asceti. E subito a Kapilavattu, nella città del re, un gran numero di persone, all'incirca ottantaquattromila, non appena vennero a sapere ciò che aveva fatto il principe Vipassi, pensarono: "Non è certo la regola ordinaria, non è certo l'allontanamento abituale, che noi tutti conosciamo, ciò che ha spinto il principe a tagliarsi i capelli, a indossare la tunica gialla e a lasciare la sua casa per dedicarsi alla vita errante degli asceti. E perché non dovremmo fare anche noi quello che ha fatto il principe Vipassi?". Rasato il capo e indossata la veste gialla lasciarono allora le loro case per darsi alla vita religiosa, ad imitazione del Bodhisatta: e il Bodhisatta andò per città e villaggi da questa folla accompagnato. (Digha Nikaya, XIV, 2 sez. 13-16) [La sezione poetica del Suttanipata rievoca l'immagine del giovane Siddhartha ormai dedito alla Vita raminga degli asceti mendicanti. Bimbisara, re del Magadha, incontra per la prima volta il "monaco degli Sakya" (Sakyamuni) sulla via verso l'illuminazione. Lo ritroverà in seguito nella veste di buddha e aderirà alla sua dottrina.] Ricordiamo con venerazione il giorno in cui il Beato Bodhisatta partì dalla sua casa; e a fare altrettanto egli insegnò ai suoi discepoli: schiavitù è infatti la vita nella propria casa, origine di ogni impurità è il nostro focolare. Libertà è abbandonare la propria casa: così pensò il Beato quando partì dal suo palazzo. E con la sua partenza evitò egli le opere del peccato e astenendosi anche da ogni parola malvagia, raggiunse la sua vita il sommo grado della purezza. Giunse un giorno il Beato a Rajagaha [sanscrito Rajagrha, capitale del Magadha], fortezza costruita su un monte del Magadha. Nobile era la sua apparenza, ma egli viveva di elemosine; lo scorse il re Bimbisara dalla terrazza del suo palazzo; rimase colpito dal suo aspetto e disse: "Guardate quell'uomo, come è bello; maestoso e puro; padrone dei Suoi sensi, non dirige lontano il suo sguardo. A capo chino cammina ed è padrone di sé: certo non deve essere di bassa estrazione; vadano in fretta dei messaggeri e si informino, vedano da dove viene questo monaco, e quale sia la sua destinazione". Si misero sulle sue tracce quei messaggeri inviati in tutta fretta, e subito gli chiesero: "Dove vai, o monaco? E qual è la tua dimora?". Andando di casa in casa, con le porte dei sensi ben chiuse e ben sorvegliate, tranquillo e padrone di sé, riempì ben presto, il monaco, la ciotola dei doni; raccolse dunque le elemosine, il saggio, e subito lasciò la città per dirigersi a Pandava, dove andava a soggiornare. Lì lo seguirono i messaggeri, e uno di essi tornò dal suo re per annunciargli: "Come una grande tigre, signore, come un leone nella sua tana sui monti, si è stabilito il monaco sulla china orientale del monte Pandava". A questa notizia salì subito il re su un bel carro e si diresse alla volta del monte Pandava; quando poi la strada non fu più percorribile in carrozza, proseguì a piedi il suo cammino, finché non giunse al cospetto del Beato. Lo salutò cortesemente, si sedette al suo fianco e gli disse: "Giovane uomo nel fiore degli anni, così bello è il tuo aspetto, come quello dei più nobili della mia stirpe: a te, che certamente sei capo di una schiera di eroi, donerò io la mia ricchezza; accettala e fammi conoscere quale è la tua stirpe". "Alle pendici dell'Himalaya, o re, a Kosala, vive il popolo degli Sakya, ricchi e prodi, discendenti del sole: a questa famiglia io appartengo, e l'ho lasciata, dopo aver rinunciato ai piaceri dei sensi. Scorgendo il pericolo insito nei piaceri dei sensi, nella vita religiosa ho visto la salvezza: questa lotta continuerò, nella quale il mio spirito trova la sua soddisfazione". (Suttanipata, versi 405 424) COME SI CONCLUDE LA STORIA DI VIPASSI [L'ultima parte della biografia di Vipassi contiene il racconto della meditazione attraverso la quale il Buddha del passato sarebbe risalito alla visione del complesso tragico costituito da vecchiaia, malattia, morte e alla contemplazione della possibilità di portare la coscienza al di fuori della terribile catena di cause e di effetti che determinano l'esistenza stessa del cosmo e l'eterno perpetuarsi del dolore: siamo all'enunciazione della dottrina fondamentale del buddhismo. Viene esposta la "legge delle dodici cause", che spiega come ogni essere o fenomeno dell'esistenza, doloroso o gioioso, sia il risultato di una serie di cause concatenate, in sé impermanenti e caduche. Le dodici cause possono così tradursi: 1. avidya, ignoranza, 2. samskara (= karman), istinti, 3. vijnana, coscienza egoica, 4. nama rupa, nome e forma, individualità empirica, 5. sat ayatana, i sei sensi, 6. sparsa, contatto sensoriale, 7. vedana, sensazione, 5. trsna, sete, brama, 9. upadana, attaccamento, 10. bhava, esistenza, 11. jati, nuova nascita, 12. jara marana, nuova vita vecchiaia morte. Gli aggregati (skandha, pali khandha) rappresentano la caduca combinazione di elementi psico fisici che dà all'uomo l'erronea certezza di essere un io. Essi sono: 1. rupa, forma, 2. vedana, sensazione, 3. samjna, idee, discriminazione delle percezioni, 4. samskara, impulsi istintivi, 5. vijnana, coscienza.] Meditava allora tutto solo il Bodhisatta Vipassi, e questo fu il pensiero che gli sovvenne: "Davvero non conviene che io viva così in mezzo a questa folla che mi accompagna; meglio sarebbe vivere solo, lontano dalla moltitudine". E si ritirò subito nell'isolamento, solo, lontano dalla folla: una strada presero gli ottantaquattromila che lo accompagnavano, e un'altra strada prese il Bodhisatta. Arrivato che fu il Bodhisatta nel luogo che aveva scelto, prese subito a meditare, e questo fu il pensiero che lo colse: "Davvero questo mondo è precipitato in una condizione di grande miseria: nasce l'uomo, e invecchia e muore, scompare per poi rinascere di nuovo; e nessuno conosce il mezzo per sfuggire a questa sofferenza, e nessuno sa come sfuggire alla vecchiaia e alla morte. E, allora, è proprio vero che non c'è alcun modo di sfuggire a questa sofferenza, alla vecchiaia e alla morte?". Fu poi preso il Bodhisatta da questo pensiero: "Qual è la realtà che, con la sua stessa esistenza, provoca la vecchiaia e la morte? Ovvero, qual è la causa della vecchiaia e della morte?". Si concentrò il Bodhisatta su questo argomento e così concluse: "Poiché esiste la nascita esistono anche la morte e la vecchiaia". Pensò poi il Bodhisatta: "Qual è la realtà che, con la sua stessa esistenza, provoca la nascita? Ovvero, qual è la causa della nascita?". Si concentrò il Bodhisatta su questo argomento, e così concluse: " Poiché esiste l'essere, anche la nascita esiste". "E qual è la realtà che, con la sua stessa esistenza, determina l'essere?" "Poiché esiste l'attaccamento all'essere per ciò sussiste anche l'essere". "E qual è la realtà che, con la sua stessa esistenza, provoca l'attaccamento all'essere? Ovvero, qual è la causa dell'attaccamento all'essere?". "Esistendo il desiderio esiste anche l'attaccamento all'essere, perché causa dell'attaccamento è il desiderio". "Qual è allora la realtà che, con la sua stessa esistenza, fa sorgere il desiderio? Ovvero, qual è la causa del desiderio". "Poiché esiste la sensazione, può esistere anche il desiderio: causa del desiderio è la sensazione". "E qual è la realtà che, con la sua stessa esistenza, determina la sensazione? Ovvero, qual è la causa della sensazione?" "Esistendo il contatto, esiste anche la sensazione: causa della sensazione è il contatto". "Qual è allora la realtà che, con la sua stessa esistenza, rende possibile il contatto? Ovvero, qual è la causa del contatto?" "Poiché esistono le sei sfere sensorie esiste anche il contatto: causa del contatto sono le sei sfere delle qualità sensibili". "E qual è la realtà che, con la sua stessa esistenza, fa sì che esistano anche le sei sfere delle qualità sensibili? Ovvero, qual è la causa del manifestarsi delle qualità sensibili?" "Esistendo il nome e la forma, cioè le dimensioni dell'individuo, esistono anche le qualità sensibili: causa delle qualità sensibili sono nome e forma, elementi che costituiscono un individuo". "Qual è allora quella realtà che, con la sua sola esistenza, dà luogo all'esistenza di nome e forma? Ovvero, qual è la causa di nome e forma?" "Poiché esiste la conoscenza esistono anche nome e forma: causa di nome e forma è la conoscenza". "E qual è, in fine, la realtà che, con la sua stessa esistenza, determina l'esistenza della conoscenza? Ovvero, qual è la causa della conoscenza? "Esiste la conoscenza proprio in conseguenza dell'esistenza del nome e della forma: causa della conoscenza sono ancora nome e forma". Così riassunse allora il Bodhisatta i suoi pensieri: "La conoscenza che viene da nome e forma, cioè dagli elementi che costituiscono l'individuo, è il termine ultimo della concatenazione delle cause e degli effetti: impossibile è procedere oltre. Ed è proprio la successione di questi diversi stati che determina il nascere, l'invecchiare, il morire, e il rinascere: si nasce, si invecchia, si muore e si rinasce proprio perché la conoscenza ha come causa nome e forma e nome e forma hanno per causa la conoscenza; le sei sfere delle qualità sensibili hanno come causa nome e forma, e il contatto ha come causa le sei sfere delle qualità sensibili; la sensazione ha come causa il contatto e il desiderio ha come causa la sensazione; l'attaccamento all'essere ha come causa il desiderio, e l'essere ha come causa l'attaccamento all'essere; la nascita ha come causa l'essere, e vecchiaia e morte hanno come causa la nascita, che è causa anche delle pene, del dolore, dell'angoscia e della disperazione. E così si produce e si perpetua tutto intero il complesso del dolore". "Nascita, Origine, Produzione!" Questo fu il pensiero che diede al Bodhisatta Vipassi la visione chiarissima delle leggi che prima gli erano ignote: acquisì allora l'intelligenza, acquisì allora la vera conoscenza e la saggezza, e la luce gli apparve. Si concentrò poi il Bodhisatta in questo pensiero: "Qual è la realtà che, al momento in cui non esiste, fa sì che non esistano nemmeno la vecchiaia e la morte? Qual è la realtà il cui annientamento porta con sé l'annientamento di vecchiaia e morte?". Meditò allora su questo argomento e concluse: "Senza nascita non vi sono vecchiaia e morte: annientata la nascita, vecchiaia e morte svaniscono" "Senza essere non si ha nascita: annientato l'essere svanisce la nascita". "Senza attaccamento non si ha essere: annientato l'attaccamento, l'essere svanisce". "Senza desiderio non c'è attaccamento: annientato il desiderio svanisce l'attaccamento". "Senza sensazione non si ha desiderio: annientata la sensazione, il desiderio svanisce". "Senza contatto non si ha sensazione: annientato il contatto, la sensazione svanisce". "Senza le sei sfere non si ha contatto: annientate le sei sfere, il contatto svanisce". "Senza nome e forma non si hanno le sei sfere: annientati nome e forma, le sei sfere svaniscono". "Senza conoscenza non si hanno nome e forma: annientata la conoscenza, nome e forma svaniscono". "Senza nome e forma non si ha conoscenza: annientati nome e forma, la conoscenza svanisce". Prese poi a pensare il Bodhisatta Vipassi: "Sono allora giunto all'illuminazione e posso contemplare come dall'annientamento di nome e forma scaturisca l'annientamento della conoscenza e viceversa, e come dall'annientamento di nome e forma scaturisca l'annientamento delle sei sfere delle qualità sensibili; posso poi vedere come l'annientamento delle sei sfere porti con sé l'annientamento del contatto, e come l'annientamento del contatto porti con sé l'annientamento della sensazione; mi è poi chiaro come l'annientamento della sensazione conduca all'annientamento del desiderio, e come l'annientamento del desiderio conduca all'annientamento dell'attaccamento all'essere; e da ciò comprendo come attraverso l'annientamento dell'attaccamento si giunga all'annientamento dell'essere, e come attraverso l'annientamento dell'essere si giunga all'annientamento della nascita: e con l'annientamento della nascita, anche vecchiaia e morte più non esistono, e nulla sono le pene, il dolore, l'angoscia e la disperazione. E così svanisce il cumulo del dolore". "Annientamento, annientamento!" Questo fu il pensiero che diede al Bodhisatta Vipassi la visione chiarissima di quelle leggi che prima gli erano ignote; acquisì allora la l'intelligenza, la vera conoscenza e la saggezza, e la luce gli apparve. Concentrò poi il Bodhisatta il suo pensiero sulla distinzione fra l'apparire e il dileguarsi dei cinque aggregati [skandha] della vita dell'individuo, che determinano l'attaccamento alla vita: "Ecco la forma, ecco l'apparire della forma, ed ecco il dileguarsi della forma; ecco la sensazione, ecco l'apparire della sensazione, ed ecco il dileguarsi della sensazione; ecco l'idea, ecco l'apparire dell'idea, ed ecco il dileguarsi dell'idea; ecco i concetti, ecco l'apparire dei concetti, ed ecco il dileguarsi dei concetti; ecco la conoscenza, ecco l'apparire della conoscenza, ed ecco il dileguarsi della conoscenza". E così concentrato sperimentava la distinzione fra il momento dell'apparire dei cinque aggregati che portano all'attaccamento alla vita e il momento della loro estinzione: da questi aggregati non tardò a liberare il suo cuore, e si liberò così dalla corruzione del peccato. (Digha Nikaya, XIV, 2a sez. 13-23) III Gli anni della ricerca [Il giovane Siddhartha si vota alla meditazione seguendo alcuni maestri del tempo. Il primo maestro di saggezza è Alara Kalama, che introduce il giovane asceta al cammino verso "la sfera della non esistenza" o del nulla, realizzata attraverso la pratica dell'"adeguamento" (samapatti). Il successivo maestro è Uddaka Ramaputta, che educa Siddhartha a una disciplina fondata sul profondo raccoglimento, quasi alle soglie dell'estasi incosciente. In seguito, abbracciata la via dell'anacoretismo, il giovane asceta si sottomette a pratiche penitenziali di mortificazione che lo portano alle soglie della morte.] Prima di raggiungere l'illuminazione perfetta, o monaci, quando non ero ancora il Buddha, ma semplicemente un Bodhisatta, soggetto alla nascita, alla vecchiaia, alla malattia, alla morte, al dolore e alla corruzione del peccato, proprio su questi argomenti, nascita, vecchiaia, malattia, morte, dolore e corruzione del peccato, a lungo riflettevo, fino a quando, dopo molto tempo, mi trovai immerso in questo pensiero: "Qual è lo scopo di una così lunga ricerca? E se davvero, dalla contemplazione di questo cumulo di miserie, mi ponessi in animo di aspirare alla tranquillità incomparabile di un Nibbana [sanscrito: Nirvana], della condizione beata di chi si trovi spogliata dal peso della nascita, della vecchiaia, della malattia, della morte, del dolore e della corruzione del peccato?". Poco tempo dopo, o monaci, quando ancora ero giovane e i miei capelli erano quelli neri di un ragazzo, quando vivevo quegli anni vigorosi in cui la giovinezza cede il passo all'età matura, mi tagliai i capelli, contro la volontà dei genitori tagliai i miei capelli e, indossata la tunica gialla, lasciai il focolare domestico per condurre la vita errabonda dei religiosi. Tutto preso dunque dalla mia vita solitaria, impegnato nella ricerca di ciò che è sommo bene, della via senza eguale che mena dritto alla pace desiderabile, mi recai da Alara Kalama e gli dissi: "Fratello mio Kalama, cosa molto gradita sarebbe per me condurre vita religiosa seguendo il tuo Dhamma e la tua disciplina". Mi rispose allora, fratelli miei, Alara Kalama: "Resta qui con me, o principe. In poco tempo davvero un uomo intelligente può studiare, ben comprendere e fare SUO il Dhamma che io insegno". E poco tempo dopo mi trovavo già nella condizione di chi quel Dhamma aveva appreso. Ripetevamo, io e gli altri insieme a me, la dottrina della saggezza e la dottrina del maestro, e a gran voce proclamavamo: "Io so, io vedo". E subito questo pensiero si presentò al mio spirito: "Certo non la sola fede fa dire ad Alara Kalama di avere appreso questo Dhamma, e di averlo compreso e di possederlo; sicuramente Alara Kalama lo comprende per davvero, questo Dhamma". Mi recai allora, o monaci, laddove si trovava Alara Kalama, e così gli parlai: "A cosa conduce, Kalama fratello mio, questo Dhamma che tu dici di avere studiato, di avere compreso e di possedere?". Alla mia domanda rispose egli che alla sfera della non esistenza, li il suo Dhamma conduceva. E allora, o monaci, così mi venne da pensare: "Non è lui il solo, Alara Kalama, a possedere la fede, anch'io la posseggo. Non è il solo, Alara Kalama, a possedere il coraggio, la meditazione, la memoria, la saggezza; anch'io in ugual misura tutto ciò posseggo. Solo dovrei sforzarmi, ora, anche di ben comprenderlo, questo Dhamma che Alara Kalama dice di aver studiato, di aver compreso, e di possedere". In poco tempo, o monaci, lo studiai, questo Dhamma, lo compresi e ne divenni padrone. Mi recai allora dove si trovava Alara Kalama e gli dissi: "È dunque questo il Dhamma che tu dici di avere studiato, di avere compreso e di possedere?". "Proprio questo, fratello mio, è il Dhamma", rispose lui. "Anch'io, fratello Kalama, ho studiato questo Dhamma, l'ho compreso e lo possiedo". "Vera fortuna, fratello, vero onore è accogliere fra noi un vero asceta quale tu sei, o principe! Questo è il Dhamma che io ho insegnato, e questo stesso Dhamma tu hai studiato; come io lo ho insegnato, così tu lo hai appreso, e come lo conosco io, così anche tu lo conosci; come sono io, così sei anche tu, e come sei tu sono io: vieni con me, fratello, insieme istruiremo i miei discepoli". E così considerava Alara Kalama me, suo discepolo, come suo uguale, e con molto riguardo mi trattava. Fu questo allora, o monaci, il pensiero che mi impegnò: "Non conduce questo Dhamma al disgusto per il mondo, all'assenza di ogni passione, alla fine della trasmigrazione, all'imperturbabilità, alla saggezza superiore, all'intelligenza perfetta, insomma al Nibbana, ma soltanto al nulla". E poiché questo Dhamma non mi dava soddisfazione, mi allontanai subito da quel luogo. Proseguendo poi la mia ricerca di ciò che è buono e della via senza pari che conduce alla pace desiderabile, raggiunsi Uddaka Ramaputta, e gli dissi: "Cosa a me gradita sarebbe, fratello, condurre vita religiosa secondo il tuo Dhamma e secondo la tua disciplina". Mi rispose allora Uddaka: " Resta qui con me, o principe: in poco tempo può un uomo intelligente studiare, ben comprendere e possedere il Dhamma che io insegno". In poco tempo lo appresi, questo Dhamma, e ripetevamo, io e gli altri con me, la dottrina della saggezza e la dottrina del maestro, e a gran voce proclamavamo: "Io so, io vedo". Allora, o monaci, questo pensiero si presentò al mio spirito: "Non la sola fede fa dire ad Uddaka di avere studiato questo Dhamma, di averlo compreso, e di possederlo. Certo Uddaka questo Dhamma lo conosce e lo comprende veramente". Allora mi recai laddove si trovava Uddaka, e COSÌ gli parlai: "A cosa conduce, fratello, il Dhamma che tu dici di avere studiato, di avere compreso, e di possedere?". A questa domanda rispose Uddaka che a una sfera in cui non vi è né idea né assenza di idea, lì Conduceva il SUO Dhamma. E allora mi venne da pensare: "Non è il solo, Uddaka, a possedere la fede; anch'io la posseggo. Non è il solo, Uddaka, a possedere il coraggio, la memoria, la meditazione, la saggezza; anch'io in ugual misura tutto ciò posseggo: solo dovrei sforzarmi, ora, anche di ben comprenderlo, questo Dhamma che Uddaka dice di aver studiato, di aver compreso, e di possedere". E in poco tempo lo studiai, questo Dhamma, lo compresi e ne fui padrone; mi recai allora dove si trovava Uddaka, e gli dissi: "E' dunque questo, fratello, il Dhamma che tu dici di aver studiato, di aver compreso, e di possedere?" "Proprio questo, fratello, è il mio Dhamma", fu la sua risposta. "Anch'io, Uddaka, l'ho studiato, questo Dhamma, l'ho compreso, e ora lo posseggo". "Vera fortuna, fratello, vero onore è accogliere fra noi un grande asceta quale tu sei, o principe. Questo Dhamma io ho insegnato, e questo Dhamma tu hai appreso; come io l'ho insegnato, così tu lo hai studiato, e come lo conosco io, così anche tu lo conosci. Quale sono io tale tu sei, e come tu sei sono io: vieni allora con me, fratello, insieme istruiremo i miei discepoli". Come un suo uguale Uddaka considerava me, suo discepolo, e con Ogni riguardo mi trattava; fu questo allora, o monaci, il pensiero che si presentò al mio spirito: "Non conduce questo Dhamma al disgusto per il mondo, all'assenza di ogni passione, alla fine della trasmigrazione, all'imperturbabilità, alla saggezza superiore e all'intelligenza perfetta, insomma al Nibbana, ma soltanto a una sfera dove non vi è né idea né assenza di idea". Insufficiente ritenni allora quel Dhamma, e da quel luogo mi allontanai insoddisfatto. (Majjhima Nikaya, sutta XXVI) Spontaneamente si presentarono allora al mio spirito tre similitudini che fino a quel momento ignoravo: "Se si gettasse nell'acqua un pezzo di legno umido e un uomo prendesse poi un altro pezzo di legno per strofinarlo sul primo pensando: "Ecco, accenderò un fuoco e farò luce", è possibile secondo te, Agivessana, che quell'uomo veramente accenda un fuoco e faccia luce strofinando un pezzo di legno umido, impregnato di acqua?" Certamente no, Gotama. E perché no? Perché umido e impregnato d'acqua è quel pezzo di legno: vani saranno tutti gli sforzi di quell'uomo. Ebbene, Agivessana, lo stesso si può dire per certi asceti e brahmani che sono schiavi del proprio corpo, e il cui spirito non è libero dai desideri: in mezzo ai desideri essi vivono, di desideri si nutrono, e di desideri si inebriano, dai desideri sono alterati e, ancora, si consumano a motivo dei desideri che non possono estinguere. Pur sperimentando nei loro sensi la morsa di un dolore acuto, pungente e insopportabile, non possono, questi buoni asceti e brahmani, conquistare la salvezza e la sapienza, e arrivare al risveglio completo e incomparabile. E, similmente, anche qualora non sperimentino questi asceti nel loro corpo la morsa di un dolore acuto, pungente e insopportabile, ugualmente incapaci sono essi di conquistare la sapienza e la salvezza, e di arrivare al risveglio completo e incomparabile. Questa, Agivessana, è la prima similitudine, che prima ignoravo, e che in quel tempo si presentò chiara al mio pensiero. Ebbi poi a concepire la seconda delle similitudini che prima ignoravo: "Se si traesse un pezzo di legno umido fuori dall'acqua e lo si ponesse a terra, e un uomo arrivasse con un altro pezzo di legno per strofinarlo sul primo, pensando: "Accenderò un fuoco e farò luce", è possibile secondo te, Agivessana, che quest'uomo veramente accenda un fuoco e faccia luce?" Certamente no, o Gotama. E perché no? Perché è umido, quel pezzo di legno, e tutto impregnato d'acqua è stato depositato a terra: vani saranno tutti gli sforzi di quell'uomo. Ebbene, Agivessana, proprio la stessa cosa si può dire di certi asceti e brahmani, che hanno sì domato il loro corpo e i loro desideri, ma il cui spirito è nondimeno ancora oppresso dai desideri: in compagnia dei desideri essi vivono, di desideri si nutrono, sono alterati dai desideri, e si consumano sotto il peso dei desideri che non possono estinguere. Pur sperimentando nel loro corpo la morsa di un dolore acuto, pungente ed insopportabile, non possono possedere, questi buoni asceti e brahmani, la scienza e la saggezza, e non possono raggiungere il risveglio completo e incomparabile; e nemmeno senza vivere all'interno del loro corpo questa sensazione di dolore acuto, pungente ed insopportabile, possono questi buoni asceti e brahmani raggiungere la scienza e la saggezza, e pervenire al risveglio completo e incomparabile. Questa, o Agivessana, è la seconda delle similitudini che prima ignoravo, e che in quel tempo si presentarono chiare al mio pensiero. Ed ecco, o Agivessana, la terza delle similitudini che prima ignoravo; anch'essa si presentò allora al mio spirito: "Se si traesse dall'acqua un pezzo di legno, lo si depositasse a terra asciutto e pulito, e un uomo arrivasse con un altro pezzo di legno per strofinarlo sul primo, pensando: "Accenderò un fuoco e farò luce', credi possibile, o Agivessana, che quell'uomo possa veramente accendere un fuoco e fare luce, strofinando su un pezzo di legno depositato a terra pulito e asciutto? Certo che è possibile, o Gotama. E perché? Perché asciutto e pulito quel pezzo di legno è stato depositato a terra, dopo essere stato tratto fuori dall'acqua. Ebbene, Agivessana, lo stesso si può dire di certi asceti e brahmani che non sono più schiavi delle loro passioni e dei loro desideri, e il cui spirito si è sbarazzato di ogni desiderio: non vivono più in compagnia dei desideri, di desideri non si nutrono più, e dai desideri più non sono consumati né alterati, perché hanno finalmente raggiunto la tranquillità suprema. Sperimentando nel loro corpo la morsa di un dolore acuto, pungente ed insopportabile, possono questi buoni asceti e brahmani possedere la scienza e la saggezza, e raggiungere il risveglio completo e incomparabile; ma anche senza provare nel proprio corpo questa sensazione di dolore acuto, pungente ed insopportabile, possono ugualmente, questi buoni asceti e brahmani, raggiungere il possesso della scienza e della saggezza, e pervenire al risveglio completo e incomparabile. Questa è, Agivessana, la terza delle similitudini che prima ignoravo e che in quel tempo si presentarono con chiarezza al mio spirito. Pensai allora: "E se provassi ora a chiudere la bocca e a poggiare la lingua contro il palato per domare il mio pensiero, per annientarlo e divenirne padrone?" Mi colava il sudore dalle ascelle, Agivessana, mentre così, con la bocca chiusa e la lingua poggiata contro il palato, domavo il mio pensiero, e lo schiacciavo per divenirne padrone. Proprio come un uomo robusto se afferra un uomo più debole per il collo o dietro le spalle lo sottomette a sé, allo stesso modo, Agivessana, con la bocca chiusa e la lingua poggiata contro il palato, domavo io il mio pensiero, lo schiacciavo per divenirne padrone, finché il sudore colava dalle mie ascelle. Davvero, Agivessana, ci mettevo tutta la mia forza, mi concentravo completamente senza mai lasciarmi distrarre, ma per questi sforzi pietosi il mio corpo era agitato e turbato, e, in ogni caso, non potevano avere alcun potere sulla mia idea queste dolorose sensazioni che provavo. Ebbi poi a pensare: "E se mi immergessi completamente nella meditazione, senza respirare?". Smisi allora di inspirare e di espirare, sia con il naso che con la bocca, e l'arresto dell'inspirazione e dell'espirazione sia con il naso che con la bocca provocò la fuoruscita dell'aria attraverso le orecchie con un rimbombo straordinario, straordinario come il rumore di un mantice di fucina, o Agivessana. Veramente ci mettevo tutte le mie forze e mi concentravo senza mai lasciarmi distrarre, ma sempre agitato e turbato appariva, con tutti questi sforzi penosi, il mio corpo: non potevano proprio avere alcun effetto sulla mia idea le sensazioni dolorose che provavo. Pensai allora: "E se mi immergessi con impegno ancora maggiore nella meditazione, senza respirare del tutto?". Smisi allora di inspirare e di espirare, oltre che con il naso e con la bocca, anche con le orecchie; e in seguito all'arresto dell'inspirazione e dell'espirazione con il naso, con la bocca e con le orecchie, l'aria andò a investire violentemente la mia testa. Proprio come se un uomo si aprisse la testa con la punta acuminata di un pugnale, allo stesso modo, Agivessana, l'aria colpiva la mia testa mentre io mi impegnavo a sospendere del tutto l'attività di inspirazione e di espirazione. Ci mettevo veramente tutta la mia energia, e rimanevo sempre concentrato senza mai lasciarmi distrarre, ma agitato e turbato appariva il mio corpo in seguito a questi sforzi penosi. Ancora oltre si spinsero le mie pratiche ascetiche di mortificazione, ed ebbi via via a sperimentare i dolori più atroci, ... violenti dolori alla testa, come se un uomo robusto mi sferrasse diversi colpi al capo con un solido oggetto di pelle; ... coliche violente, come se un macellaio, già abile o apprendista, mi tagliasse lo stomaco con un coltello affilato; ... un calore fortissimo per tutto il corpo, come se due uomini robusti afferrassero per le braccia un uomo più debole e lo gettassero in una fossa piena di carboni ardenti. E allora, Agivessana, così disse un Deva quando mi vide ridotto in questo stato: "L'asceta Gotama è morto". Dissero poi altri Deva: "L'asceta Gotama non è morto, ma è moribondo". Dissero ancora altri Deva: "Non è morto l'asceta Gotama, e nemmeno è moribondo: egli ha infatti ottenuto lo stato di Arhat, di chi raggiunge la santità per mezzo della meditazione". Ritenendo allora giusto di spingermi ancora oltre, pensai: "E se mi astenessi completamente dal cibo?". Mi si accostarono allora i Deva, e mi dissero: "Non astenerti totalmente dal cibo, ora; perché se tu ora prendi ad astenerti completamente dal cibo, introdurremo noi degli alimenti celesti attraverso i pori della tua pelle, perché tu rimanga in vita". Allora io pensai: "Se volessi darmi al digiuno più rigoroso, i Deva introdurrebbero degli alimenti celesti nei pori della mia pelle, e io sarei così nutrito: menzogna sarebbe dunque il mio digiuno". Respinsi allora i Deva e dissi loro: "D'accordo, basta così!". Pensai in seguito: "E se prendessi via via sempre meno cibo, giusto la quantità di zuppa di fagioli, di lenticchie o di piselli che possa stare nelle mie mani unite a forma di ciotola?". E presi via via sempre meno cibo, una manciata di fagioli, di lenticchie o di piselli. E sempre più magro si faceva il mio corpo mentre io mi nutrivo di questo cibo così scarso. Simili a dei giunchi secchi erano le mie braccia, e le mie gambe erano ischeletrite a seguito di queste privazioni; simile a una collana era la mia spina dorsale con le vertebre sporgenti, e come le travi del tetto di una vecchia casa sporgevano le mie costole; come a stento si vedono le stelle quando ci si trova in fondo ad un pozzo profondo, così si vedevano a stento le mie pupille incavate a seguito di queste privazioni, e come si svuota e si secca al calore del sole una zucca appena tagliata, così si svuotava la mia testa e si disseccava la mia pelle. E se premevo contro il mio ventre, toccavo con le mani la parte posteriore della mia spina dorsale, e toccavo il ventre se premevo contro la spina dorsale: ben presto si ridusse il mio ventre alla spina dorsale, a seguito di queste privazioni, mi trovavo a cadere in avanti, quando volevo urinare o liberare il mio intestino. Mi strofinavo allora il corpo, nel tentativo di fortificarlo, ma mentre strofinavo con le mani, cadevano tutti i peli del mio corpo, mal radicati nella pelle. Mi videro allora degli uomini, Agivessana, e dissero: "Nero è l'asceta Gotama". Dissero altri: "Non è nero l'asceta Gotama: è bruno". E altri ancora dissero: "L'asceta Gotama non è nero, e nemmeno bruno: è giallo". Completamente svanite Agivessana, erano infatti le delicate sfumature della mia pelle. Questo fu allora il mio pensiero: "Sono forse passati tutti gli asceti e i brahmani del passato attraverso tutte queste sofferenze penose, pungenti e insopportabili? Non è possibile soffrire più di così. E gli asceti e i brahmani del futuro, sopporteranno tutte queste sofferenze penose, pungenti e insopportabili? Non è possibile soffrire più di così. E sopportano tutte queste sofferenze gli asceti e i brahmani del presente? Non è possibile soffrire più di così. E non è comunque per mezzo per mezzo di questo ascetismo terribile che io travalicherò le possibilità umane per arrivare a contemplare con chiarezza la vera scienza. Esiste forse un altro mezzo per ottenere l'illuminazione". (Majjhima Nikaya, sutta XXXVI) Così pensavo, quando ancora non avevo raggiunto l'Illuminazione perfetta ed ero illuminato sì, ma solo imperfettamente, e con tutte le mie forze cercavo di raggiungere la vera illuminazione: "Davvero penosa è la vita in luoghi remoti nel fitto della foresta, è difficile vivere felici nella solitudine e nell'isolamento: l'inquietudine si insinua ben presto nell'animo del monaco se questi non possiede ben salda la tranquillità". E allora dissi fra me: "Cercano rifugio nel fitto della foresta tutti questi asceti e questi brahmani, mentre corrotto è il loro corpo a motivo delle loro parole e delle azioni che hanno compiuto spinti da sete di gloria e di onori: cupidigia e desideri regnano su di loro sovrani, e da passioni ardenti essi sono divorati, da aspirazioni e pensieri di odio e corruzione, pigri e indolenti, scomposti e agitati nel loro intimo, pieni di dubbi e di incertezze, oppure convinti a ritirarsi nella foresta per tener dietro a vanità e dispregio del prossimo, spaventati e pieni di paura, irresoluti, indolenti e apatici, inerti, deboli e negligenti, pronti ad invocare, scioccamente e senza alcuna ragione il timore e il terrore, sentimenti che essi provano, in realtà, soltanto in conseguenza del loro stato di impurità. Io, al contrario, mi spingo nei luoghi più remoti all'interno delle fitte foreste conservando puro il mio corpo nelle mie parole e nelle mie azioni, nei miei pensieri e nella mia condotta, libero dalla cupidigia e ricolmo della benevolenza verso tutte le creature, banditi pigrizia e torpore, calmo nel mio spirito, e vincitore di ogni dubbio, immune da vanità e lontano da ogni dispregio del prossimo, libero da eccitazione e da timore, pago del poco, risoluto, coraggioso e colmo di sangue freddo, perché ho acquisito la concentrazione dello spirito e la saggezza superiore. Sono io uno di quegli uomini di alta condizione sociale che si ritirano nelle foreste nei luoghi più remoti, che sono puri e la saggezza hanno acquisito". Compresi allora di essere davvero padrone di questo stato puro e di questa saggezza e contemplai veramente nel mio spirito la tranquillità della vita nella foresta. Dissi allora fra me: "Perché non cercare rifugio, nelle notti propizie di luna piena e hl quelle di primo e ultimo quarto, proprio nel fitto della foresta, in quei luoghi il cui solo pensiero fa drizzare i capelli dalla paura, per sperimentare anch'io quell'impressione di timore e orrore?". E mi isolai, allora, nelle notti propizie di luna piena, e in quelle di primo e di ultimo quarto, nel fitto della foresta, in quei luoghi che al solo pensiero fanno drizzare i capelli dalla paura: mi si avvicinarono degli animali, un pavone fece cadere un ramo, e il vento sibilava sinistro fra le foglie morte. Pensai allora: "Ecco qui il timore e il terrore!". E dissi poi fra me: "Ma perché non aspettarsi comunque di provare cosa sia il timore, in ogni momento? E se li superassi, questo timore e questo terrore, al momento in cui si manifesteranno, visto che comunque dovranno manifestarsi?". E questo timore e questo terrore li provai mentre ero in cammino, ma non mi fermai, non mi misi a sedere né mi coricai: continuai a camminare finché fui libero da questo timore e da questo terrore. Ancora provai questo timore e questo terrore nell'attimo in cui mi trovavo immobile, ma non mi mossi e non mi misi a sedere, e nemmeno cercai di coricarmi: rimasi immobile fino a quando non fui libero da questo timore e da questo terrore. Un'altra volta ebbi a provare questo timore e questo terrore mentre mi trovavo seduto, ma non mi coricai né mi levai in piedi, e nemmeno cercai di muovermi: lì seduto rimasi finché non fui libero dal timore e dal terrore. E anche mentre me ne stavo coricato dovetti provare questo timore e questo terrore, ma non cedetti alla tentazione di scattare in piedi e di sedermi: rimasi nella mia posizione finché mi trovai libero dal timore e dal terrore. Sono molti i brahmani e gli asceti che considerano la notte alla stregua del giorno, e il giorno come la notte. Ma il comportamento di questi asceti e di questi brahmani altro non appare che come tributo all'illusione: ben mi rendo conto, infatti che, una volta scesa la notte, è veramente notte, e davvero è giorno quando fa giorno. E di me si può dire con verità, come lo si è detto riguardo a qualcun altro: "Un essere privo di illusioni è nato per il bene di molti, per l'edificazione di molti, pieno di compassione per il mondo, per gli dei come per gli uomini". (Majjhima Nikaya, Sutta IV) IV L'Albero dell'Illuminazione [Direttosi verso Gaya, l'asceta Siddhartha si stabilisce presso il villaggio di Uruvilva (pali: Uruvela), non lontano dal fiume Nairanjana (odierno Phalgu). Dopo sei anni di permanenza in questo luogo solitario, Siddhartha rinuncia alla via della mortificazione, si bagna nel fiume e ritempra il corpo con il cibo offertogli da una fanciulla di nome Sujata. A questo punto i cinque compagni d'un tempo lo abbandonano. Egli resta solo e ricorda un episodio della sua adolescenza: la prima meditazione. L'asceta percorre dunque i quattro dhyana (pali: jhana), ricorda le sue rinascite anteriori e intuisce la "legge delle dodici cause".] Sempre proseguendo, o monaci, la ricerca di ciò che è il vero bene, e mirando alla via senza uguale della pace desiderabile, passai di città in città nel paese del Magadha, finché giunsi nei dintorni della città di Uruvela. Vidi lì un luogo piacevole, fresco e rallegrato da una fitta vegetazione, attraversato da un ruscello dalle acque limpide che invitavano al bagno, circondato da villaggi dove si poteva andare a chiedere l'elemosina. A quella vista pensai: "Qui davvero si trova tutto ciò che è necessario a un uomo dal cuore grande che vuole lottare per la sua salvezza". Davvero propizio alla lotta sembrava quel luogo, e lì presi dimora. (Majjhima Nikaya, sutta XXVI) Allora così pensai, Agivessana: "Or mi sovviene di un giorno in cui, mentre mio padre era preso dalle occupazioni abituali degli Sakya, io mi trovavo, seduto all'ombra di una melarosa, e lì, distaccato da ogni desiderio e dalle leggi del peccato e del vizio, serbando ben desti giudizio e ragionamento, giunsi al primo grado della meditazione del jhana, frutto della solitudine e fonte di gioia e felicità. Non è questa la via dell'Illuminazione?" E allora così conclusi, Agivessana: "Questa è la via dell'illuminazione; ma la raggiungerò io, questa felicità così diversa dal desiderio dei sensi, così lontana dalla legge del vizio e del peccato? No, questa felicità non la sto raggiungendo, e difficile mi sarebbe il raggiungerla con un fisico così prostrato: se prendessi, allora, del cibo più sostanzioso, se cominciassi a nutrirmi con del riso in giusta quantità?". E così feci. Si dissero l'un l'altro in quel momento i cinque asceti che vivevano con me: "Quando l'asceta Gotama avrà stabilito la legge morale ce la comunicherà". Ma non appena presi a nutrirmi di riso cotto in giusta quantità quei cinque asceti mi abbandonarono, e se ne andarono dicendo: "L'asceta Gotama rinuncia a ogni sforzo e vive nell'abbondanza". Allora, Agivessana, preso quel cibo e recuperate così le forze, distaccato da ogni desiderio e dalla legge del peccato e del vizio, sempre ben desti serbando giudizio e ragionamento, entrai di nuovo nel primo grado della meditazione (jhana), frutto della solitudine e fonte di gioia e felicità. Pur tuttavia non aveva alcun effetto sul mio pensiero il sentimento di gioia che provavo. Per mezzo della soppressione di giudizio e ragionamento, Agivessana, entrai poi nel secondo grado della meditazione (jhana), frutto della concentrazione interiore dello spirito, che, una volta cessati giudizio e ragionamento, procura la tranquillità, la gioia e la felicità. Pur tuttavia, Agivessana, non aveva alcun effetto sul mio pensiero quel sentimento di gioia che provavo. Rinunciai poi alla gioia, e mi trovai ad essere indifferente, pienamente cosciente e con l'attenzione ben desta, colmo di quella felicità interiore di cui i saggi dicono: "Gode della felicità chi è indifferente e pienamente cosciente". Ero entrato così nella terza fase della meditazione (jhana), eppure, Agivessana, non aveva alcun effetto sul mio pensiero quella gradevole sensazione di benessere che provavo. Abbandonando poi ogni piacere e ogni dolore, Agivessana, abbandonando la gioia e l'afflizione che prima avevo vissute, entrai anche nel quarto grado della meditazione (jhana), nella condizione di chi, svanita la gioia e svanita l'afflizione, sperimenta perfetta lucidità ed indifferenza: pur tuttavia, Agivessana, non aveva alcun effetto sul mio pensiero quel sentimento di felicità che io provavo. Con il pensiero così raccolto, puro, chiaro e luminoso, mondato da ogni sozzura, pronto all'azione, fermo e impassibile, diressi il mio spirito alla contemplazione delle mie vite anteriori: una nascita, due nascite, tre nascite, quattro nascite, cinque nascite, dieci nascite, venti nascite, trenta nascite, quaranta nascite, cinquanta nascite, cento nascite, mille nascite, cinquemila nascite, dieci epoche di riproduzione del mondo e dieci epoche di distruzione del mondo, dieci epoche di riproduzione e distruzione del mondo. Tutto ricordai con precisione: in un certo luogo mi trovavo, avevo un certo nome, appartenevo a una certa stirpe e a una certa famiglia, un mestiere esercitavo; provai gioia e dolore, e così terminai la mia esistenza, per nascere di nuovo in un'altra vita... Così richiamai alla mia memoria un gran numero delle mie vite anteriori, contemplando ciascuna di esse in tutti i suoi caratteri e fin nei suoi più piccoli dettagli. Nella prima parte di quella veglia notturna per la prima volta acquistai questa conoscenza: distrutta era l'ignoranza e nata era la conoscenza, le tenebre erano dissipate e appariva la luce, mentre io rimanevo attivo, chiaroveggente e colmo di ardore. Pur non avevano alcun effetto sul mio pensiero, Agivessana, tutti i sentimenti di gioia che provavo. Con il pensiero così raccolto, puro, chiaro e luminoso, mondato da ogni sozzura, pronto all'azione, fermo e impassibile, applicai il mio spirito alla conoscenza delle cause che governano la fine e la trasmigrazione degli esseri. E con occhio divino perfettamente puro, con sguardo penetrante superiore a quello di ogni altro uomo, vidi io gli esseri che morivano e poi di nuovo nascevano, tutti gli esseri, nobili e di bassa condizione, di bello e di cattivo aspetto, felici e sventurati. Compresi allora che essi sempre rinascevano a una nuova esistenza in virtù delle azioni commesse nell'esistenza precedente, e pensai: "Certamente si rendono responsabili di colpe, questi esseri, di colpe nelle loro azioni, nelle loro parole, nei loro pensieri; sicuramente essi disprezzano ciò che dovrebbero invece rispettare, e tengono in gran conto ciò che è pericoloso, e pure operano ciò che è pericoloso, e al momento della dissoluzione del corpo subito dopo la morte seguono essi il cammino della perdizione e vanno dritti al regno del male. Questi buoni esseri, invece, guidati dalla dirittura di azione, parola e pensiero, che non disprezzano ciò che si deve rispettare, e giusto stimano ciò che è giusto, e pure compiono ciò che è giusto, seguono costoro, al momento della dissoluzione del corpo dopo la morte, il cammino beato del mondo dei cieli. Vidi dunque con occhio divino, con sguardo penetrante superiore a quello degli uomini, la morte e la rinascita di tutti gli esseri, nobili e di basso lignaggio, di bello e di cattivo aspetto, felici e sventurati, e compresi che sempre a nuova vita rinascevano gli esseri in virtù delle loro azioni. La seconda parte di quella notte recò a me il possesso di questa seconda conoscenza: distrutta era l'ignoranza, nata era la conoscenza, le tenebre erano dissipate e appariva la luce, mentre io mi conservavo attivo, chiaroveggente e colmo di ardore. Eppure non avevano alcun effetto sul mio pensiero i sentimenti di gioia che provavo. Con il pensiero così raccolto, puro, chiaro e luminoso, mondato da ogni sozzura, pronto all'azione, fermo e impassibile, contemplavo con il mio spirito la distruzione di tutte le corruzioni del peccato, e conformemente a verità io riconobbi: "Ecco qui il dolore, ecco qui l'origine del dolore, ecco la fine del dolore, ed ecco il cammino che conduce alla fine del dolore". E conformemente a verità anche questo riconobbi: "Ecco qui la corruzione del desiderio, ecco l'origine della corruzione e la fine della corruzione; ecco qui il cammino che conduce alla fine della corruzione del desiderio". Liberato dal peccato di cupidigia, liberato dal peccato di attaccamento all'esistenza, liberato dal peccato di ignoranza, tale si trovò il mio spirito a seguito di questi pensieri e di questa riflessione. E la liberazione risvegliò in me questo pensiero: "Ogni nuova nascita è finita, la santità è raggiunta". (Majjhima Nikaya, sutta XXXVI) [Bodhi è il vocabolo sanscrito che designa l'Illuminazione, il risveglio spirituale. La tradizione buddhista situò l'evento capitale dell'esistenza del Buddha sotto l'albero pipal (ficus religiosa) che si mantenne in vita, sempre visitato e venerato dai pellegrini, fino al 1876. Già nel III sec. a.C. il trapianto di uno dei suoi ranni aveva dato origine, nello Sri Lanka, a un albero che è tuttora luogo di culto per i fedeli dell'isola.] Si trovava allora il Buddha ad Uruvela, sulle rive del fiume Neranjara [sanscrito: Nairanjana], ai piedi dell'albero della Bodhi, laddove aveva appena raggiunto l'Illuminazione. E per sette giorni rimase il Beato seduto ai piedi di quest'albero, con le gambe piegate sotto il busto, gustando appieno la felicità della liberazione. Giunto alla prima parte della settima notte concentrò la sua attenzione, il Beato, sull'origine delle cose, sulla mutua concatenazione delle cause, nell'ordine diretto e nell'ordine inverso: dall'ignoranza scaturiscono gli istinti e dagli istinti scaturisce la coscienza egoica, dalla coscienza egoica scaturiscono nome e forma e da nome e forma scaturiscono le sei sfere delle qualità sensibili, dalle sei sfere delle qualità sensibili scaturisce il contatto e dal contatto scaturisce la sensazione, dalla sensazione scaturisce il desiderio e dal desiderio scaturisce l'attaccamento all'essere, dall'attaccamento scaturisce l'esistenza e dall'esistenza scaturisce la nascita, dalla nascita scaturiscono, infine, vecchiaia e morte, dolore, pianto e disperazione: e così si perpetua questo immenso cumulo di dolore. Ma laddove con l'annientamento completo della sete si estingua l'ignoranza, estinti sarebbero anche gli istinti, e con l'annientamento degli istinti estinta è anche la coscienza egoica; con l'annientamento della coscienza egoica si estinguono poi anche nome e forma, e con l'annientamento di nome e forma estinte sono anche le sei sfere delle qualità sensibili; con l'annientamento delle sei sfere delle qualità sensibili si estingue anche il contatto, e con l'annientamento del contatto estinta è anche la sensazione; con l'annientamento della sensazione si estingue anche il desiderio, e con l'annientamento del desiderio estinto è anche l'attaccamento all'esistenza; con l'annientamento di ciò che è attaccamento all'esistenza anche l'esistenza stessa si estingue, e con l'annientamento dell'esistenza, anche nascita, vecchiaia e morte sono estinte, e con esse anche il dolore, il pianto e la disperazione: così appieno svanisce tutto questo cumulo di miserie. Reduce da questa scoperta capitale, pronunciò il Beato questa sequenza: "Quando il regno dell'ordine eterno si disvela al brahmano in fervida meditazione immerso, dissipati sono tutti i suoi dubbi, perché egli l'origine di ogni cosa ha compreso". (incipit del Mahavagga) LA VIA DEI BUDDHA DEL PASSATO [La Legge è eterna dichiara l'illuminato ed è stata da sempre predicata dai Buddha del passato. È una via antica a otto diramazioni: l'Ottuplice Sentiero (astanga marga), il cammino della liberazione. Esso viene così ripartito: 1. Samyak-drsti, retta visione, 2. samyak samkalpa, retta rappresentazione concettuale, 3. samyak vac, retta parola, 4. samyak karmanta, retta attività, 5. samyak ajiva, retto metodo di vita, 6. samyak vyayama, retta applicazione, 7. samyak smrti, retta consapevolezza, 8. samyak samadhi, retta concentrazione.] Immaginate, fratelli miei, un uomo che, nel mezzo di una foresta, nell'intrico di una fitta boscaglia, si trovi di fronte ad una antica via, a una strada antica percorsa da genti dei tempi lontani: segue l'uomo questa via e, cammin facendo, incontra un'antica città, sede regale un tempo, e dimora di genti dei tempi passati, un luogo delizioso con giardini e parchi, laghetti e mura. Corre allora quest'uomo a dire al suo re o a uno dei suoi ministri: "Ascoltami, mio signore! Nel mezzo della foresta, nell'intrico della fitta boscaglia un'antica via ho visto, una strada antica percorsa da genti dei tempi lontani; l'ho seguita questa strada e, cammin facendo, ho incontrato un'antica città, sede regale un tempo, e dimora di genti dei tempi passati, luogo delizioso con giardini e parchi, laghetti e mura. Orsù, mio signore, restituisci a questa città il suo antico splendore!" Si affretta allora il re a restaurare questa città, e l'antica città ridiviene prospera e fiorente, si arricchisce di nuovo e di nuovo ospita una grande moltitudine. Allo stesso modo, fratelli miei, anch'io ho visto un'antica via, la strada percorsa dai Buddha dei tempi passati; e qual è, fratelli, questa strada antica, lungo la quale camminarono anche i Buddha dei tempi passati? Strada veramente nobile è questa, un sentiero a otto diramazioni: visione retta e retto giudizio, linguaggio retto e retta condotta, retto credo e retta applicazione, memoria retta e retta meditazione. Questa è la strada antica, lungo la quale camminarono i Buddha dei tempi passati. L'ho seguita questa via, e lungo il cammino perfettamente ho compreso e ho contemplato la vecchiaia e la morte, l'apparire della vecchiaia e della morte, e il loro svanire. Ho seguito questa strada e ho contemplato la nascita, l'esistere, l'attaccamento, il desiderio, la sensazione, il contatto, le sei sfere delle qualità sensibili, nome e forma, e la conoscenza; seguendo questa via ho compreso e contemplato i concetti, e le leggi ineluttabili del loro apparire e del loro svanire, per poi comprendere il cammino che al loro svanire conduce. E ciò che ho perfettamente compreso, io l'ho esposto ai fratelli e alle sorelle, e ai fedeli laici dei due sessi, perché a lungo si perpetui, fratelli miei, questa vita santa, fonte di felicità e salvezza, questa vita che da molti deve essere conosciuta e che ovunque deve essere diffusa: agli uomini e agli dei, ai Deva deve essere trasmessa. (Samyutta Nikaya, II, 104) V Presenze divine dopo l'Illuminazione Trascorsi sette giorni immerso nella meditazione all'ombra dell'albero della Bodhi, si recò il beato ai piedi del banano Ajapala, e lì si sedette con le gambe incrociate, gustando per altri sette giorni la beatitudine della liberazione. Ecco arrivare allora sicuro di sé un brahmano, che verso il Beato si diresse, rivolse a lui parole di rispetto, lo salutò e si fermò davanti a lui; disse al Beato quel brahmano: "Cosa fa di un uomo un brahmano, Gotama, e quali sono i caratteri che distinguono un brahmano?" All'udire quella domanda pronunciò il Beato questa sequenza: "Il brahmano che ha respinto il male, che non è orgoglioso, che non è impuro ed è padrone di se stesso, e che possiede la saggezza vivendo nella santità, questo brahmano può a giusto titolo diffondere la parola santa, egli che ha saputo dirigere il suo sguardo al di fuori delle cose del mondo". Trascorsi dunque questi sette giorni di meditazione all'ombra dell'albero Ajapala, si recò il Beato ai piedi dell'albero Mucilinda, e lì si sedette con le gambe incrociate, rimanendo per altri sette giorni nella beatitudine della liberazione. Si era in quel volgere di tempo nella cattiva stagione, e il cielo era coperto: pioggia, vento, freddo e oscurità per sette giorni la fecero da padroni, e il Re dei serpenti, Mucilinda, lasciò la sua dimora, e sette volte avvinghiò con le sue spire il corpo del Beato; il suo lungo cappuccio di cobra distese sul Beato, pensando: "Non conviene che il Beato abbia ad essere disturbato da freddo e calura, da tafani e moscerini, da vento, sole e rettili". Passati i sette giorni, quando vide il cielo sereno e senza nubi, allentò il Re dei serpenti la sua presa e dal corpo del Beato staccò le sue spire, per poi trasformarsi in un giovane che, in piedi con le mani giunte davanti al Beato, a lui rendeva omaggio. Questa sequenza pronunciò allora il Beato alla vista di quel giovane: "Felice è la solitudine di colui che è sazio, che ha udito le parole della verità, e che nitidamente vede. Dolce è la benevolenza e la mansuetudine verso tutte le creature. Dolce è quaggiù l'assenza di passione, e così è anche la vittoria sui peccati: suprema felicità ha raggiunto chi ha domato il suo egoismo". Passati che furono i sette giorni di meditazione all'ombra dell'albero Mucilinda, si recò il Beato ai piedi dell'albero Rajayatana, e lì si sedette con le gambe incrociate per gustare sette giorni ancora la beatitudine della liberazione. Arrivarono lì in quel tempo, dalla strada di Ukkala, i due mercanti Tapussa e Bhallika; un Deva, che in una delle esistenze precedenti era stato genitore dei due mercanti, si avvicinò loro dicendo: "Si trova qui, miei nobili amici, ai piedi dell'albero Rajayatana, il Beato che ha da poco raggiunto la condizione di Buddha. Andate dunque a rendergli omaggio, con l'offerta di riso e miele, che sarà per voi motivo di bene e di felicità". Presero allora i due mercanti riso e miele e si recarono al luogo dove si trovava il Beato; si avvicinarono a lui e, giunti al suo cospetto, lo salutarono devotamente e presentarono la loro offerta dicendo: "Ci auguriamo, o Signore, che il Beato voglia da noi accettare questo riso e questo miele, ciò che per noi sarà fonte di sommo bene e di felicità". Pensò allora il Beato: " Non nelle loro mani ricevono il cibo i Tathagata, i Buddha perfetti e compiuti. Come prenderò dunque questo riso e questo miele?". Compresero allora i quattro grandi re del cielo i pensieri del Beato; grazie alla potenza del loro spirito li compresero, e al Beato recarono, dai quattro punti dell'orizzonte, quattro vasi di pietra, e glieli offrirono dicendo: "Con queste ciotole il Beato potrà prendere riso e miele". Accettò il Beato le ciotole di pietra e con queste ricevette il riso e il miele con i quali poi si nutrì. E quando i due mercanti videro che il Beato aveva lavato la sua ciotola e si era lavato le mani, con rispetto si prostrarono ai suoi piedi e dissero: "Confidiamo, o signore, nel Beato e nel suo Dhamma; veramente ci auguriamo che il Beato voglia accoglierci come fedeli laici da oggi fino all'ultimo dei nostri giorni. Questo è l'augurio di chi in lui confida". Furono costoro in questo mondo i primi fedeli laici che professarono la loro fede nel Beato. Trascorsi i sette giorni a meditare all'ombra dell'albero Rajayatana, si recò il Beato ai piedi dell'albero Ajapala, e lì si sedette; ritiratosi così ancora una volta nella solitudine e immerso nella concentrazione, concepì allora questo pensiero: "Questo Dhamma ho scoperto, un Dhamma profondo, difficile da scorgere e da comprendere, che esaurisce i pensieri del cuore nella sua sublimità, e sfugge a ogni ragionamento: non può essere conosciuto, insomma, che dai saggi. Vive del resto l'umanità nel logorio del mondo, e nella concitazione del tempo si agita; perciò sarà difficile all'umanità di comprendere la concatenazione delle cause e degli effetti, e più difficile ancora sarà il comprendere l'acquietarsi di tutti i concetti o formazioni, il distacco dalle cose della terra, l'estinzione della cupidigia, la cessazione del desiderio, l'annientamento e il Nibbana. "Se io mi metterò ad insegnare ad altri questo Dhamma che pochi possono comprendere, mi consumerò nella fatica e inutile sarà il mio sforzo". Si presentò allora allo spirito del Beato questa sequenza, che egli mai aveva pronunciato prima: "Con grande difficoltà ho ricevuto questa legge: a chi farla conoscere? Difficile a comprendersi è questa dottrina per gli esseri accecati da odio e passione; dominati come sono dai desideri e avvolti da dense tenebre, non potranno essi vedere la legge che risale la corrente, la legge riposta e profonda, difficile da afferrare e piena di mistero". Fu allora Brahma a comprendere, grazie alla potenza del suo spirito, il pensiero del Beato; disse fra sé il dio: "Perirà, ahimè, il mondo, e sarà distrutto, se davvero il Tathagata, il Santo, l'illuminato perfetto e compiuto, vorrà rimanere nella solitudine e si guarderà dall'insegnare il suo Dhamma". Lasciò allora Brahma il mondo celeste e subito apparve al cospetto del Beato, in un baleno, come un uomo robusto che in un attimo stende il suo braccio piegato e ripiega il suo braccio teso. Gettato il suo mantello su una spalla e posato dritto il suo ginocchio sulla terra, levò Brahma le sue mani giunte davanti al beato e gli disse: "Non disdegni il Beato di insegnare il Dhamma; voglia il Perfetto insegnarlo, questo Dhamma. Ci sono degli esseri la cui vista è soltanto oscurata da una nebbia leggera, esseri che non si salveranno se non potranno ascoltare la predicazione del Dhamma: saranno loro a comprendere il Dhamma". Così parlò Brahma e, esaurito questo discorso, soggiunse: "Legge impura è il Dhamma fino ad oggi diffuso nel paese di Magadha, e insegnata da peccatori: aprici allora la porta dell'eternità, facci ascoltare il Dhamma del Buddha senza macchia. Come un uomo che si trovi in piedi su una roccia o sulla vetta di una montagna abbraccia con il SUO sguardo tutti gli uomini che lo circondano, così abbassa tu, o onnisciente, tu che sei pervenuto alla vetta suprema della verità e che tutto vedi, il tuo sguardo sulle creature miserabili soggette alla nascita e alla vecchiaia, tu che dalla sofferenza ti sei liberato. Orsù, eroe, in piedi: vai per il mondo, guida della carovana, tu che da solo ti sei liberato; voglia il Beato insegnare il suo Dhamma: ci sarà chi potrà comprenderlo". All'udire queste parole, disse il Beato a Brahma: "Così ho pensato, o Brahma: difficile e profondo è il Dhamma che io ho scoperto...". [Ripete il Beato con le medesime parole i dubbi che aveva espresso in precedenza, ma per due volte ancora Brahma lo supplica di rivelare la sua dottrina.] Udita la terza supplica di Brahma, pieno di compassione per l'umanità il Beato gettò il suo sguardo sul mondo con i suoi occhi di Buddha, e vide degli esseri la cui capacità visiva era limitata da una nebbia leggera per gli uni e fitta per gli altri, esseri dallo spirito vivo oppure ottuso, animati da buone come da cattive disposizioni, ascoltatori attenti e ascoltatori distratti, fra i quali vi era comunque qualcuno che ben presenti aveva i pericoli della vita futura e del peccato. Come in uno stagno di fiori di loto azzurro, rosso o bianco alcuni dei fiori nati e cresciuti sotto l'acqua non emergono e sotto l'acqua rimangono nascosti, mentre altri fiori, nati anch'essi e cresciuti sotto l'acqua, salgono sulla superficie dell'acqua ed altri ancora, che sempre sott'acqua sono nati e cresciuti, emergono fuori dall'acqua senza nemmeno esserne bagnati, così vide il Beato, contemplando il mondo con i suoi occhi di Buddha, esseri la cui capacità visiva era limitata [come sopra] . Disse allora il Beato a Brahma: "Spalancata per tutti gli uditori è la porta dell'eternità: entrino e credano tutti coloro che hanno orecchie per udire. Il Dhamma dolce e buono agli uomini non volevo insegnare, o Brahma, perché temevo di dover faticare inutilmente". E allora il dio Brahma comprese: "Ha accolto la mia supplica, il Beato, e insegnerà il suo Dhamma". Salutò allora il Beato, girò intorno a lui lasciandolo sulla destra, e scomparve dal SUO sguardo. [Gli Ajivika erano una setta ostile alla dottrina del Buddha all'epoca della sua prima predicazione. Per quanto riguarda invece Alara Kalama e Uddaka Ramaputta ricordiamo che si tratta dei primi due maestri ai cui insegnamenti il giovane Siddhartha aveva inizialmente aderito]. Pensò allora il Beato: "Chi sarà il primo a cui insegnerò questo Dhamma? Chi è colui che comprenderà facilmente questo Dhamma?" Pensò poi il Beato: "Alara Kalama è quest'uomo: è intelligente, saggio ed istruito. Da molto tempo il suo spirito è oscurato da un velo leggero: e se cominciassi da lui a insegnare il mio Dhamma? Egli comprenderà facilmente questo Dhamma". Si rivolse allora al Beato un Deva invisibile e gli disse: "Alara Kalama, signore, è morto sette giorni fa". E l'idea che Alara Kalama fosse morto da sette giorni si fece strada nello spirito del Beato, ed egli disse fra sé: "Alara Kalama era un essere superiore: se avesse ascoltato il mio Dhamma, certo lo avrebbe compreso facilmente". Pensò allora il Beato a Uddaka Ramaputta: "Egli è intelligente, saggio e istruito. Da lungo tempo è oscurato il suo spirito da un velo leggero: e se da lui cominciassi a insegnare il mio Dhamma? Certo egli comprenderà facilmente questo Dhamma". Ma un Deva invisibile avvertì il Buddha: "Uddaka Ramaputta è morto ieri, signore". E nello spirito del Buddha si fece strada l'idea che Uddaka Ramaputta fosse morto il giorno precedente, ed egli disse tra sé: "Uomo superiore era Uddaka Ramaputta; se egli avesse udito la mia dottrina, certo l'avrebbe compresa". Pensò allora di nuovo il Beato: "A chi dunque comincerò a insegnare il Dhamma? Chi è colui che comprenderà facilmente questo Dhamma?" Pensò il Beato: "I cinque monaci mi hanno reso dei servizi, e mi hanno circondato di cure al tempo in cui praticavo le mie mortificazioni. E se cominciassi con loro ad insegnare il Dhamma?". Si chiese allora il Beato: "Dove sono ora questi cinque monaci?". Vide, il Beato, grazie al potere del suo occhio divino, chiaro, superiore all'occhio degli uomini, che i cinque monaci si trovavano a Benares, nel Parco delle gazzelle, a Isipatana: dopo aver dunque soggiornato ad Uruvela per tutto il periodo delle piogge, si mise in marcia il Beato alla volta di Benares. Upaka, monaco della setta degli Ajivika, gli asceti nudi, vide il Beato lungo il cammino che porta da Gaya all'albero della Bodhi, e gli disse: "Tranquillo è il tuo aspetto, amico, e il tuo colorito è puro e chiaro, da chi sei stato iniziato alla vita religiosa, chi è il tuo maestro, e qual è il Dhamma che segui?" Udite quelle parole di Upaka, pronunciò il Beato una sequenza di questo genere: "Ho vinto tutti nemici e sono il saggio per eccellenza, sono puro da ogni sozzura e a tutto ho rinunciato ottenendo così l'affrancamento da ogni desiderio: da solo ho acquistato la saggezza, chi potrei dunque considerare mio maestro? Non ho maestri e nessuno è simile a me, nessuno mi è uguale nel mondo degli uomini e in quello dei Deva. Io sono il santo di questo mondo, sono io il maestro supremo, io solo sono il Buddha compiuto. Sono arrivato all'indifferenza, ho raggiunto il Nibbana, e a Benares mi reco per mettere in movimento la Ruota della Legge; fra le tenebre di questo mondo il mio tamburo bandirà l'annuncio dell'immortalità". "Pretendi dunque, amico", replicò Upaka, "di essere l'eterno Vittorioso? "Come me", rispose il Beato, "sono tutti i vittoriosi che sono giunti a distruggere la corruzione. Io ho riportato vittoria su tutti i vizi ed è per questo, Upaka, che io sono il Vittorioso". "Può darsi, amico", concluse allora Upaka, l'asceta nudo, e scuotendo la testa se ne andò per un'altra strada. (dal Mahavagga) VI Il Sermone di Benares [Dhamma= legge; Cakka= ruota; Pavattana= messa in movimento; Sutta= discorso: queste quattro parole pali, fuse insieme in un composto nominale, Dhammacakkapavattanasutta, definiscono il famoso Sermone di Benares come "discorso della messa in movimento della Ruota della Legge". I primi interlocutori del Buddha sono i cinque amici ("Membri della banda fortunata") con i quali egli aveva condiviso il cammino della mortificazione. Sono i primi a comprendere che il dolore esiste, che ha un'origine, che da esso bisogna liberarsi, e che esiste una via per liberarsene. Sono le Quattro Nobili Verità poste a fondamento della Legge.] E viaggiando a tappe giunse finalmente il Beato a Benares, al Parco delle gazzelle, a Isipatana, laddove si trovavano i cinque monaci. Scorsero da lontano il Beato, quei cinque monaci, e subito tennero consiglio dicendo: "Sta arrivando da noi l'asceta Gotama, l'asceta che però è ritornato nel mondo, ha rinunciato alle mortificazioni e vive nell'abbondanza; non salutiamolo al suo arrivo e non alziamoci in piedi, non tocchiamo le sue mani, né la sua ciotola, né il suo abito. Offriamogli comunque un giaciglio perché si segga se lo desidera". Ma tuttavia, man mano che il Beato si avvicinava, sentivano i monaci vacillare il loro proposito; andarono loro stessi incontro al Beato, e uno di loro prese la sua ciotola e il suo abito, un altro preparò un giaciglio, e portarono anche dell'acqua perché potesse lavarsi i piedi, uno sgabello e un asciugamano. Si sedette allora il Beato sul giaciglio che gli era stato offerto, e si lavò i piedi. Parlarono i monaci con il Beato, chiamandolo per nome e designandolo con l'appellativo degli asceti, ma il Beato subito disse loro: "Non rivolgetevi al Tathagata chiamandolo con il suo nome e con l'appellativo degli asceti! Il Tathagata, monaci, è il santo, è il Buddha perfetto e compiuto; ascoltatemi, o monaci: Io sono giunto alla liberazione dalla morte, io vi istruirò e vi insegnerò il Dhamma; seguite la via che ora vi indicherò, e in poco tempo conoscerete lungo il cammino e vedrete a faccia a faccia la verità che è lo scopo incomparabile della vita santa, la meta che spinge i figli di buona famiglia a rinunciare al mondo e a condurre la vita errante degli asceti". All'udire queste parole, dissero i cinque monaci al Beato: "Non ti hanno procurato la perfezione umana tutte le pratiche ascetiche che hai seguito, e non ti hanno procurato nemmeno la saggezza suprema, e nemmeno la veggenza; come potresti ottenerla adesso, la perfezione umana, adesso che vivi nell'abbondanza ed hai rinunciato ad ogni sforzo abbandonandoti al piacere? Come potresti ottenere ora la saggezza suprema e l'intuizione?" Rispose allora il Beato: "Non è vero, o monaci, che il Tathagata vive nell'abbondanza; non è vero che ha rinunciato ad ogni sforzo e vive nell'abbondanza. Il Tathagata, o monaci, è il santo, il Perfetto Illuminato. [...] Disse poi il Beato ai cinque monaci: "Lo sapete, o monaci, che mai prima di questo giorno vi avevo parlato in questi termini?". "Certo", risposero i monaci, "mai avevamo udito da te parole simili". "Il Tathagata, o monaci", riprese il Beato, "è il Buddha perfetto e compiuto: ascoltatemi, o monaci". Finalmente riuscì il Buddha a convincere i cinque monaci, e i cinque monaci ascoltarono con attenzione il Beato, tesero a lui il loro orecchio e si disposero a ben comprendere gli insegnamenti che venivano loro offerti. Disse allora il Beato ai monaci: "Vi sono due estremi, o monaci, dai quali coloro che hanno rinunciato al mondo devono tenersi lontani: una vita tutta consumata nelle passioni, che si esaurisce unicamente in mezzo a piaceri e passioni, una vita avvilita dai sensi, grossolana, senza nobiltà e senza profitto, e, allo stesso modo, una vita consacrata unicamente alle mortificazioni, una vita dolorosa, ma ugualmente priva di nobiltà e senza profitto. Proprio evitando questi due estremi, o monaci, il Tathagata ha acquisito la conoscenza di quel cammino che passa esattamente in mezzo, quel cammino che apre gli occhi e lo spirito, che conduce alla saggezza e all'appagamento, alla scienza, all'illuminazione suprema e al Nibbana. E qual è, o monaci, questo Sentiero di Mezzo di cui il Tathagata ha acquisito nozione, questo sentiero che conduce alla saggezza, all'appagamento, alla scienza, all'illuminazione completa e al Nibbana? Questo sentiero è la via nobile dalle otto ramificazioni, che bisogna conoscere: visione retta e retta volontà, parola retta e retta azione, esistenza retta e retta applicazione, pensiero retto e retta meditazione". Proseguì poi il Beato: "Eccovi, o monaci, la verità suprema riguardo al dolore: la nascita è dolore, e dolore sono la vecchiaia e la malattia, dolore è la morte; anche la presenza di oggetti che detestiamo è dolore, e dolore la separazione dagli oggetti che amiamo, così come è dolore l'impossibilità di ottenere ciò che desideriamo. Si tratta, in una parola, dei cinque aggregati che dall'attaccamento hanno origine: tutto qui è il dolore. "Eccovi ora, o monaci, la verità suprema sull'origine del dolore: sorge in realtà il dolore da quel desiderio di esistenza che conduce gli esseri da una rinascita all'altra, da quel desiderio cui si accompagna il piacere, e che ora qui ora là cerca con bramosia la sua soddisfazione. Origine del dolore è dunque il desiderio del piacere, il desiderio di esistenza e di potenza. "Eccovi, o monaci, la verità suprema riguardo alla soppressione del dolore: soppressione del dolore significa allora assenza di passioni, distruzione completa del desiderio, di esistenza, distacco, abbandono, annichilimento del desiderio, rinuncia al desiderio. "Eccovi infine, o monaci, la verità suprema riguardo alla via che conduce alla soppressione del dolore: si tratta esattamente della nobile via dalle otto ramificazioni, una via da non smarrire mai. "Questa è, o monaci, la verità sublime riguardo al dolore: su questi pensieri che prima non conoscevo si sono ora aperti i miei occhi e si è aperto il mio spirito, perché io acquistassi la scienza, l'intelligenza, la saggezza e l'intuizione. Questa verità sublime riguardo al dolore bisogna comprenderla, e così, o monaci su tutti questi pensieri un tempo sconosciuti si sono aperti i miei occhi e si è aperto il mio spirito, perché io acquisissi la scienza, l'intelligenza, la saggezza e l'intuizione. Questa verità sublime riguardo al dolore io l'ho dunque compresa. "Questa è la verità sublime sull'origine del dolore: su questi pensieri che prima non conoscevo si sono aperti i miei occhi e si è aperto il mio spirito, perché io acquistassi la scienza, l'intelligenza, la saggezza e l'intuizione. All'impotenza deve essere ridotta questa verità sull'origine del dolore, e all'impotenza io l'ho ridotta, perché su pensieri un tempo sconosciuti si sono aperti i miei occhi e si è aperto il mio spirito, perché io acquistassi la scienza e l'intelligenza, la saggezza e l'intuizione. "Questa è la verità sublime circa la soppressione del dolore: su questi pensieri che prima non conoscevo si sono aperti i miei occhi e si è aperto il mio spirito, sicché io acquisissi scienza, intelligenza, saggezza e intuizione. A faccia a faccia deve essere vista questa verità circa la soppressione del dolore, e io l'ho vista a faccia a faccia, perché su pensieri un tempo sconosciuti si sono aperti i miei occhi e si è aperto il mio spirito, perché io potessi giungere alla scienza e all'intelligenza, alla saggezza e all'intuizione. "Questa è la verità riguardo al cammino che conduce alla soppressione del dolore: su tutti questi pensieri che prima non conoscevo i miei occhi ora si sono aperti, e si è aperto il mio spirito, perché io possa possedere la scienza e l'intelligenza, la saggezza e l'intuizione. Bisogna compiere questo cammino che conduce alla soppressione del dolore, e io l'ho compiuto, perché su tutti questi pensieri un tempo sconosciuti i miei occhi si sono aperti e si è aperto il mio spirito, e ora io possiedo la scienza e l'intelligenza, la saggezza e l'intuizione. "Quando ancora non possedevo con chiarezza perfetta questa vera conoscenza, questa intuizione delle Quattro Nobili Verità nelle loro tre parti e con i loro dodici articoli, ben mi rendevo conto, o monaci, di non avere ancora raggiunto l'illuminazione suprema qui nel mondo degli uomini e degli dei, nel mondo di Mara e di Brahma, qui fra tutti gli esseri, gli asceti e i brahmani, gli dei e gli uomini. "Ma ora ben presente al mio spirito è questa conoscenza, salda è questa intuizione: il mio spirito è liberato per sempre, questa è l'ultima delle mie nascite, più non rinascerò". Così parlò il Beato; conquistati ne furono i monaci, e lodarono le parole del Beato. Terminato che fu il discorso del Buddha, il venerabile Kondanna acquisì l'occhio puro e senza macchia del Dhamma, e comprese che tutto ciò che è soggetto alla nascita è soggetto alla distruzione. E mentre il Beato faceva girare la Ruota della Legge, lanciavano grida i Deva che abitavano sulla terra: "Veramente il Beato ha messo in movimento, qui a Benares, nel Parco delle gazzelle, nel parco di Isipatana, la Ruota della Legge e nessuno potrà fermarla, brahmano, asceta o Deva che sia; non potrà fermarla Brahma e nemmeno Mara, e nessun essere del mondo". E al grido dei Deva che erano sulla terra si associarono anche i Deva dei quattro cieli, e in quell'attimo, in quel momento preciso, il grido dei Deva giunse al mondo di Brahma, e allora l'insieme dei diecimila mondi fremette, tremò e si agitò, e tutto l'universo tu pervaso da una luce infinita, più potente della luce che emana dal divino potere dei Deva. E solennemente pronunciò il Beato queste parole: "Veramente Kondanna ha compreso, veramente egli ha capito". E in quel momento il venerabile Kondanna ricevette il nome di Annatakondanna ("Kondanna che ha compreso la dottrina"). E il venerabile Annatakondanna conosceva il Dhamma e con i suoi occhi lo contemplava; possedeva il Dhamma e nelle profondità del Dhamma si immergeva, senza esitazione, trionfatore di ogni dubbio, pervaso dalla rivelazione, libero da qualsiasi bisogno in virtù della sua fede nella Dottrina del Maestro; e al Maestro disse: "Voglia il mio signore fare di me un monaco, concedimi, ti supplico, l'ordinazione!" "Avvicinati, o monaco", rispose il Beato, "ben insegnata è la Legge: vivi dunque nella santità e alla distruzione completa del dolore arriverai". Così il venerabile ricevette l'ordinazione. Anche gli altri monaci il Beato esortò e istruì con un discorso relativo al Dhamma e il venerabile Vappa e il venerabile Bhaddiya, una volta esortati e istruiti da questo discorso relativo al Dhamma, ottennero l'occhio puro e senza macchia del Dhamma, e compresero tutto ciò che è soggetto alla nascita e soggetto alla distruzione". Vivendo delle elemosine recate a lui da questi monaci, istruiva ed esortava il Beato gli altri due fratelli con discorsi relativi al Dhamma: vivevano così le sei persone delle elemosine recate dai tre monaci. L'IMPERMANENZA DELL'IO E il Beato così parlò ai cinque monaci: "Il corpo, o monaci, non è l'io; se infatti il corpo fosse l'io, il corpo non sarebbe esposto alla malattia, e certo si potrebbe dire: voglio che il mio corpo sia così, o che così non sia; ma dal momento che il corpo, o monaci, non è l'io, ne consegue che il corpo è soggetto alla malattia, cosicché noi non possiamo dire: voglio che il mio corpo sia così o che così non sia". [Lo stesso ragionamento è condotto riguardo agli altri aggregati (skandha): sensazione, idee, impulsi istintivi, coscienza.] "Cosa ne pensate voi, o monaci: il corpo è permanente o soggetto a dissoluzione?" "Soggetto a dissoluzione, signore". "E ciò che è soggetto a dissoluzione è fonte di gioia o di dolore?" "Fonte di dolore, signore". "Si può allora dire, parlando di ciò che è soggetto a dissoluzione, è causa di dolore ed è destinato a mutare le sue forme, si può dire dunque di tutto ciò: questo è mio, questo io sono e questo è il mio io?" "Non si può, signore". [Lo stesso dialogo è ripetuto con le stesse parole riguardo agli altri aggregati.] "E allora sappiate, o monaci, per quanto concerne il corpo, quale che esso sia stato e quale che sia, qualsiasi cosa gli accada, qualsiasi cosa vi sia dentro e fuori di esso, sia un corpo forte o debole, alto o basso, lontano o vicino, sappiate dunque, o monaci che non è mio tutto questo corpo, io non sono questo e questo non è il mio io: questa è la verità contemplata da chi possiede la vera saggezza". [Identiche parole sono ripetute riguardo agli altri aggregati.] "Chi ha questa visione, o monaci, il discepolo saggio e nobile, prova repulsione per il corpo, per le sensazioni, per le idee, per gli impulsi istintivi, per la coscienza. Grazie a questa repulsione il discepolo è affrancato dalle passioni, e affrancato dalle passioni egli è libero, e una volta libero egli acquista retta consapevolezza: ecco, sono libero!, e comprende che non vi sarà più per lui una nuova nascita, che egli è entrato nella vita di santità, che compiuto è il suo dovere, che non vi è più per lui vita in questo mondo". Così parlò il Beato, e i cinque monaci ne furono conquistati: lodarono essi le parole del Beato, e a seguito di questo discorso si trovò ormai distaccato dal mondo lo spirito di ciascuno dei monaci, e liberato dalla corruzione del peccato. Vi furono così nel mondo sei Arhat, sei santi. (dal Mahavagga) L'ATTO DI NASCITA DEL BUDDHISMO [Buddha, Dhamma e Samgha (Comunità) costituiscono il "Triplice Rifugio" nel quale ogni monaco ripone tutta la sua speranza.] In quel tempo se ne tornavano i monaci da ogni dove con delle persone che volevano rinunciare al mondo e dal Buddha volevano ricevere l'ordinazione; si dicevano l'un l'altro i monaci: "Il Beato conferirà loro l'ordinazione inferiore e l'ordinazione superiore". Ma i monaci erano stanchi per il viaggio, così come quelli che desideravano ricevere l'ordinazione; meditava intanto il Beato nella solitudine, e questa considerazione si presentò al suo spirito: "Da ogni dove i monaci mi recano persone che desiderano rinunciare al mondo e ricevere l'ordinazione, e si dicono l'un l'altro: "il Beato conferirà loro l'una o l'altra ordinazione"; ma ora sono stanchi per il viaggio i monaci e quelli che desiderano ricevere l'ordinazione. Meglio sarebbe allora accordare ai monaci un'autorizzazione concepita in questi termini: "Ormai, o monaci, conferite voi stessi in ogni regione l'ordinazione inferiore e l'ordinazione superiore"". Uscito nel corso della serata dal luogo del SUO isolamento per dare attuazione al suo progetto, tenuto per l'occasione un discorso religioso, disse il Beato ai monaci: "Mentre meditavo nel luogo del mio isolamento, questa considerazione si è presentata al mio spirito: "Io vi accordo, o monaci, questa autorizzazione: ormai conferite voi stessi, monaci, nelle diverse regioni, le due ordinazioni, inferiore e superiore, a chi desidera riceverle. E in questo modo, o monaci le conferirete: colui che desidera ricevere l'ordinazione si tagli per prima cosa i capelli e la barba, indossi poi tuniche gialle, e sistemi la tunica esterna in modo da gettarla su una delle spalle; indi saluti il monaco con la testa e si segga con le gambe piegate; congiunga infine le mani e dica davanti a voi: "Io mi rifugio nel Buddha, io mi rifugio nella Legge (Dhamma), io mi rifugio nella Comunità dei monaci (Samgha)", e questa formula ripeta una seconda e una terza volta. Vi ordino, o monaci, che la rinuncia al mondo sia espressa con l'ordinazione, conferita per mezzo di questa dichiarazione tre volte ripetuta. A quel tempo conducevano vita santa secondo la regola del Beato molti giovani di alto lignaggio, che appartenevano alle più nobili famiglie del Magadha. E il popolo era inquieto, mormorava e manifestava la propria preoccupazione: L'asceta Gotama priva i genitori dei propri figli e rende vedove le mogli; l'asceta Gotama distrugge le famiglie: a mille Jatila ha conferito l'ordinazione, e a duecentocinquanta asceti erranti che erano i discepoli di Sanjaya, e tutti questi giovani vivono ora in stato di santità secondo la regola dell'asceta Gotama". E quando il popolo incontrava i monaci, li ingiuriava con queste parole: "Accompagnato da tutti i fedeli di Sanjaya, è giunto l'asceta Gotama dal Magadha a Rajagaha: chi convertirà adesso?". Udivano i monaci che il popolo era inquieto, mormorava e manifestava il proprio disappunto; di ciò informarono allora il Beato, che rispose loro: "Non dureranno a lungo, o monaci, questi malumori, ma soltanto sette giorni; in capo a sette giorni saranno completamente cessati; se il popolo vi ingiuria, o monaci, rispondete con questa sequenza: "Solo a motivo di un Dhamma di verità i Tathagata convertono gli uomini; chi dunque mormorerà contro i saggi? Perché dolersi dei saggi che alla verità conducono gli uomini"". E così, ogni qualvolta la gente del popolo insultava i monaci nei quali si imbatteva, rispondevano i monaci proclamando la sequenza che era stata loro insegnata dal Beato. E il popolo allora comprese: "In virtù del Dhamma e non in contrasto con la verità gli asceti Sakyaputtya [discepoli di Sakyamuni] convertono gli uomini". Soltanto sette giorni durò il malumore, e alla fine dei sette giorni era del tutto cessato. (dal Mahavagga) VII La conversione dei grandi discepoli YASA, IL PRIMO DISCEPOLO LAICO [Pur essendo un laico, Yasa può comprendere il messaggio del Buddha, perché ha vissuto la rinuncia, la "dipartita", proprio come a 29 anni la visse il principe Siddhartha. Per nasconderlo alla collera paterna il Buddha fa ricorso (ma è evento raro nella vita dell'illuminato) ai suoi poteri miracolosi (siddhi, pali iddhi).] Viveva in quel tempo a Benares un giovane di buona famiglia, Yasa, figlio di un banchiere, che conduceva una vita dedita ai piaceri. Tre palazzi possedeva: uno per l'inverno, uno per l'estate, e uno per la stagione delle piogge. In quest'ultimo palazzo trascorreva, senza mai uscirvi, i quattro mesi piovosi, in compagnia di donne esperte nel canto. Un giorno Yasa si addormentò più presto del solito, dopo essersi abbandonato ai piaceri dei sensi, e, poco dopo, si addormentarono anche le donne, illuminate da una lampada ad olio che rimaneva accesa tutta la notte. Si ridestò Yasa, il figlio di buona famiglia, più presto del solito, e vide le donne addormentate: l'una teneva il SUO liuto appoggiato contro le ascelle, un'altra aveva un piccolo tamburo vicino al collo, un'altra ancora aveva un tamburo contro le ascelle; aveva una i capelli sciolti, e dalla bocca di un'altra scendeva la saliva; tutte poi parlavano in modo sconnesso durante il sonno. Si poteva credere di essere in mezzo a un cimitero: comprese Yasa, a quella vista, i mali della vita, provò profondo disgusto e proruppe in questa esclamazione: "Ahimè, quale miseria invade il mondo, quale sciagura!" Calzò Yasa i suoi sandali d'oro e si diresse verso la porta della sua casa: furono degli esseri che non appartenevano alla specie umana ad aprire la porta, e nessun essere umano poté impedire a Yasa di rinunciare al mondo, per condurre la vita errante degli asceti. E Yasa si recò al Parco delle gazzelle, al parco di Isipatana. Il Beato che si era alzato durante la notte, stava passeggiando, di buon ora all'aria aperta. Da lontano il Beato vide arrivare Yasa, il figlio di buona famiglia, e subito lasciò il luogo dove stava passeggiando, mettendosi a sedere su una sedia che era stata collocata in precedenza. E mentre si dirigeva verso il Beato ripeteva Yasa questa affermazione: "Ahimè, quanto grande è la miseria del mondo, quale la sua sventura!". E il Beato disse a Yasa: "Non esiste, Yasa, la miseria, non esiste la sciagura; vieni Yasa, siediti; ti insegnerò il Dhamma". E Yasa, il figlio di buona famiglia, si colmò di gioia e di felicità, all'udire che la miseria non esisteva e non esisteva la sciagura; si tolse allora i sandali d'oro e si avvicinò al Beato, lo salutò rispettosamente e si sedette al suo fianco. Subito incominciò il Beato ad istruirlo con l'insegnamento graduale, lo intrattenne, cioè, sulla carità, la moralità e le ricompense celesti, e gli mostrò la miseria, la vanità e la sozzura dei piaceri, facendolo poi riflettere sulla felicità che deriva dalla rinuncia ai desideri. Quando il Beato riconobbe che pronto era lo spirito di Yasa, ben disposto e libero da ogni ostacolo, si alzò, si voltò verso di lui, e incominciò ad impartirgli l'insegnamento dei Buddha: il dolore, la causa del dolore, la soppressione del dolore e la via che conduce alla soppressione del dolore. Proprio come una stoffa pura e senza macchia prende bene la tintura, così ottenne Yasa l'occhio puro del Dhamma e comprese che tutto ciò che è soggetto alla nascita è soggetto alla distruzione. Non trovando Yasa nel palazzo, la madre di Yasa andò dal signore del palazzo, da suo marito, e gli disse: "Tuo figlio Yasa, signore, è scomparso". Allora inviò il signore del palazzo dei messaggeri a cavallo in ogni direzione, e si recò di persona al Parco delle gazzelle, al parco di Isipatana. Vide allora le impronte lasciate dai sandali d'oro, e le seguì fino all'ultima. Da lontano il Beato vide che il signore del palazzo stava arrivando, e appena lo vide pensò: "E se mi servissi del mio potere miracoloso per far sì che, una volta arrivato qui, il signore del palazzo non veda Yasa?" E sfruttò il Beato il suo potere soprannaturale. Arrivò il signore del palazzo, si avvicinò al Beato e disse: "Vuol dirmi il Beato se qui ha visto Yasa, il figlio di buona famiglia?". "Bene, signore", rispose il Beato, "siediti qui, e può darsi che, sedendoti qui, tu vedrai Yasa, il figlio di buona famiglia, che qui si trova". Gioia e felicità provò il signore del palazzo pensando: "Certamente se mi siederò qui vedrò Yasa, il figlio di buona famiglia, che qui si trova", e, salutato con rispetto il Beato, si sedette al suo fianco. Una volta sedutosi, il Beato gli comunicò l'insegnamento graduale, istruendolo sulla carità, sulla morale e sulle ricompense celesti, nonché sulla miseria, la vanità e la sozzura dei desideri e sulla felicità che deriva dalla rinuncia ai desideri. E il signore del palazzo, conosciuto il Dhamma e acquisitone possesso, immerso nella profondità del Dhamma e trionfatore di ogni dubbio, libero da ogni esitazione e tutto pervaso dalla rivelazione, senza di nulla aver bisogno in virtù della fede nel Dhamma del maestro, così parlò al Beato: "Gloria a te, signore, gloria a te, signore. Come si raddrizza ciò che è capovolto e come si disvela ciò che è nascosto, come si indica la via a chi l'ha smarrita e come si reca una lampada perché coloro che hanno occhi e si trovano nell'oscurità possano distinguere gli oggetti visibili, così il Beato in diversi modi ha insegnato il Dhamma. Voglia il Beato accogliermi, da oggi fino all'ultimo dei miei giorni, nella schiera dei suoi fedeli laici, voglia il Beato accogliere chi in lui confida". Meditava intanto Yasa, il figlio di buona famiglia, sulla conoscenza che aveva ricevuto e che aveva compreso con il suo spirito: fu liberato il suo spirito dall'attaccamento al mondo e affrancato dalla corruzione del peccato. Allora pensò il Beato: "Ha meditato Yasa, mentre suo padre riceveva i miei insegnamenti, sulla scienza che anch'egli ha ricevuto e che ha compreso con il suo spirito; è stato liberato il suo spirito dall'attaccamento al mondo ed affrancato dalla corruzione del peccato; Non è possibile, allora, che Yasa, il figlio di buona famiglia, ritorni nel mondo e si abbandoni ai piaceri come faceva prima, quando viveva nel mondo. E se facessi dunque cessare i miei poteri miracolosi?". Fece allora cessare il Beato l'effetto del suo potere miracoloso, e così il signore del palazzo vide Yasa seduto al suo fianco. Disse a Yasa il signore del palazzo: "Yasa, figlio mio, tua madre è in pena e vive nell'afflizione; restituiscile la vita!". Allora Yasa rivolse il suo sguardo al Beato, e il Beato disse al signore del palazzo: "Qual è dunque la tua idea? Credi che Yasa abbia del Dhamma soltanto una conoscenza e un'intelligenza imperfetta come la tua, oppure credi che egli davvero abbia meditato sulla conoscenza appresa e compresa dal suo spirito, e che davvero sia stato liberato dall'attaccamento al mondo e affrancato dalla corruzione del peccato? Potrebbe accadere che Yasa ritorni nel mondo e si abbandoni ai piaceri come faceva prima, quando viveva nel mondo?" "No, signore". "Yasa il figlio di famiglia, ha acquisito una conoscenza imperfetta della Legge, proprio come te, ma, quando ha meditato sulla conoscenza ricevuta e compresa dal suo Spirito, il suo spirito è stato liberato dall'attaccamento al mondo e affrancato dalla corruzione del peccato: non è possibile, signore, che Yasa ritorni nel mondo e si abbandoni ai piaceri come faceva prima, quando viveva nel mondo". "Grande conquista è per Yasa, o Beato, grande felicità per lui, se il suo spirito è libero dall'attaccamento al mondo e affrancato dalla corruzione; si degnerà il Beato di venire domani, in compagnia di Yasa, a pranzare con me?" Il Beato manifestò il suo consenso con un cenno, in silenzio, e il signore del palazzo, dopo aver compreso che il Beato accettava il suo invito, si alzò dalla sua sedia, salutò con rispetto il Beato, girò attorno a lui lasciandolo sulla destra, e si allontanò. Subito dopo la partenza del signore del palazzo, disse Yasa al Beato: "Voglia il mio maestro accogliermi come monaco, voglia il Beato concedermi l'ordinazione!" "Avvicinati, o monaco", disse il Beato, "ben insegnata è la Legge: conduci una vita santa, per porre fine al dolore". Così ricevette il venerabile l'ordinazione, e sette divennero allora i santi (Arhat) che vivevano sulla terra. Nel corso della mattinata indossò il Beato la sua tunica, prese il mantello e la ciotola per l'elemosina e si recò alla dimora del signore del palazzo accompagnato dal suo fedele Yasa; arrivato che fu, si sedette su una sedia che gli era stata preparata e allora la madre, e la donna che del venerabile Yasa era stata la sposa, si diressero verso il Beato, lo salutarono con rispetto e si sedettero al suo fianco. Allora impartì loro il Beato l'insegnamento graduale, le intrattenne cioè sulla carità... [descrizione analoga a quella delle altre ordinazioni] finché esse ottennero l'occhio puro e senza macchia del Dhamma e compresero che tutto ciò che è soggetto alla nascita è soggetto alla distruzione. Forti allora della conoscenza del Dhamma, paghe del possesso del Dhamma e immerse nella profondità del Dhamma, vittoriose SU ogni dubbio e senza esitazioni, tutte pervase dalla rivelazione, sollevate da ogni bisogno in virtù della loro fede nel maestro, così parlarono al Beato: "Gloria a te, signore, gloria a te, signore. Come si raddrizza ciò che è rovesciato e si disvela ciò che è nascosto, come si indica la via a chi l'ha smarrita e si reca una lampada perché chi ha occhi possa nell'oscurità distinguere le forme degli oggetti visibili, così ha il Beato insegnato il Dhamma in modi diversi. Noi cerchiamo rifugio, signore, nel Beato, nel Dhamma e nella Comunità dei monaci. Voglia il Beato accoglierci, da oggi e fino alla fine dei nostri giorni, come sue fedeli, voglia accogliere il Beato noi che in lui cerchiamo rifugio". Furono queste donne le prime zelatrici al mondo a rifugiarsi sotto la formula della triplice invocazione: Buddha, Dhamma, Samgha. E la madre e il padre e quella che del venerabile Yasa era stata la sposa si misero a servire con le loro mani, e al Beato e al venerabile Yasa offrirono alimenti delicati, teneri e duri; quando poi il Beato ebbe terminato il suo pasto ed ebbe lavato la sua ciotola e le sue mani, tutti si sedettero al suo fianco. Allora il Beato istruì, esortò, incoraggiò e riempì di gioia, con un sermone religioso, il padre, la madre, e colei che era stata la sposa di Yasa; poi si alzò dal suo giaciglio e prese la via del ritorno. A quell'epoca giunse alle orecchie di quattro laici, amici del venerabile Yasa e appartenenti a famiglie di notabili di Benares e a famiglie della seconda casta Vimala, Subahu, Punnaji e Gavampati erano i loro nomi questa notizia: "Yasa, il figlio di buona famiglia, si è tagliato i capelli e la barba, ha indossato la tunica gialla, ha rinunciato al mondo e ha scelto la vita errante degli asceti". Appresa questa notizia si dissero l'un l'altro: "Non deve essere una regola ordinaria quella che ha convinto Yasa, il figlio di buona famiglia, a tagliarsi i capelli e la barba, a indossare la tunica gialla, a rinunciare al mondo e a scegliere la vita errante degli asceti; certo non è la sua una rinuncia al mondo come tante altre". Si recarono tutti e quattro al luogo dove si trovava Yasa, gli si avvicinarono, lo salutarono con rispetto e si fermarono in piedi al suo fianco; il venerabile Yasa andò allora con i suoi quattro amici laici al luogo dove si trovava il Beato, lo salutò con rispetto e si sedette al suo fianco. In questa posizione disse il venerabile Yasa al Beato: "Ecco, signore, quattro dei miei amici laici che appartengono a famiglie di notabili di Benares e a famiglie della seconda casta: Vimala, Subahu, Punaji e Gavampati sono i loro nomi. Voglia il Beato esortare ed istruire questi quattro amici". Allora il Beato impartì loro l'insegnamento graduale, li intrattenne cioè sulla carità... [come in precedenza]. Divennero così undici i santi che vivevano sulla terra. (dal Mahavagga) UN'ALLEGRA BRIGATA Esaurito il suo soggiorno a Benares, partì il Beato per Uruvela lasciata a un certo punto la via maestra, si addentrò in un piccolo bosco e si sedette ai piedi di un albero. Vi era in quel momento in quel piccolo bosco anche un'allegra brigata di trenta amici, giovani e ricchi, che si divertivano con le loro mogli; e dal momento che uno di questi giovani non aveva moglie, gli era stata procurata una cortigiana mentre erano tutti presi dal loro divertimento e ad altro non potevano pensare, si impadronì la cortigiana di oggetti che appartenevano a loro, e subito fuggì. Per rendere servizio al loro amico si misero i trenta compagni alla ricerca della donna e, mentre perlustravano il piccolo bosco, videro il Beato seduto ai piedi di un albero; una volta che gli furono vicini, gli dissero: "Ha visto passare, il Beato, una donna". "E perché mai, o giovani, vi interessa questa donna?" "Ci divertivamo, signore, in quel piccolo bosco, con le nostre donne, noi trenta amici, giovani e fortunati; e poiché uno di noi non aveva donna, gli abbiamo procurato una cortigiana: ebbene, signore, mentre noi eravamo tutti presi dal nostro divertimento e di altro non potevamo occuparci, la cortigiana si è impadronita di oggetti che a noi appartengono ed è fuggita. Ecco perché, signore, per rendere servizio al nostro amico, cerchiamo tutti questa donna e perlustriamo il bosco". " Ma ditemi, giovani, cosa ne pensate: cos'è più vantaggioso per voi impegnarvi nella ricerca della donna, o impegnarvi piuttosto nella ricerca del vostro io?" "Più vantaggioso per noi sarebbe, signore, andare alla ricerca del nostro io". "Se dunque è così, o giovani, sedetevi: vi insegnerò il Dhamma". (dal Mahavagga) L'INCONTRO CON I FRATELLI BRAHMANI [Sarà ricco di destino quest'incontro con i fratelli Kassapa: il più anziano di essi, noto in sanscrito come Mahakasyapa, sarà il successore del Buddha alla guida della Comunità; alla fine dei tempi, quando discenderà in terra il nuovo Buddha Maitreya, Mahakasyapa si desterà dal suo sonno secolare per consegnare a lui la tunica monacale dell'illuminato]. Viaggiando a tappe giunse il Beato ad Uruvela; e ad Uruvela dimoravano in quel tempo tre jatila [asceti dai capelli scarmigliati]: Uruvela Kassapa, Nadi Kassapa, e Gaya Kassapa. Il jatila Uruvela Kassapa era il capo, la guida e il più nobile di cinquecento jatila, mentre Nadi Kassapa era il capo, la guida e il più nobile di trecento Jatila; Gaya Jatila, infine, era il capo, la guida e il più nobile di duecento Jatila. Nei pressi del fiume Neranjara [sanscrito: Nairanjana], disse il Beato al jatila Uruvela Kassapa: "Se ciò non ti dispiace, Kassapa, verrò presso il tuo focolare a passare la notte". "Mi sembra proprio una cattiva idea, grande asceta: vi è là infatti un truce re di serpenti, dotato di poteri magici, un serpente terribilmente velenoso; temo proprio che | potrebbe farti del male". | "Non mi farà alcun male: fammi posto, Kassapa, presso il tuo focolare". | Con il consenso di Kassapa entrò senza paura in casa di Kassapa colui che ogni paura aveva superato. E non appena il capo dei serpenti vide entrare il Saggio, irritato gli lanciò contro una nube di fumo, dopodiché, incapace di controllare la sua collera, scatenò una violenta tempesta di fiamme. Anche il capo degli uomini, il signore supremo dell'elemento fuoco, lanciò allora delle fiamme e, mentre entrambi dalle fiamme erano circondati, i jatila li osservavano e pensavano: "Certo, ben capace è il Beato, ma il serpente gli farà comunque del male". Passata che fu la notte, le fiamme del serpente erano ormai spente, mentre le fiamme variopinte di colui che era dotato di potere miracoloso ancora ardevano: nere, blu, rosse, rosa, gialle e bianche come cristallo apparivano le fiamme sul corpo di Gotama; messo allora il serpente nella sua ciotola per le elemosine, il Beato lo mostrò al brahmano e gli disse: "Guarda il serpente, Kassapa, il suo fuoco dal mio fuoco è stato vinto". Sentì nascere in sé, il jatila Uruvela Kassapa, una grande fiducia nel Beato, a seguito di questo prodigio, e disse allora al Beato: "Resta con me, grande asceta, penserò io ad assicurarti ogni giorno ciò che ti serve per vivere". [Una seconda redazione dello stesso episodio narra quanto segue.] Venne a trovarsi il Beato in un piccolo bosco nei pressi dell'eremitaggio del jatila Uruvela Kassapa; e nel luogo dove si trovava il Beato giunsero, nel corso di una notte eccezionalmente luminosa, i Deva dei quattro cieli, che tutto il bosco illuminavano con lo splendore del loro corpo; si avvicinarono, allora, salutarono con rispetto il Beato e come grandi fiaccole si tennero ai quattro punti cardinali. Passata che fu la notte, il jatila Uruvela Kassapa si recò laddove si trovava il Beato, e gli disse: "L'ora del pasto è giunta, grande asceta, il tuo cibo è pronto. E chi erano, asceta, quelli che in questa notte luminosissima sono venuti ad illuminare tutto il bosco con lo splendore del loro corpo e come delle grandi fiaccole si sono fermati ai quattro punti cardinali?". "Erano, o Kassapa, i Deva dei quattro cieli, che venivano ad ascoltare i miei insegnamenti". Pensò allora il jatila Uruvela Kassapa: "Veramente il grande asceta possiede un potere miracoloso superiore e comunque delle grandi doti, se addirittura vengono ad ascoltare il SUO insegnamento i Deva dei quattro cieli; ma in ogni caso, egli non ha comunque acquisito i meriti che io possiedo. Non è un santo come me". [Con identiche parole si descrive poi l'apparizione di Sakka (sanscrito: Sakra), re dei Deva, e quella dello stesso dio Brahma, il dio che ha convinto il Buddha a divulgare la dottrina.] Prese dunque il Beato il cibo offertogli dal jatila Uruvela Kassapa e continuò a dimorare in quel piccolo bosco. Si avvicinava il tempo del grande sacrificio che il jatila Uruvela Kassapa usava di tanto in tanto celebrare, e tutte le genti di Anga e del Magadha, che a questo sacrificio desideravano assistere, portavano offerte in grande quantità. Pensò allora il jatila Uruvela: "Sta per avere luogo il mio grande sacrificio, e tutte le genti di Anga e del Magadha a me portano offerte in grande quantità, se davanti a tutta questa folla dovesse il grande asceta compiere uno dei suoi prodigi, l'onore e la gloria che egli andrà ad ottenere diminuiranno sicuramente il mio prestigio. Meglio sarebbe dunque che qui non venisse, domani, il grande asceta". Colse il Beato, grazie ai poteri del suo spirito, i pensieri del jatila Uruvela, e si recò allora a Uttarakuru: dopo aver qui mendicato, se ne andò al lago Anotta con gli alimenti che aveva ricevuto e consumò lì il suo pasto, fermandosi poi a riposare durante le ore più calde della giornata. Passata la notte giunse il jatila Uruvela laddove si trovava il Beato, gli si avvicinò e gli disse: "L'ora del pasto è giunta, o asceta, il tuo cibo è pronto; e perché, grande asceta, ieri non sei venuto? Pensavo a te e mi chiedevo: "Perché mai non viene il grande asceta?" e lì ti attendeva la tua razione di cibo". Rispose il Buddha: "Non è forse vero che tu hai pensato: sta per avere luogo il mio sacrificio...? Allora, o Kassapa, ho colto, grazie ai poteri del mio spirito, i tuoi pensieri e sono andato a Uttarakuru; lì ho mendicato e me ne sono poi andato, con gli alimenti che ho raccolto, al lago Anotta, dove ho consumato il mio pasto e sono rimasto a riposare durante le ore più calde della giornata". Pensò allora il jatila Uruvela Kassapa: "Veramente il grande asceta possiede un potere miracoloso superiore, se con la potenza del suo spirito è in grado di cogliere i pensieri di altri. Ma non ha comunque acquisito i meriti che io possiedo [...]". Si nutrì il Beato con gli alimenti offertigli dal jatila e continuò a dimorare in quel piccolo bosco. In un cumulo di immondizia il Beato aveva raccolto dei cenci da cui voleva ricavare una tunica; pensò allora: "Dove posso andare a lavare questi stracci?". Cogliendo il pensiero che si presentava allo spirito del Buddha, con le sue mani Sakka, re dei Deva, forgiò un catino e disse al Beato: "Voglia il Beato lavare qui i suoi cenci". Pensò il Beato: " Dove posso andare a strofinare questi stracci?", e allora Sakka, il re dei Deva, colti i pensieri che si presentavano allo spirito del Buddha, collocò lì una grossa pietra e disse: "Voglia il Beato strofinare i suoi cenci su questa pietra". [Il testo si dilunga a descrivere con precisione altri aiuti analoghi ricevuti dal Beato, che poi racconta al jatila, in ogni particolare, quanto è accaduto.] Il jatila pensò allora: "Davvero il grande asceta possiede dei poteri miracolosi e delle grandi doti, se anche Sakka, re degli dei, si preoccupa di aiutarlo; ma non ha comunque acquisito tutti i meriti che io possiedo". E il Beato si nutrì con il cibo offertogli dal jatila e continuò a dimorare in quel piccolo bosco. Passò ancora la notte, e di nuovo venne il jatila Uruvela Kassapa al luogo dove si trovava il Beato, per annunciargli l'ora del pasto: "L'ora del pasto è giunta, o grande asceta, il tuo cibo è pronto". Rispose questa volta il Buddha: "Vai, Kassapa, io arrivo fra poco", e, mentre Kassapa si allontanava, andò a cogliere il frutto di una melarosa. Arrivato poi a casa prima dello stesso Kassapa, si sedette laddove era conservato il fuoco sacro del brahmano Kassapa. Quando Kassapa arrivò e vide il Beato seduto laddove si conservava il fuoco sacro, gli disse: "Da che strada sei arrivato, grande asceta? Io sono partito prima di te eppure tu sei arrivato per primo e ti trovo qui seduto vicino al fuoco sacro!". "Quando tu ti sei allontanato, Kassapa, sono andato a cogliere un frutto di melarosa e mi sono poi diretto qui arrivando prima di te e sedendomi qui vicino al fuoco sacro; ecco il frutto che ho colto, il frutto Jambu, bello, profumato e gustoso: mangialo, se lo desideri". "Eh no, grande asceta! Tu solo sei degno di mangiarlo, e allora, mangialo!" Pensò quindi il jatila Urovela: "Veramente il grande asceta possiede dei poteri miracolosi e delle doti eccezionali, se ha avuto il tempo, dopo avermi fatto partire prima di lui, di andare a cogliere un frutto, arrivando a casa prima di me e mettendosi a sedere qui vicino al fuoco sacro. Non ha tuttavia acquisito i meriti che io possiedo". [Il testo narra a questo punto con analoghi accenti altri tre episodi simili: il Buddha giunge per primo alla casa del Jatila dopo aver colto prima un frutto di un mango, poi un frutto di mirobolano giallo, e infine un fiore di paricattaka.] Volevano i jatila preparare i fuochi sacri, ma non riuscivano a tagliare la legna; pensarono allora: "Senza dubbio è il potere miracoloso del grande asceta che ci impedisce di tagliare la legna". Disse allora il Beato al jatila Uruvela: "Bisogna tagliare la legna, o Kassapa?". "Aiutaci a tagliarla, grande asceta!" E in un attimo i cinquecento pezzi di legno furono tagliati, e il jatila Uruvela pensò: "Veramente l'asceta ha dei poteri soprannaturali... Ma certo non ha acquisito i meriti che io possiedo". [Il testo descrive a questo punto altri due prodigi operati dal Buddha: i jatila accendono grazie al suo aiuto i fuochi sacri che da soli non riescono ad accendere, e con il suo aiuto li spengono non riuscendovi da soli.] Al tempo delle feste Achtaka, nelle fredde notti d'inverno, quando cadeva la neve, i jatila si immergevano nelle acque del fiume Neranjara e ne uscivano per poi entrarvi di nuovo, e questo per diverse volte. E il Beato fece apparire cinquecento ceste piene di carboni ardenti con i quali i jatila potessero scaldarsi quando uscivano dalle acque del fiume. Pensarono i jatila: "Certo è per il potere miracoloso del Beato che ci appaiono questi carboni ardenti". Disse allora il Beato: "Scaldati, Kassapa". "Scaldati tu, grande asceta", rispose il jatila. E il Jatila Uruvela pensò: "Veramente il grande asceta possiede un potere miracoloso e delle doti eccezionali, se può fare apparire queste ceste piene di carboni ardenti, ma non ha comunque acquisito i meriti che io possiedo". Cadde in quel tempo una grande quantità di pioggia, fuori stagione, e ne seguì una grande inondazione; sommerso dalle acque era anche il luogo dove si trovava il Beato, e il Beato pensò: "Potrei fare ritirare le acque qui intorno per poi percorrere la superficie delle acque su di un pezzetto di terra". E il Beato fece ritirare le acque lì intorno, e percorse la superficie delle acque su di un pezzetto di terra. Temeva il jatila Uruvela Kassapa che le acque avessero trascinato via il grande asceta, e si recò con una barca, in compagnia di altri jatila, laddove si trovava il Beato, lo vide allora mentre faceva ritirare le acque intorno a sé e se ne andava per la superficie delle acque su di un pezzetto di terra. "Sei tu, grande asceta?", chiese il jatila. "Sì, sono io", rispose il Beato, e librandosi nell'aria andò a posarsi sulla barca. Pensò il jatila Uruvela: "Certo è vero che l'asceta possiede il potere miracoloso e grandi doti, se nemmeno le acque sono riuscite a trascinarlo via; in ogni caso comunque, egli non ha acquisito i meriti che io possiedo". Pensò allora il Beato: "Ancora a lungo quest'uomo insensato crederà che io abbia dei poteri miracolosi, ma senza avere acquisito i meriti che lui possiede: giunto è ormai il momento di toccare il cuore di questo jatila". E il Beato disse al jatila Uruvela Kassapa: "Tu non sei un santo, Kassapa, e non sei ancora entrato neppure nella via che alla santità conduce" Allora il jatila Uruvela si gettò a terra, rese omaggio al Beato e gli disse: "Possa io ricevere dal Beato l'ordinazione". "Tu, o Kassapa", rispose il Beato, "tu sei il capo, la guida e il più nobile di cinquecento jatila: vai allora subito a comunicare loro la tua decisione, e lascia che essi agiscano come meglio credono". Andò subito Kassapa dai jatila e disse loro: "Voglio condurre la vita religiosa sotto la guida del grande asceta; voi farete, da parte vostra, come vi piacerà?". "Da molto tempo", risposero gli altri jatila, "noi abbiamo fede nel grande asceta: se tu scegli la vita religiosa sotto la guida del grande asceta, anche noi, Kassapa, sceglieremo la stessa strada". Allora i jatila gettarono subito nel fiume i loro capelli, i loro strumenti e tutto ciò che serviva per il sacrificio, recandosi subito al luogo dove si trovava il Beato. Gli si avvicinarono, si inchinarono al suo cospetto e gli dissero: "Desideriamo ricevere l'ordinazione dal Beato". "Avvicinatevi", disse il Beato, "ben insegnata è la Legge: conducete una vita di santità per giungere alla soppressione del dolore". E così questi venerabili ricevettero l'ordinazione. Vide il jatila Nadi Kassapa i capelli, gli strumenti e gli oggetti destinati al sacrificio; i capelli e tutti quegli oggetti vide trascinati via dal fiume. Temette a quella vista che un malore avesse colpito il suo fratello, e alla ricerca di suo fratello inviò alcuni jatila e si recò lui stesso, con i suoi trecento jatila, al luogo dove dimorava il jatila Uruvela Kassapa. Disse allora al venerabile Kassapa: "Forse che ora la vita è per te migliore?" "Certo, amico, migliore è la mia vita". [La serie dei miracoli si ripete nei minimi particolari per altre due volte, fino alla conversione dei jatila Nadi Kassapa e Gaya Kassapa con tutto il loro seguito.] Con l'intervento del Beato furono tagliati cinquecento pezzi di legno che non si potevano tagliare, e furono accesi i fuochi che non si riusciva ad accendere; furono anche spenti i fuochi che non si spegnevano e, in più apparvero anche cinquecento bracieri di carboni ardenti. Tremila e cinquecento: questo è il numero dei prodigi allora compiuti dal Beato. (dal Mahavagga) IL BUDDHA E IL RE BIMBISARA [Ritroviamo Bimbisara, re del Magadha, che già aveva offerto metà del Suo regno al giovane Siddhartha in cambio della conoscenza. Convertitosi al Dharma, egli fa dono al Buddha della Foresta di Bambù, o parco di Veluvana (sanscrito: Venuvalla). Bimbisara rimarrà mecenate e amico personale del Buddha fino alla morte, avvenuta per mano del figlio Ajatasatru che fece imprigionare il padre per usurparne il regno.] Rimasto sul monte di Gaya per tutto il tempo che riteneva necessario, partì il Beato alla volta di Rajagaha, seguito da un gran numero di monaci, e dai mille monaci che erano stati jatila. Viaggiando a tappe giunse il Beato a Rajagaha, e prese dimora nel parco di Latthivana, vicino al santuario di Supatittha. Giunse allora alle orecchie di Bimbisara, re del Magadha, questa notizia: "Da poco è giunto qui l'asceta Gotama, della tribù degli Sakya, e ha preso dimora nel parco di Latthivana, vicino al santuario di Supatittha: lontano è ormai diffusa la fama del Beato Gotama, ed egli è veramente il Buddha perfetto e compiuto, il santo, dotato di scienza e retta condotta, colui che a tutto il mondo dispensa la sua felicità, il Buddha supremo che guida gli uomini capaci di accogliere la sua dottrina, il precettore degli dei e degli uomini. Egli insegna la verità che da solo ha compreso vedendola a faccia a faccia, la insegna a questo insieme smisurato di mondi, popolati ciascuno dai propri Deva, primi fra tutti Mara e Brahma, e a tutti gli esseri, brahmani e asceti, uomini e dei, egli predica questo Dhamma buono al suo principio, buono in mezzo al suo cammino, e buono alla sua fine, nel suo spirito come nelle sue parole, e raccomanda una vita di santità pura e assolutamente perfetta. Vera fortuna è poterlo vedere, un santo quale è quest'uomo!". Si recò allora il re, circondato da dodici miriadi di brahmani e di signori del Magadha, al luogo dove si trovava il Beato, salutò con rispetto il Beato e si sedette al suo fianco. Anche i brahmani e i signori del Magadha si sedettero tutti accanto al Beato, gli uni rivolgendo a lui parole di stima, gli altri dicendo a lui il proprio nome e quello della propria famiglia, altri ancora rimanendo in silenzio. Pensarono allora tutti quei brahmani, dodici miriadi!, e tutti i signori di Magadha: "Cosa mai accadrà? Sarà questo grande asceta che condurrà la vita santa sotto la guida di Uruvela Kassapa, oppure sarà Uruvela Kassapa a condurre la vita religiosa sotto la guida del Beato?". Comprese il Beato i pensieri che si agitavano nel cuore dei brahmani e dei signori di Magadha, e parlò in versi al venerabile Uruvela Kassapa: "Cosa hai dunque visto, tu che in Uruvela dimori e "il Magro" sei soprannominato, cosa hai visto dopo che al sacrificio del fuoco hai rinunciato?". "Solo la vista", rispose Kassapa, "e l'udito, il gusto e i desideri dei sensi nel sacrificio nel fuoco trovano soddisfazione; e dopo aver compreso che impuro è tutto ciò che concorre a produrre una nuova nascita, nessun piacere provo più per i sacrifici e per le offerte". "Ma", riprese il Beato, "dimmi, o Kassapa: se il tuo spirito non prova più piacere per tutto ciò che è gradevole alla vista, all'udito e al gusto, e ai sensi dà soddisfazione, per quale delle cose che sono nel mondo degli dei e degli uomini prova allora piacere il tuo spirito?" "Ho contemplato", rispose Kassapa, "una condizione felice in cui non vi è più motivo per il sorgere di una nuova vita né vi è più alcun ostacolo, la condizione da cui è assente l'attaccamento alla vita dei sensi, la condizione che non cambia mai e dalla quale non ci si allontana più; ed è per questo che più non provo alcun piacere per i sacrifici e per le offerte". Poi il venerabile Kassapa si alzò dal suo giaciglio, si sistemò la tunica in modo che andasse a coprire una sola spalla, e si prostrò per salutare il Beato, dicendogli: "Il Beato è il mio Maestro, ed io sono il suo allievo!". Pensarono allora le dodici miriadi di brahmani e i signori di Magadha: "Uruvela Kassapa conduce vita religiosa sotto la guida del Grande asceta". Comprese allora il Beato i pensieri che si agitavano nello spirito delle dodici miriadi di Brahmani e dei signori di Magadha, e impartì loro l'insegnamento graduale. [Q] E così quella moltitudine di persone fece la sua professione di fede e vi fu allora una nuova moltitudine di fedeli laici. E Bimbisara, re del Magadha, che conosceva il Dhamma e dal Dhamma era pervaso, che possedeva il Dhamma e nelle profondità del Dhamma si immergeva, trionfatore su ogni dubbio e su ogni esitazione, libero da qualsiasi bisogno in virtù della sua fede nella dottrina del maestro, disse al Beato: "Già quando ero principe nutrivo cinque desideri, e questi desideri oggi sono esauditi. Pensavo, quando ero principe: vorrei essere re!, e questo mio primo desiderio è stato esaudito. Pensavo poi: "Magari giungesse nel mio regno un santo, un Buddha perfetto e compiuto!", ed ecco esaudito questo mio secondo desiderio. "Vorrei servirlo, questo Buddha!", era il mio terzo desiderio che oggi è stato esaudito. Pensavo poi: "Potesse questo Buddha insegnarmi il Dhamma!", e questo mio quarto desiderio, oggi, è stato esaudito. Rimaneva poi l'ultimo dei desideri: "Oh, se io lo comprendessi il Dhamma di questo Beato!" Ebbene, anche questo quinto desiderio oggi è stato esaudito. Questi cinque desideri, o Beato nutrivo quando ero ancora principe, e questi desideri oggi sono esauditi". [Anche il re viene accolto nella schiera dei fedeli laici e per l'indomani invita il suo maestro a prendere il cibo con lui presso la sua dimora.] Passata la notte, il re Bimbisara fece preparare cibi eccellenti, e, pronto che fu il pasto, così si rivolse al Beato: "Giunta è l'ora del pasto, il cibo è pronto". Al mattino si vestì dunque il Beato delle sue tuniche, prese la sua ciotola delle elemosine, si coprì con il suo mantello ed entrò nella città di Rajagaha, seguito da una folla di monaci, dai mille monaci che erano stati prima jatila. In testa alla comunità di monaci guidati dal Buddha marciava allora Sakka, il re dei Deva, che per l'occasione aveva assunto le sembianze di un giovane brahmano, e cantava questa sequenza: "Entrato è a Rajagaha colui che ha spogliato il suo io, accompagnato da quelli che un tempo erano jatila e che hanno anch'essi spogliato il loro io, colui che ha liberato se stesso è arrivato assieme a quelli che si sono anch'essi liberati, giunto è il Beato dal colorito puro come l'oro fuso. A Rajagaha entra colui che è passato all'altra riva, giunge egli accompagnato da quelli che un tempo erano jatila e che sono anch'essi passati all'altra riva; colui che ha vinto le passioni viene insieme a quelli che un tempo erano jatila e che hanno anch'essi vinto le passioni; in Rajagaha è entrato il Beato dal colorito puro come quello dell'oro fuso. Colui che possiede le dieci nobili condizioni (paramita) e le dieci forze (bala), che comprende il Dhamma in dieci articoli e che in dieci modi ha raggiunto il suo scopo, il Beato entra in Rajagaha accompagnato da dieci centinaia di fedeli". Il popolo della città vide Sakka re dei Deva e disse: "Bello è questo giovane e dai modi garbati, ci piace questo giovane! Di chi può essere discepolo questo giovane?" Così Sakka rispose alle parole della gente della città: "Di quel Saggio incomparabile, del santo, del Buddha benefattore del mondo io sono discepolo". Si recò allora il Beato al palazzo di Bimbisara re del Magadha, e lì si sedette, con i monaci che lo accompagnavano, sui giacigli che per loro erano stati preparati: cibi delicati offrì il re con le sue mani alla comunità dei monaci e, quando il Beato ebbe terminato di mangiare e di lavare la sua ciotola, il re si sedette al suo fianco, immerso in questo pensiero: "Dove posso trovare per il Beato una dimora che non sia né troppo vicina né troppo lontana dal villaggio, dove si possa facilmente andare e da dove si possa facilmente venire, di facile accesso per chi voglia vedere il Beato, poco disturbata di giorno e non molto rumorosa di notte, discreta, nascosta alla gente del mondo, adatta alla vita ritirata?... E se alla comunità di monaci alla cui guida c'è il Buddha io offrissi il mio parco di Veluvana?" Il re prese allora un vaso d'oro contenente l'acqua destinata al Buddha per le abluzioni, e al Beato fece un dono puro dicendo: "Alla comunità dei monaci di cui il Buddha è il capo faccio dono, Signore, del mio parco di Veluvana". Il Beato accettò l'offerta e, dopo aver istruito, esortato e riempito di gioia il re Bimbisara con un discorso religioso, si alzò dal suo giaciglio e si allontanò. A seguito di questo avvenimento disse il Beato ai monaci, dopo un discorso religioso: "Vi permetto, o monaci, di accettare il dono del parco". (dal Mahavagga) SARIPUTTA E MOGGALLANA, DISCEPOLI DI UN MAESTRO PUNITO [Nella successiva stagione delle piogge il Buddha soggiornò a Rajagrha (pali: Rajagaha), dove convertì alla Legge Sariputta (sanscrito: Sariputra) e Moggallana (sanscrito: Maudgalyayana), appartenenti a ricche famiglie e seguaci dell'"eretico" Sanjaya. Entrambi premorirono all'Illuminato.] In quel tempo dimorava Rajagaha l'asceta errante Sanjaya, con un seguito numeroso di asceti erranti, con duecentocinquanta asceti erranti; Sariputta e Moggallana, due giovani Brahmani, conducevano in quel tempo vita religiosa sotto la guida di Sanjaya, l'asceta errante, e si erano giurati l'un l'altro: "Chi di noi due per primo raggiungerà l'immortalità, comunicherà subito all'altro la sua scoperta". Entrò un giorno nella città di Rajagaha, di pomeriggio, il venerabile Assaji, per chiedere l'elemosina, vestito della sua tunica, con il suo mantello e con la sua ciotola: pieni di pudore erano il suo incedere, i suoi gesti, il suo atteggiamento e il Suo modo di stendere e ritrarre la mano; grande dignità ispirava con il suo sguardo rivolto in basso. L'asceta errante Sariputta vide il venerabile Assaji che girava per la città in cerca di elemosine, e pensò: "Ecco uno di quei monaci che sicuramente sono i santi di questo mondo, o almeno sono entrati nella via che alla santità conduce; potrei allora avvicinarmi a questo monaco per chiedergli: "In nome di chi, amico, hai rinunciato al mondo? Chi è il tuo maestro? Da chi proviene il Dhamma che tu professi?"". Pensò poi l'asceta errante Sariputta: "Non è questo il momento di interrogare il monaco, perché è entrato a mendicare nel cortile di una casa; forse dovrei seguire questo monaco passo passo, come fa chi desidera qualche cosa". Terminata la sua questua in Rajagaha, se ne andò con il cibo che aveva raccolto: allora l'asceta errante Sariputta si recò al luogo dove si trovava il venerabile Assaji, gli si avvicinò, scambiò con lui delle frasi amichevoli e, stando in piedi vicino a lui, gli disse: "Sereno è il tuo aspetto, amico, e chiaro e puro è il tuo colorito; in nome di chi hai rinunciato al mondo, e chi è il tuo maestro? Da Chi proviene il Dhamma che tu professi?". Così rispose il venerabile: "Il grande asceta figlio degli Sakya che ha rinunciato al mondo, il rampollo della tribù degli Sakya è il Beato in nome del quale ho rinunciato al mondo; questo Beato è il mio maestro, e il Dhamma di questo maestro io professo". "E qual è, venerabile, la dottrina del tuo maestro? Che cosa insegna a te il tuo maestro?" "Sono soltanto Un novizio, amico, e solo da poco tempo ho ricevuto l'ordinazione e ho abbracciato questo Dhamma e questa disciplina: non posso dunque spiegarti il Dhamma in tutti i suoi dettagli, ma certo posso dirti brevemente quale ne sia lo spirito". "Ebbene, amico", lo esortò Sariputta, "parlami, tanto o poco non importa, di questa dottrina, ma fammene capire lo spirito: solo lo spirito io chiedo; a che mi servirebbe, infatti, la lettera?". Allora il venerabile Assaji espose all'asceta errante Sariputta questo precetto del Dhamma: "Di ogni oggetto che a una causa deve la sua esistenza, il Tathagata la causa ha spiegato, e di questo oggetto ha spiegato anche la fine. Questa è la dottrina del grande asceta". [Questa formula è il "credo" buddhista.] Udito questo precetto del Dhamma, comprese l'asceta errante Sariputta la verità pura e senza macchia: "Soggetto a distruzione è tutto ciò che è soggetto a nascita". Disse allora ad alta voce; "Se il Dhamma non è altro che questo, allora sono arrivato alla condizione perfetta di chi è lontano dal dolore, alla condizione dimenticata e sconosciuta da miriadi di anni". Allora si recò Sariputta al luogo dove si trovava l'asceta errante Moggallana; l'asceta errante Moggallana da lontano vide arrivare Sariputta e, quando gli fu vicino, gli disse: "Di persona tranquilla, amico, è il tuo aspetto, e chiaro e puro è il tuo colorito: forse che hai veramente trovato la liberazione dalla morte?" "Sì, amico, ho scoperto la liberazione dalla morte!" "E come è successo tutto ciò?" [A questo punto Sariputta racconta all'amico tutti i particolari del suo incontro con il venerabile Assaji.] Anche l'asceta errante Moggallana, allora, udì il precetto del Dhamma e comprese la verità pura e senza macchia: "Soggetto a distruzione è tutto ciò che è soggetto alla nascita". Disse allora: "Se il Dhamma altro non è che questo, allora anche tu hai raggiunto la condizione di chi è lontano dal dolore, la condizione dimenticata e sconosciuta da miriadi di anni". "Allora Moggallana disse a Sariputta: "Andiamo, amico, a raggiungere il Beato: sia il Beato il nostro maestro". Rispose Sariputta: "Sono qui per noi questi duecentocinquanta asceti erranti; andiamo allora a prendere congedo da loro; faranno essi come riterranno opportuno". Si recarono allora Sariputta e Moggallana al luogo dove si trovarono questi asceti erranti e dissero loro: "Noi andiamo, amici, a raggiungere il Beato: è lui, il Beato, il nostro maestro". Replicarono gli asceti erranti: "Per voi, amici, noi siamo qui: se voi andate a condurre la vita santa sotto la guida del grande asceta, anche noi condurremo tutti la vita santa sotto la sua direzione". Si recarono allora Sariputta e Moggallana al luogo dove si trovava l'asceta errante Sanjaya, si avvicinarono a lui e gli dissero: "Noi andiamo, amico, a raggiungere il Beato: è lui, il Beato, il nostro maestro". Replicò Sanjaya: " No, amici, non partite: ci occuperemo tutti e tre, io e voi, della nostra comunità di asceti". [Per tre volte Sariputta e Moggallana comunicano la loro decisione, e per tre volte Sanjaya replica allo stesso modo.] Mentre dunque Sariputta e Moggallana si dirigevano alla volta di Veluvana alla guida dei duecentocinquanta asceti erranti, l'asceta errante Sanjaya rimase vittima di un'emorragia e ne morì. Scorti da lontano Sariputta e Moggallana che venivano verso di lui, disse il Beato ai suoi monaci: "Ecco, o monaci, questi due compagni che arrivano: saranno essi i miei discepoli principali, i più nobili". Arrivarono allora alla Foresta dei Bambù, quegli uomini la cui saggezza è tanto profonda ed estesa che nessuno la può superare e che sono giunti alla liberazione per mezzo della soppressione delle cause dell'esistenza; allora proclamò il Maestro: "Ecco, o monaci, questi due compagni che arrivano: saranno essi i miei due discepoli principali, i più nobili". Giunsero Sariputta e Moggallana al luogo dove si trovava il Beato, si prostrarono per rendergli omaggio, e gli dissero: "Voglia il Beato conferirci l'ordinazione". "Avvicinatevi, o monaci", rispose il Beato, "ben insegnata è la legge: vivete dunque in stato di santità, al fine di estinguere completamente la sofferenza". Così ricevettero l'ordinazione superiore queste due persone venerabili. (dal Mahavagga) VIII Il ritorno a Kapilavattu [La fama del Buddha suscita nella famiglia di origine, gli Sakya, il desiderio di incontrarlo: per invitarlo a Kapilavattu vengono inviati un SUO amico d'infanzia, Udayin, e il suo scudiero di un tempo, Channa ed entrambi divengano discepoli. Dietro la pressione di Udayin, il Buddha inizia un lungo viaggio che si snoda per sessanta tappe, durante l'autunno. Giunto nella capitale, innumerevoli saranno le conversioni.] Dopo aver soggiornato a Rajagaha per il tempo che riteneva necessario, partì il Beato alla volta di Kapilavattu, e lì giunse con un lungo viaggio a tappe. E nel paese degli Sakya, nei pressi di Kapilavattu, prese dimora il Beato in un boschetto di banani. Prima di mezzogiorno si vestì il Beato con la sua tunica, prese il suo mantello e la sua ciotola per le elemosine, e si recò alla dimora di Suddhodana, alla casa di suo padre. Arrivato che fu, si sedette il Beato sul giaciglio che per lui era stato preparato. Disse allora, al giovane Rahula, la principessa sua madre: "Quest'uomo, o Rahula, è tuo padre vai dunque a chiedergli la tua eredità". Andò il giovinetto al luogo dove si trovava il Beato, si fermò davanti a lui e gli disse: "La tua ombra, o asceta, procura la felicità". Si alzò allora il Beato dal suo giaciglio e si allontanò; ma il giovane Rahula lo seguì e gli disse: "Dammi la tua eredità, o asceta, dammi la tua eredità!". Disse allora il Beato a Sariputta: "Ebbene, Sariputta: conferisci l'ordinazione al giovane Rahula". [Segue la descrizione, nei termini Consueti, della cerimonia per mezzo della quale il figlio del Buddha riceve l'ordinazione monastica.] Si recò allora laddove si trovava il Beato il re Suddhodana; gli si avvicinò, lo salutò con rispetto, si sedette vicino a lui e gli disse: "Un favore voglio chiedere al Beato". "Troppo in alto", rispose il Beato, "stanno coloro che hanno raggiunto la perfezione, per poter concedere dei favori". Riprese allora Suddhodana: "Ma si tratta, signore, di un favore giusto che riguarda le cose sante". "Dimmi allora, o Gotama". "Grande è il dolore che ho sofferto quando il Beato ha rinunciato al mondo... Penetra nella pelle l'amore di un padre per suo figlio; e dalla pelle penetra nella carne, e dalla carne nei muscoli, e dai muscoli nelle ossa, per poi raggiungere il midollo dove per sempre rimane: io ti chiedo, signore, che i venerabili non conferiscano l'ordinazione a un figlio senza l'autorizzazione del padre e della madre". [Il Beato accoglie la richiesta del padre e lo istruisce servendosi delle formule consuete.] "Nessun figlio, o monaci, riceva l'ordinazione senza il permesso di suo padre e di sua madre; chi senza tale permesso conferirà un'ordinazione, colpevole si renderà di cattiva azione". ( Vinaya Pitaka, I, 207) LE DONNE SI CONVERTONO ALLA LEGGE Soggiornava in quel tempo il Beato presso gli Sakya di Kapilavattu e laddove egli si trovava si recò la zia materna Mahaprajapati; si inchinò la donna al cospetto del Beato e rimase in piedi di fianco a lui, e in questa posizione così parlò: "Bene sarebbe, signore, che le donne fossero autorizzate a rinunciare alla loro casa per condurre la vita errante secondo la dottrina e la disciplina che dal Tathagata sono state stabilite". "Basta, o Gautami!", rispose il Beato, "non cercare di ottenere questa autorizzazione per le donne". [Altre due volte la zia materna rivolge al Buddha la sua richiesta, sempre ottenendo la stessa risposta.] Cadde allora Mahaprajapati in preda a grande tristezza, perché il Beato non voleva consentire alle donne di abbracciare la vita religiosa, e fra le lacrime si allontanò. Rimase il Beato a Kapilavattu tutto il tempo che ritenne necessario, e parti poi alla volta di Vesali, dove arrivò poco dopo, fermandosi in un locale situato nel bosco di Mahavana. Anche la zia Mahaprajapati, a capo rasato e vestita con una tunica color arancio, si mise allora in viaggio alla volta di Vesali, accompagnata da un gran numero di donne appartenenti al clan degli Sakya. La Gautami raggiunse quindi il locale dove si trovava il Beato, e si fermò davanti alla porta d'ingresso, con i piedi lividi e coperti di polvere, triste e sempre in preda al pianto. La vide là fuori il venerabile Ananda e le disse: "Perché te ne stai li davanti alla porta, con i piedi lividi e coperti di polvere, triste e in lacrime?". "Ecco, Ananda, il motivo: non permette il Beato alle donne di rinunciare alla loro casa per condurre la vita errante dei religiosi secondo la dottrina e la disciplina che lui, il Tathagata, ha stabilite". Allora entrò Ananda nel locale dove si trovava il Beato, lo salutò, gli si sedette accanto e gli disse: "Vedi, signore, che in piedi davanti alla porta sta in lacrime la Gautami Mahaprajapati, con i piedi lividi e coperti di polvere, tutta triste perché non vuole il Beato permettere alle donne di rinunciare alla loro casa per condurre vita errante secondo la dottrina e la disciplina da lui stabilite. Bene sarebbe, o Beato, che le donne ottenessero il permesso di fare come ella chiede". "Basta, Ananda!", rispose il Beato, "non cercare di ottenere questo permesso per le donne". [Una seconda e una terza volta rinnova Ananda la sua richiesta, ma sempre uguale è la risposta del Buddha.] Pensò allora il venerabile Ananda: "Dal momento che il Beato non vuole dare il suo consenso, proviamo a porgli la domanda in un altro modo". E così il venerabile Ananda disse al Beato: "Le donne che hanno rinunciato alla loro casa per condurre la vita errante secondo la dottrina e la disciplina che il Beato ha stabilite, possono o non possono raccogliere il frutto della conversione, e quello della seconda e della terza Via, e per ottenere poi lo stato di santità?". "Possono, o Ananda", rispose il Beato". "Se è così, signore", riprese Ananda, "dal momento che la Gautami Mahaprajapati devozione assoluta ha mostrato nei confronti del Beato fin da quando, zia e nutrice, lo ha nutrito e a lui ha dato il suo latte con il SUO seno lo ha nutrito, dopo la morte di sua madre! bene sarebbe, signore, che le donne ottenessero il permesso di rinunciare alla loro casa per condurre vita errante secondo la dottrina e la disciplina del Tathagata". Al che rispose il Beato: "Se alle otto regole principali la Gautami si conformerà, ciò avrà per lei il valore di un'ordinazione. Ecco dunque le otto regole", proseguì il Beato: "Una religiosa, che appartenga all'ordine anche da cento anni, deve salutare il monaco, alzarsi in piedi al suo passaggio e a lui inchinarsi; tutti gli onori gli deve rendere, anche qualora il monaco sia stato ordinato in quello stesso istante. Questa regola deve la religiosa rispettare e serbare come santa guardandosi dal trasgredirla per tutta la sua vita. "Non può una religiosa trascorrere la stagione delle piogge in un luogo in cui non si trovino dei monaci. "Ogni quindici giorni deve la religiosa informarsi presso la Comunità dei monaci circa la data della cerimonia dell'Uposatha [giorno di digiuno] e circa il momento dell'arrivo del monaco incaricato della predicazione. "Al termine della stagione delle piogge deve la religiosa presentarsi davanti alle due comunità, quella dei monaci e quella delle religiose, perché la si possa pubblicamente accusare qualora contro di lei si sia visto o sentito dire qualcosa, o si nutra contro di lei qualche sospetto. "Una volta che per due anni ha osservato come novizia le sei prescrizioni, può la religiosa chiedere alle due comunità l'ordinazione inferiore. "Per nessun motivo deve la religiosa insultare o rimproverare un monaco. "Per sempre è fatto divieto alle religiose di rivolgere rimprovero ufficiale ai monaci, mentre sussiste il diritto dai monaci di formulare rimproveri ufficiali all'indirizzo delle religiose. "Se a queste otto disposizioni", concluse il Beato, "la Gautami Mahaprajapati si conforma, ciò abbia per lei il valore di un'ordinazione". [Ananda va a far visita a Mahaprajapati e le comunica le decisioni del Beato.] Così parlò allora la donna: "Proprio come un giovane o una fanciulla nel fiore degli anni prova diletto ad agghindarsi dopo aver bagnato la testa e con le due mani accoglie felice una ghirlanda di fiori di loto, di gelsomino o di atimuttaka, e con essa la fronte si cinge, allo stesso modo, Ananda, accolgo io queste otto regole e ad esse mi impegno ad essere fedele, per tutta la mia vita". E si recò, la Gautami, al luogo dove si trovava il Beato, lo salutò rispettosamente e, rimanendo sempre in piedi, gli disse: "Quali istruzioni devo dare, signore, alle donne del clan degli Sakya?". La istruì allora il Beato, e con un discorso religioso infuse zelo al suo spirito, e poi la congedò, tutta felice e quasi estasiata. Queste parole rivolse poi il Beato ai monaci: "Le religiose, o monaci, autorizzo a ricevere dai monaci l'ordinazione superiore". Dissero allora queste religiose alla Gautami Mahaprajapati: "L'ordinazione superiore tu non hai ricevuto, non diversamente da noi, perché dal Beato è stato prescritto che da parte dei monaci sia fatta l'ordinazione delle religiose". [Si reca la donna a far visita ad Ananda, e gli riferisce il discorso delle religiose.] Andò allora Ananda a consultare il Beato e da lui ebbe questa risposta: "L'accettazione delle otto regole fondamentali abbia per Mahaprajapati il valore dell'ordinazione superiore". Si recò allora la Gautami al cospetto del Beato salutandolo con rispetto e tenendosi in piedi al suo bianco: "Voglia il Beato", disse, "insegnarmi la Legge, perché io possa apprenderla e vivere nella solitudine, costante nel mio zelo e al riparo da ogni distrazione". "Quale che sia la dottrina che tu segui, o Gautami", rispose il Beato, "qualora si tratti di dottrina che conduce alle passioni e non alla pace, all'orgoglio e non alla venerazione, all'ambizione e non alla modestia, al desiderio del mondo e non alla rinuncia, alla pigrizia e non allo zelo, sappi allora, o Gautami, che lontana è questa dottrina dal Dhamma, dalla disciplina e dall'insegnamento del Maestro; al contrario, quale che sia la dottrina che tu segui, qualora si tratti di dottrina che conduca alla pace, e non alle passioni, alla venerazione e non all'orgoglio, alla modestia e non all'ambizione, alla rinuncia e non al desiderio del mondo, allo zelo e non alla pigrizia, sappi allora, o Gautami, che proprio questa dottrina è il Dhamma, è la disciplina ed è l'insegnamento del maestro". Ritornò allora il venerabile Ananda laddove si trovava il Beato, lo salutò, gli si sedette accanto e gli disse: "Si è impegnata la Gautami Mahaprajapati, o signore, a osservare le otto regole: la zia del Beato l'ordinazione superiore ha ricevuto". Così parlò allora il Beato: "Se le donne non fossero state autorizzate a rinunciare alla vita di famiglia e a condurre vita errante per seguire la disciplina del Tathagata, veramente lunga avrebbe potuto essere la vita della religione pura, e per mille anni la Buona Legge sarebbe stata osservata e mantenuta immutabile in tutti i suoi aspetti. Ma poiché, o Ananda, questo permesso le donne hanno ottenuto, lunga non sarà la vita della religione pura, e non più di cinquecento anni manterrà la Buona Legge il suo pieno vigore. Proprio come le case in cui maggiore sia il numero delle donne rispetto a quello degli uomini, più facilmente da ladri e malfattori son visitate, allo stesso modo, Ananda, quali che siano la dottrina e la disciplina seguite dalle donne che a lasciare il domestico focolare sono autorizzate, lunga non sarà la vita di questa religione". Proseguì ancora il Beato: "Proprio come la malattia che si chiama ruggine in un bel campo di riso si diffonde, e certo è che non a lungo quel campo di riso potrà conservarsi, come la malattia che si chiama muffa invade una piantagione di canna da zucchero, e sa ognuno che non a lungo questa piantagione resisterà, allo stesso modo, Ananda, quale che siano la dottrina e la disciplina seguite dalle donne che a lasciare il domestico focolare sono autorizzate, non lunga sarà la vita di questa religione". Concluse poi il Beato: "Proprio come per precauzione si costruisce davanti a un serbatoio d'acqua un rilievo perché l'acqua non abbia a fuoriuscire in modo disordinato, allo stesso modo, Ananda, per precauzione ho imposto alle religiose queste otto regole che non devono mai infrangere per tutta la durata della loro vita". (Cullavagga, X) [Prima della stagione delle piogge il Buddha e i suoi discepoli si fermarono nel parco dei manghi dell'etera Amrapali (pali: Ambapali), di stirpe Licchavi. Accompagnata da numerose amiche, la cortigiana viene a far visita al Buddha: ascolta la sua parola e gli fa dono del parco.] Si recò allora il Beato a Vesali, in compagnia di un gran numero di monaci, e lì si fermò nel boschetto della cortigiana Ambapali, rivolgendo ai monaci questa esortazione: "Siate vigilanti, e di voi stessi padroni: questo è il consiglio che vi do". Nota 1. "E com'è che", chiesero i monaci, "un fratello diviene vigilante?" "In questo modo, o monaci, rispose il Beato. "Per quanto concerne il corpo (rupa), incessantemente un fratello il suo corpo sorveglia, in modo da conservare integra la sua energia e da rimanere concentrato e padrone di sé, dopo che di ogni desiderio e di ogni scoraggiamento ha avuto ragione". [Analoghe sono le argomentazioni del Beato per gli altri tre aggregati (skandha): le sensazioni (vedana), le idee (samjna), gli istinti (samskara), la coscienza (vijnana).] "E in che modo", ripresero, "un fratello diviene padrone di sé?" "Mantenendo, o monaci", rispose, "la presenza del suo spirito in ogni sua azione, quando entra e quando esce, quando guarda dritto davanti a sé e quando si guarda intorno, quando piega il suo braccio o quando lo distende, quando indossa le sue vesti e reca in mano la sua ciotola, quando mangia e quando beve, quando mastica e deglutisce, e i suoi bisogni naturali soddisfa, quando cammina e quando si ferma, e anche quando si siede, quando dorme e quando veglia, quando parla e quando sta in silenzio". E così concluse il Beato: "Siate dunque vigilanti, o monaci, e di voi stessi padroni: questo è il consiglio che io vi do". Giunse allora alle orecchie della cortigiana Ambapali la notizia che il Beato in quel boschetto si era fermato: fece allora preparare un gran numero di carri da cerimonia, su uno di questi prese posto, e da Vesali si diresse a quel suo parco. Sul carro rimase finché la strada fu percorribile, per poi proseguire a piedi fino al luogo dove si trovava il Beato; colà giunta, salutò il Beato con rispetto e gli si sedette vicino, lasciandosi esortare e colmare di gioia dalle parole del Beato. Così istruita, esortata e colma di gioia, al Beato rivolse queste parole: "Voglia il Beato concedermi l'onore di venire da me domani, con tutti i suoi fratelli, a prendere il suo cibo". E con il silenzio manifestò il Beato il suo consenso, al che la cortigiana, sicura che il Beato aveva accettato il suo invito, si alzò dal suo giaciglio, lo salutò e si allontanò". Intanto giunse anche alle orecchie dei Licchavi di Vesali la notizia dell'arrivo del Beato e del suo soggiorno in quel boschetto. Fecero preparare dei carri di cerimonia, ne presero uno ciascuno e uscirono dalla città di Vesali con il loro seguito. Alcuni di loro erano neri, e di colore nero erano le loro vesti e i loro ornamenti; altri erano rossi, e di colore rosso erano le loro vesti e i loro ornamenti; vi erano poi i gialli, [...] i bianchi, [...]. Ritornava intanto la cortigiana Ambapali a Vesali, e con i giovani Licchavi andò a scontrarsi, mozzo contro mozzo, ruota contro ruota, giogo contro giogo; le dissero allora i giovani Licchavi: "Come mai ci investi in questo modo?" "Il Beato e i suoi fratelli ho appena invitato a venire da me domani per prendere il loro cibo", fu la sua risposta. Al che le proposero quelli: "Cedici questa ospitalità per centomila monete". "Nemmeno se voi mi offriste tutta la città di Vesali con tutto il suo territorio vi cederei questa ospitalità per me così onorevole", rispose sicura la donna. E allora i Licchavi levarono le braccia al cielo e gridarono: "Ci ha anticipato questa giovane figlia del mango; ci ha battuto questa figlia del mango". E al boschetto di Ambapali si diressero. Li vide arrivare da lontano il Beato, e disse ai fratelli: "Chi fra voi, fratelli, mai ha visto i Deva del mondo vicino, guardi questa schiera dei Licchavi, perché in tutto simili essi sono a una schiera di Deva del mondo vicino". Arrivati che furono al limite dove i carri più non potevano proseguire, a piedi proseguirono al luogo dove si trovava il Beato e si sedettero rispettosamente al suo fianco, al che egli prese ad esortarli e a colmarli di gioia con i suoi consigli religiosi. Istruiti e pieni di gioia dissero quei giovani al Beato: "Possa il Beato concederci l'onore di venire da noi domani a prendere il suo cibo, con tutti i suoi fratelli". "Alla cortigiana Ambapali ho promesso di pranzare con lei domani", fu la sua risposta. Allora i Licchavi levarono le braccia al cielo e gridarono: "Ci ha anticipati questa giovane figlia del mango; ci ha battuto questa figlia del mango". Al Beato espressero allora la loro gratitudine per i suoi consigli, poi si alzarono dalle loro sedie, si inchinarono davanti al Beato e si allontanarono. Passata la notte, preparò la cortigiana Ambapali nella sua dimora del riso zuccherato e dei dolci e con queste parole avvisò il Beato: "L'ora del pasto è giunta, il tuo cibo è pronto". E il Beato, che già di buon'ora si era vestito, prese il suo mantello e la sua ciotola e si recò con i fratelli laddove si trovava la casa di Ambapali. Colà giunto si sedette sul suo giaciglio che per lui era stato preparato e la cortigiana Ambapali davanti ai monaci dispose i dolci e il riso zuccherato, il Beato e i fratelli servendo finché essi non rifiutarono di mangiare ancora. Quando poi il Beato terminò il suo pasto e lavò la sua ciotola e si lavò le mani, portò la cortigiana uno sgabello basso, e, sedutasi a fianco del Beato gli disse: "Di questo parco faccio dono, signore, alla comunità dei monaci di cui il Buddha è il capo". Accettò il dono il Beato, istruì, esortò e colmò di gioia la cortigiana, dopodiché si alzò dalla sua sedia e da lei prese congedo. (Digha Nikaya, sutta XVI) Nota 1: Secondo il commentatore Buddhaghosa, autore del Visuddhimagga, il consiglio è dato qui proprio in vista dell'arrivo imminente della cortigiana, per richiamare i monaci a un comportamento confacente alla loro dignità. Ambapali significa "nobile donna figlia del mango". IX La conversione degli Sakya IL CUGINO ANURUDDHA [Tra i primi Sakya a convertirsi alla dottrina del Buddha furono i suoi cugini Anuruddha, Mahanama e Devadatta. Anuruddha sarà colui che inviterà Ananda a recitare i Sutra dopo la scomparsa del Buddha, durante il primo concilio.] Si trovava in quel tempo il Beato ad Anupiya, città del paese dei Malla: rinunciavano al mondo i giovani più in vista del popolo Sakya, per seguire l'esempio del Beato. Vi erano anche due fratelli: Anuruddha, che era cresciuto nel lusso, e Mahanama. Mahanama andò un giorno a far visita ad Anuruddha e gli disse: "Chi fra noi due sarà colui che rinuncerà al mondo? Sarai tu o sarò io?". Rispose Anuruddha: "La mia salute cagionevole non mi consente di abbandonare la vita di famiglia per condurre vita errante; tu, invece, per quanto ti riguarda, puoi rinunciare al mondo". "Ti spiegherò per prima cosa, mio caro Anuruddha, alcuni obblighi che incombono sull'uomo legato alla famiglia: tanto per cominciare, si deve arare la terra, e bisogna poi seminare; una volta che si è seminato, si deve portare l'acqua e irrigare i campi; rimangono ancora le erbacce da sradicare, prima che si possa mietere, per poi portar via il raccolto e trebbiare; e a questo punto, non è ancora finita: si deve sistemare il raccolto e ammassare la paglia, e ancora rimane il grano da ventolare e da sistemare nei granai. E quando si finisce, di nuovo si è pronti per cominciare il lavoro dell'anno seguente. E così via, per tutti gli anni della nostra vita. Mai terminata è l'opera, e l'uomo non vede la fine del suo lavoro. Quando mai sarà terminata la nostra opera? E quando mai vedremo la fine del nostro lavoro? E quando potremo finalmente avere riposo per abbandonarci felici ai piaceri dei sensi? Sì, caro Anuruddha, mai compiuta è l'opera, e non c'è fine per la nostra fatica. Pure i nostri padri e i nostri avi, quando giungevano al termine della loro vita, incompiuta lasciavano dietro di sé ogni loro fatica. Pensa, dunque, Anuruddha, agli obblighi della vita in famiglia: io, per quanto mi riguarda, a questa vita rinuncerò, e abbraccerò la vita errante dei religiosi". Andò allora lo Sakya Anuruddha a far visita a sua madre: "Mio desiderio, o madre", gli disse, "è rinunciare alla vita di famiglia per condurre vita errante: voglia la madre mia concedermi il permesso". All'udire queste parole la madre gli rispose: "Figli cari e ben amati siete per me entrambi, e in voi non trovo alcuna colpa. Sarà la morte a separarmi da voi un giorno, contro la mia volontà: come potrei dunque permettere che, ancora vivi, abbandoniate la vostra casa per condurre vita errante?" In quel tempo governava il paese Bhaddiya, re degli Sakya e amico di Anuruddha; e la madre di Anuruddha convinta che il re non potesse certo, vista la sua condizione, prendere la decisione di abbandonare il mondo, disse a suo figlio: "Caro Anuruddha, se Bhaddiya, re degli Sakya, rinuncerà al mondo, allora anche tu potrai condurre vita errante" Allora si recò Anuruddha al cospetto del re Bhaddiya, per dirgli: "In te, caro amico, la mia rinuncia al mondo trova ostacolo". "Rimuoviamolo allora, questo ostacolo", rispose il re, "felice io sono della tua rinuncia al mondo". "E allora", riprese Anuruddha, "vieni e insieme rinunciamo al mondo!" "Non posso, caro amico, abbandonare la vita di famiglia, ma ad ogni tua necessità sarò ben lieto di venire incontro; parti dunque da solo". "Mia madre, caro amico, mi ha detto che se tu rinunciassi al mondo, allora anch'io potrei fare la stessa cosa; ed è di fronte a questa situazione che tu, caro amico, vieni a dirmi: "Se la tua rinuncia al mondo in me trova il suo ostacolo, rimuoviamo questo ostacolo, perché felice io sono della tua rinuncia al mondo". Orsù, allora, caro amico, rompi gli indugi: vieni con me e rinunciamo tutti e due al mondo". Erano gli uomini di quel tempo molto sinceri, e un grande onore consideravano il non venir meno alla parola data; perciò disse il re Bhaddiya ad Anuruddha: "Abbi pazienza per sette anni, caro amico, e, passato questo tempo, insieme rinunceremo al mondo". "Troppo lunga, caro amico, è un'attesa di sette anni: non posso aspettare così a lungo!" [Il re riduce poi la sua richiesta di soprassedere da sette anni a un anno, poi da sette mesi a un mese e da un mese a quindici giorni. Ma Anuruddha ritiene troppo lunga qualsiasi attesa.] "Aspetta allora soltanto sette giorni, caro amico, perché io abbia giusto il tempo di consegnare il potere nelle mani dei miei figli e dei miei fratelli". "Bene, caro amico, sette giorni non sono lunghi da passare: per sette giorni dunque ti aspetterò". Fu così che insieme lasciarono la loro casa il re degli Sakya e Anuruddha, seguiti da Ananda Bhagu, da Kimbila e Devadatta, che in precedenza avevano così spesso condiviso la stessa vita di piaceri. E il barbiere Ipali si uni a loro per accompagnarli. IL BARBIERE UPALI [Cinquecento giovani Sakya rinunciano alle ricchezze per abbracciare il Dharma. E dei loro beni fanno dono al barbiere Upali che però a sua volta fa voto di povertà per divenire seguace del Buddha.] Giunti ormai a una certa distanza dalla loro città, i monaci congedarono gli amici che li avevano seguiti e senza esitazione si lasciarono alle spalle i confini del loro regno, togliendosi poi di dosso ogni oggetto di valore: in una sorta di fagotto, fatto con una tunica, raccolsero gli oggetti preziosi, e al barbiere Upali dissero: "Tu, buon Upali, ritorna sui tuoi passi: sufficienti per poter vivere ti saranno questi oggetti". Ma sulla via del ritorno il barbiere Upali pensò: "Animosi sono gli Sakya: crederanno che io abbia tolto di mezzo quei giovani e a mia volta mi uccideranno! Lasciano la loro casa, gli Sakya, per condurre vita errante: perché, allora, non dovrei anch'io seguire il loro esempio?". Prese allora il suo fagotto e lo appese al ramo di un albero dicendo: "Un regalo sarà per chi lo troverà"; e se ne tornò al luogo dove si trovavano i giovani Sakya. Da lontano lo videro i giovani Sakya avvicinarsi e gli si fecero incontro per dirgli: "Com'è che torni indietro, buon Upali?" [Upali spiega agli amici il motivo del suo ritorno] "Bene hai fatto, buon Upali, a ritornare: bellicosi sono gli Sakya e certo ti avrebbero ucciso". Portarono allora con sé il barbiere Upali, e tutti insieme si recarono al luogo dove si trovava il Beato. Inchinatisi al cospetto del Beato, si sedettero al suo fianco e gli dissero: "Vera gente animosa e fiera sono gli Sakya, signore! E il barbiere Upali, che qui vedi, è da lungo tempo al nostro servizio: voglia allora il Beato ammetterlo nella Comunità prima di noi, cosicché noi possiamo salutarlo e testimoniargli il nostro rispetto inchinandoci davanti a lui con le mani giunte; così sarà abbattuto nel nostro cuore l'orgoglio della nostra stirpe". Accolse allora il Beato i nuovi monaci della sua Comunità: prima il barbiere Upali e poi i giovani nobili della stirpe degli Sakya. E prima della fine della stagione delle piogge aveva ormai acquisito il venerabile Bhaddiya la triplice scienza, mentre il venerabile Anuruddha aveva ottenuto la visione penetrante ed Ananda aveva acquisito l'entrata nel flusso della corrente (srota apatti); Devadatta possedeva invece soltanto il potere magico che anche coloro che non seguono la via eccellente possono possedere. Ritiratosi nella foresta all'ombra di un grande albero, il venerabile Bhaddiya non cessava di ripetere: "Felicità, felicità!". Numerosi monaci si recarono allora al luogo dove si trovava il Beato, e così gli parlarono: "Certamente, signore, non prova soddisfazione il venerabile Bhaddiya nella vita religiosa: solo quando gli sovviene il pensiero della sua potenza passata egli si abbandona a quella esclamazione". "Si rivolse allora il Beato a uno dei monaci e gli disse: "Vai a dire al monaco Bhaddiya che il Maestro lo chiama". "Sì, signore", rispose il monaco al Beato, e si mise sulle tracce di Bhaddiya. "Bene", rispose Bhaddiya al monaco, e si recò subito dal Beato. Lo salutò e si sedette al suo fianco, e il Beato gli disse: "Ho sentito dire che tu, immerso nella solitudine della foresta all'ombra di un grande albero, non cessi di ripetere questa esclamazione: "Felicità, felicità!" come se fossi rapito in estasi; è dunque vero ciò che si dice? E qual è mai il ricordo che si agita nel tuo spirito e ti spinge a parlare in questo modo?". "Un tempo, quando ero re, delle guardie stazionavano nei miei appartamenti, all'interno e all'esterno, altre guardie presidiavano la città all'interno e all'esterno delle sue porte, e altre ancora difendevano le mie frontiere: eppure, signore, a dispetto di questo sistema di difesa così accurato, io vivevo in preda al timore e all'ansia, da persona sospettosa e apprensiva. Ma ora, signore, anche quando meno vita isolata nella solitudine della foresta, all'ombra di un grande albero, non provo né timore né ansia, e mi sento sicuro e tranquillo. Soddisfatto io sono e libero da inquietudine, e mansueto come quello di un'antilope è il mio spirito; ed è proprio contemplando questo stato di tranquillità suprema che io mi abbandono a quella esclamazione e il mio grido non cesso di ripetere". All'udire queste parole, pronunciò il Beato questa sequenza: "Chi nutre in sé pensieri mansueti, chi delle cose del mondo non si dà cura, vive nella gioia e nella liberazione dai dolori e dagli affanni, un regno raggiunge che nemmeno agli dei è dato intravedere". (Cullavagga, VII) X Il ciclo di Devadatta [Ha avuto fama di Giuda Iscariota del buddhismo questo cugino del Buddha, in Cui la tradizione ha visto un invidioso avversario dell'illuminato, che più volte ordì trame per ucciderlo, in combutta con Ajatasattu (sanscrito: Ajatasatru), [figlio del re Bimbisara.] Giunse il Beato a Kosambi, e questo pensiero sorse allora nel cuore di Devadatta, mentre egli meditava nella solitudine: "Su di me voglio attirare l'attenzione di qualcuno, in modo da ottenere, in virtù dei suoi favori, onori e vantaggi: a chi potrei dunque rivolgermi? Il principe Ajatasattu è un giovane davanti al quale un radioso avvenire spalanca le sue porte: farò in modo che egli di me si interessi, cosicché io possa procurarmi, con i Suoi buoni uffici, prestigio e vantaggi". Ripiegò allora Devadatta la sua stuoia, si vestì, prese la sua ciotola per le elemosine e se ne andò a Rajagaha dove giunse nel tempo desiderato. Assunse poi le sembianze di un bambino avvinghiato nelle spire di un serpente e così apparve sulle ginocchia del principe Ajatasattu: subito cadde il principe in preda al terrore e allo spavento, e temette per la sua vita. "Hai paura di me, principe?" "Si, di te ho paura; chi sei?" "Io sono Devadatta". "Se veramente sei il nobile Devadatta, riprendi, signore, l'aspetto che ti è proprio!" Allora Devadatta smise i panni del bambino per riapparire ben presto davanti al principe nell'aspetto che gli era proprio, vestito della sua tunica e con la sua ciotola tra le mani. Grande ammirazione provò il principe per Devadatta a motivo dei suoi poteri magici, e da allora cominciò a recarsi da lui mattino e sera, con un seguito di cinquecento carri, per fornirgli degli alimenti prelibati che gli serviva in cinquecento piatti. Questo pensiero si fece strada allora nello spirito di Devadatta, tutto preso da sete di guadagno e desiderio di fama e prestigio: "Dovrei essere io il capo della comunità dei monaci!". Nemmeno ebbe il tempo di concepire nitidamente questo pensiero, e già aveva perduto ogni potere magico. In quel tempo predicava il Beato la sua dottrina a una folla in mezzo alla quale si trovavano anche il re e il suo seguito; si alzò allora Devadatta dal suo giaciglio, si gettò il mantello sulle spalle, e al Beato indirizzò il suo saluto con le mani giunte: "Ormai anziano", prese a dire, "e carico di anni è il Beato, che molta strada ha percorso; vicino è ora il termine della sua vita: voglia dunque il Beato gustare in pace la felicità che ha ottenuto in questo mondo, e voglia egli mettere nelle mie mani la sua Comunità; io sarò d'ora in poi il capo". "Basta, Devadatta! Tu non sarai il capo dei monaci!" [Due volte ancora Devadatta rivolge al Beato la stessa preghiera.] "A Sariputta e a Moggallana affiderò la mia Comunità: mai la affiderò a te, vile impostore!" Pensò allora Devadatta: "Alla presenza del re il Beato rifiuta di accogliere la mia richiesta e mi chiama impostore, rivolgendo invece lodi a Sariputta e a Moggallana". Deluso e adirato si inchinò davanti al maestro e subito si allontanò. Era la prima volta che Devadatta lasciava trasparire la sua animosità nei confronti del Beato. E il Beato disse ai monaci: "Dica tutta la comunità, lo dica alla città di Rajagaha, che oggi non sono più quelli di un tempo i pensieri di Devadatta: qualsiasi cosa Devadatta dica, e qualsiasi cosa faccia, non è più il Buddha, né la Legge, né la Comunità a operare e a parlare per mezzo suo; lui solo è l'artefice delle sue parole e delle sue azioni". Disse poi il Beato a Sariputta: "Vai nella città di Rajagaha ad annunciare l'espulsione di Devadatta". "Con queste parole", commentò Sariputta, "cantavo un tempo le lodi di Devadatta per tutta la città: grande è il potere magico di Devadatta, grande è la sua potenza! Come potrò ora condannarlo pubblicamente nella città di Rajagaha?" "Non dicevi forse la verità quando cantavi le sue lodi?" "Si, signore". "E allo stesso modo vai ora a dire la verità annunciando nel contempo l'espulsione di Devadatta". Accompagnato da un gran numero di monaci entrò dunque Sariputta in Rajagaha per compiere la sua missione, e annunciò l'espulsione di Devadatta. E tutti gli increduli, tutti quelli che ancora non erano devoti perché ancora erano immersi nelle tenebre che gravavano sui loro occhi e sul loro spirito, cominciavano a mormorare: "Sono gelosi, questi asceti degli Sakya; sono gelosi dei vantaggi e dell'ospitalità concessa a Devadatta". Ma i fedeli pieni di devozione, quelli che stavano con gli occhi ben aperti e con il cuore spalancato, dicevano: "Veramente deve essere successo qualcosa di grave, se il Beato ha annunciato l'espulsione di Devadatta nella città di Rajagaha". Si recò allora Devadatta dal principe Ajatasattu e gli disse: "Si viveva a lungo, un tempo; breve è invece la vita per gli uomini di oggi ed è ben possibile che tu chiuda la tua vita quando ancora sei principe: uccidi allora tuo padre, per divenire re; io, invece, ucciderò il Beato e sarò il Buddha". Al che pensò il principe Ajatasattu: "Facoltà superiori possiede questo nobile Devadatta: egli conosce il futuro". Prese subito un pugnale e penetrò nell'appartamento del re, a un'ora insolita, con passo sicuro quasi in spregio dei suoi timori e della sua ansia, mostrando nel contempo eccitazione e rabbia. Lo videro i servitori del re e lo bloccarono; quando poi lo perquisirono e scoprirono il pugnale che teneva nascosto, gli chiesero: "Cosa dunque volevi fare, principe?" "Volevo uccidere mio padre". "Chi ti ha istigato a compiere un'azione simile?" "Il nobile Devadatta". Dissero allora alcuni dei ministri: "Il principe merita la morte e con lui anche Devadatta e tutti i monaci". Altri invece così si espressero: "I monaci non meritano la morte, perché nulla di male hanno fatto; solo il principe e Devadatta devono essere messi a morte". Altri ancora dissero: "Non si deve mettere a morte né il principe, né Devadatta e nemmeno i monaci; solo bisogna informare il re ed eseguire i suoi ordini". Conducendo con sé anche il principe si recarono i ministri da Bimbisara, re del Magadha, e lo misero al corrente di ciò, che era accaduto. "Quale parere", chiese il re, "hanno espresso i ministri?" [Vengono fedelmente riportate al re tutte le dichiarazioni dei ministri.] "Quale responsabilità possono avere in tutto ciò il Buddha, la Legge e la Comunità? Non ha forse già proclamato il Beato in Rajagaha che non sono più quelli di un tempo i pensieri di Devadatta, e che tutto ciò che egli farà e dirà, lo farà e lo dirà solo in suo nome, indipendentemente dal Buddha, dalla Legge e dalla Comunità?", disse il re. E così i ministri che avevano proposto di mettere a morte non solo il principe e Devadatta, ma anche tutti i monaci, furono giudicati per sempre indegni di ricoprire qualsiasi carica. Quelli che invece avevano proposto di mettere a morte il principe e Devadatta furono destinati a incarichi di minor prestigio, mentre ai ministri che erano stati dell'avviso di non mettere a morte nessuno, ma di informare il re per poi attenersi ai suoi ordini, furono assegnati incarichi di rango ancora maggiore. Disse allora il re Bimbisara al principe Ajatasattu: "Perché dunque volevi uccidermi, principe?". "Il regno desideravo, o re". "Se desideravi il regno, prenditelo: tuo è ora questo regno", rispose il re, e affidò il regno al principe Ajatasattu. Si recò allora Devadatta a far visita al principe Ajatasattu, e gli disse: "Ai tuoi uomini dai ordini, o principe, perché io possa privare della vita l'asceta Gotama". E il principe ai suoi uomini ingiunse: " A Devadatta obbedirete in tutto ciò che egli vi ordinerà". Rivolgendosi allora a uno di questi uomini, gli diede Devadatta questo ordine: "Vai, amico, al luogo dove si trova l'asceta Gotama: uccidilo e ritorna poi per la strada che io ti indico!" Lungo quella stessa strada sistemò poi due altri uomini ai quali disse: " Ogni uomo che da questa strada si troverà a passare voi lo ucciderete, e ritornerete da me per quest'altra strada che vi indico". Anche lungo quest'ultima strada collocò Devadatta altri quattro uomini... [E così via, fino a collocare in tutto sedici uomini lungo i diversi percorsi.] Prese dunque il primo uomo la sua spada e il suo scudo, si mise in spalla arco e faretra e si recò al luogo dove si trovava il Beato; giunse in vista del Beato e lì si fermò esitante, in preda all'agitazione e al tormento. Non appena vide quest'uomo, gli disse il Beato: "Avvicinati, amico, non avere alcun timore". E l'uomo gettò via subito la sua spada e il suo scudo, si tolse dalle spalle arco e faretra e si gettò ai piedi del Beato dicendo: "Una grave colpa, signore, ho commesso, per follia e ignoranza, qui presentandomi con un disegno perverso e omicida. Voglia il Beato accettare da me la confessione di una colpa che ora in tutta la sua gravità io comprendo; voglia il Beato accettare la confessione perché io più non possa credere, in futuro, nel disegno del peccato". "Bene, amico, la tua confessione io accetto, poiché hai riconosciuto la tua colpa e onorevole ammenda ne hai fatto. Un passo avanti nella disciplina del Beato compie infatti chi colpa considera ciò che davvero è colpa, e ne fa ammenda onorevole, per mai più ricadervi in avvenire". Poi il Beato impartì a quest'uomo l'insegnamento graduale, lo intrattenne, cioè, sulla carità, la dirittura etica e il cielo, e Sui pericoli della sozzura delle passioni, nonché Sui vantaggi che derivano dalla rinuncia. Quando poi lo vide preparato, ben disposto, e da fede animato, gli espose la dottrina che dei Buddha è propria: il dolore, l'origine del dolore, la soppressione del dolore e la via che alla soppressione del dolore conduce. E come una stoffa pura e senza macchia subito si impregna della tintura datagli, così ottenne quest'uomo la visione pura e senza macchia della verità, e comprese che ad annientamento è soggetto tutto ciò che è soggetto a nascita. Così l'uomo conobbe la Verità, penetrò nella Verità e nel profondo della Verità si immerse, trionfatore di ogni esitazione e di ogni dubbio, tutto pervaso dalla rivelazione, libero da ogni bisogno in virtù della sua fede nella dottrina del Maestro. "Come si raddrizza ciò che è capovolto", gridò l'uomo, "come si disvela ciò che è nascosto, come il giusto cammino si indica a chi è smarrito e perplesso, e come si porta una lampada perché chi ha occhi e si trova nelle tenebre possa distinguere gli oggetti, allo stesso modo, signore, tu mi hai insegnato il Dhamma, nelle sue diverse forme; voglia allora il Beato accogliermi come suo discepolo, voglia il Beato accogliere me che da oggi, e per tutta la mia vita, in lui mi rifugio". "Non partire, amico, per questa strada: passa da quest'altra". E il Buddha gli fece prendere un'altra strada. Pensavano intanto i due uomini che Devadatta aveva sistemato lungo la strada: "Dove può essere l'uomo che doveva arrivare solo? Come mai tarda così?". Si misero allora sulle sue tracce, ma incontrarono invece il Beato seduto all'ombra di un albero. Si avvicinarono allora al Beato e si sedettero al suo fianco. [Il Buddha converte anche questi due uomini e anche loro invita a ritornare per una strada diversa da quella indicata da Devadatta.] Tornò il primo uomo da Devadatta, e gli disse: " Non posso togliere la vita al Beato: grandi sono poteri miracolosi del Beato". "E va bene, amico, rispose Devadatta, non ho più bisogno di te: di mia mano ucciderò il Beato". E in quel momento si trovava il Beato a passeggiare, immerso nella meditazione, ai piedi del monte chiamato Picco dell'Avvoltoio; salì Devadatta in cima al monte e un grosso masso vi fece rotolare, con l'intenzione di schiacciare il Beato: ma, ecco, due cime di monti si avvicinarono l'una all'altra e fermarono la caduta del masso, mandandolo in frantumi; una sola delle schegge colpì il Beato ferendolo ad un piede. Allora il Beato levò i suoi occhi in alto e disse a Devadatta: "Stolto! Grande è il demerito che tu hai acquisito facendo scorrere il sangue del Beato, nel tuo disegno colpevole e omicida". Appresero i monaci che Devadatta tramava per la morte del Beato, e cominciarono allora ad andare e venire salmodiando, chi a voce alta e chi a mezza voce, delle invocazioni per la salvezza del Beato. Queste invocazioni intese il Beato, e ad Ananda chiese informazioni; saputo il motivo di quelle preghiere, disse il Beato ad Ananda: "Vai a chiamare i monaci, e di' loro che il Beato li cerca". Arrivarono i monaci, salutarono il Beato e si sedettero al suo fianco; al che egli prese a dire: "Non è possibile, o monaci, per nessuno, far morire il Tathagata di morte violenta. I Tathagata si spengono solo a un momento prestabilito, e solo di morte naturale. Ciascuno di voi ritorni dunque alle sue occupazioni, perché di nessuna protezione necessita il Tathagata! " Vi era in quel tempo a Rajagaha un elefante, di nome Nalagiri, un elefante feroce, e tutt'altro che mansueto con gli uomini. Si recò Devadatta laddove erano custoditi gli elefanti, e disse ai guardiani: "Cari amici, molto buoni sono i miei rapporti con il re: potrei certo farvi assegnare ad un incarico più prestigioso e procurarvi un aumento di salario. Quando dunque vedrete passare di qui l'asceta Gotama, liberate quell'elefante e lanciateglielo contro!" "Bene, signore", risposero i guardiani. Preparatosi di buon'ora e accompagnato da numerosi monaci entrò il Beato in Rajagaha per chiedere le elemosine, vestito con le sue tuniche, e sempre recando in mano la sua ciotola. Lo videro i guardiani, e subito liberarono l'elefante Nalagiri scatenandoglielo contro. Si avvide l'elefante della presenza del Beato, e prese a correre verso di lui tenendo la proboscide in alto e drizzando coda e orecchie. Non appena i monaci scorsero l'elefante Nalagiri, dissero al Beato: "Feroce, signore, è l'elefante Nalagiri, e con gli umani non è mansueto! Voglia dunque il Beato tornare sui Suoi passi!" "Andiamo, o monaci", rispose il Beato, "non abbiate alcun timore: impossibile è per chiunque far perire un Tathagata di morte violenta; si spengono infatti i Tathagata solo in un giorno prestabilito, e di morte naturale". [Per due volte ancora i monaci ripetono la loro preghiera, ottenendo sempre la stessa risposta.] E gli abitanti della città stavano a guardare dai piani superiori delle case, o salivano sui tetti; dicevano gli increduli, coloro che non avevano la fede ed ancora erano ottenebrati, nel loro spirito come nei loro occhi: "Bello è il grande asceta, ma certo l'elefante gli farà del male". I fedeli, invece, e quelli che la Legge avevano compreso, proclamavano: "Vediamo la guerra fra l'elefante e colui che fra gli uomini è elefante, la guerra fra l'elefante e il Beato! ". Ispirò il Beato all'elefante Nalagiri dei sentimenti di bontà, e subito l'elefante abbassò la proboscide e pacatamente si avvicinò al Beato; con la sua mano destra il Beato lo accarezzò in fronte e a lui rivolse questa sequenza: "Non toccare, elefante, chi tra gli uomini è elefante, perché grave sarebbe questo cimento; più non avrà felicità, una volta lasciato questo mondo, chi l'elefante degli uomini ha colpito: non restare dunque in preda alla tua furia, e non essere incurante, perché chi è incurante non raggiunge la felicità; comportati piuttosto in modo da ottenere la felicità. E l'elefante Nalagiri aspirò allora con la sua proboscide la polvere che copriva i piedi del Beato e se ne cosparse la testa; poi si allontanò camminando all'indietro e salutando il Beato con gli occhi fissi su di lui. Rientrò l'elefante Nalagiri nella sua stalla e riprese il posto che occupava prima: divenne da quel momento il "docile Nalagiri". Il popolo prese allora a cantare questi versi: "Si possono domare gli elefanti con il bastone, col pungolo o con la frusta, ma senza alcuna arma il Grande Saggio ha domato questo elefante!". A questo punto il popolo si lasciò andare alla sua collera; e tutti mormoravano: "Essere perverso e miserabile è questo Devadatta! Ha cercato di uccidere l'asceta Gotama, un asceta così forte e potente!". E così si incrinava sempre più il prestigio di Devadatta, e del pari aumentava quello del Beato. Pressoché spogliato del suo prestigio si recò Devadatta presso il popolo a chiedere le elemosine, in compagnia di alcuni monaci; il popolo era in preda al malumore, e tutti dicevano: "Come è possibile che l'asceta discendente dagli Sakya possa vivere del cibo che raccoglie qui in città? Forse che non apprezza il cibo ben preparato e non ama le cose buone?". Intesero i monaci questi malumori, e al Beato li riferirono; disse allora ai monaci il Beato: "Questa è la regola che, a seguito di quanto mi dite, per sempre io vi do: non più di tre devono essere i monaci che insieme si giovino di un'elemosina raccolta in città, e questo per far sì che siano tenuti lontano coloro che nutrono intenzioni cattive, e per il bene dei monaci santi, perché non abbiano coloro che nutrono pensieri colpevoli ad appoggiarsi a un gruppo di monaci seminando così la divisione nella Comunità, e per compassione nei confronti dei laici. Il monaco che tragga profitto da un'elemosina raccolta da un gruppo di più di tre monaci sia punito secondo la regola della Comunità". DEVADATTA SEMINA LA DISCORDIA NELLA COMUNITÀ Si recò allora Devadatta al luogo dove si trovavano Kokalika, Katamoraka Tissaka, il figlio di Khandadevi e Samuddadatta, e a tutte queste persone disse: "Venite, andiamo a seminare discordia nella Comunità dell'asceta Gotama e fra i suoi fedeli". All'udire queste parole, disse Kolaka a Devadatta: "Forte e potente, signore, è l'asceta Gotama: che cosa mai potremo fare?". "Vieni, signore! Andiamo a far visita all'asceta Gotama e sottoponiamogli questi cinque propositi parlando a lui in questi termini: "Con molteplici esempi hai fatto intendere, o Beato, i vantaggi riservati all'uomo che ha pochi desideri e di cibo modesto si accontenta, il male dal suo spirito ha estirpato, domate ha le sue passioni e vive pieno di rispetto, di fede e di zelo. E proprio a questo risultato, signore, conducono questi cinque propositi: bene sarebbe che i monaci prendano dimora, durante la loro vita, nella foresta, e che sia quindi responsabile di colpa chiunque a un villaggio si avvicini; bene sarebbe poi che i monaci si nutrano soltanto di elemosine da loro stessi raccolte, e che di colpa sia quindi responsabile chi accetti un invito a pranzo; e bene sarebbe ancora che si vestano i monaci soltanto di cenci raccolti lungo il cammino, e che di colpa sia dunque responsabile chi da un laico accetti doni di vestiario; bene sarebbe, inoltre, che i monaci sempre dimorino all'ombra di un albero, e che di colpa sia quindi responsabile chi sotto un tetto si ripari; e bene sarebbe, infine, che si astengano i monaci dal mangiare pesce e che di colpa sia quindi responsabile chiunque si permetta di mangiare del pesce". E se l'asceta Gotama non accetterà questi propositi, allora li utilizzeremo noi per farci dei discepoli". "Si può seminare discordia e divisione nella Comunità e fra i seguaci dell'asceta Gotama, certo che si può! Solo nella pratica delle austerità, infatti, il popolo vede grandi meriti". [Va dunque Devadatta a render visita al Beato e gli sottopone i cinque propositi.] E questa fu la risposta del Beato: "No, Devadatta! Nella foresta dimori soltanto chi lo desidera, e chi invece desidera abitare vicino a un villaggio vi abiti pure; raccolga elemosine chi lo desidera, e chi vuole accettare l'invito dei laici sia libero di farlo; si vesta di cenci C}li lo desidera, ma chi lo desidera accetti pure dai laici doni di vestiario. Il riposo all'ombra degli alberi, o Devadatta, è sempre stato da me permesso, per otto mesi all'anno, e lo stesso si può dire per il pesce, che io ho dichiarato essere permesso a condizione che chi lo mangia non l'abbia visto pescare e nemmeno sappia o solo sospetti che quel pesce sia stato appositamente pescato per offrirlo a lui come cibo". Ben soddisfatto per il rifiuto opposto dal Beato alle sue proposte, si alzò Devadatta dal suo giaciglio, salutò il Beato e si allontanò velocemente per entrare subito in Rajagaha, dove prese a esporre agli abitanti i suoi progetti. "Queste proposte le abbiamo fatte all'asceta Gotama", disse in quella circostanza, "e lui non le ha accettate; ma noi condurremo comunque una vita conforme a queste regole". Cominciarono allora a dire quanti ancora erano increduli perché non avevano la fede ed erano ancora ottenebrati nei loro occhi come nel loro spirito: "Sono questi gli asceti che hanno estirpato il male dal loro cuore e che hanno distrutto le loro passioni! L'asceta Gotama, invece, non disdegna il benessere materiale e vive nell'abbondanza! ". Ma coloro che invece erano credenti, perché avevano fede e visione limpida nei loro occhi come nel loro spirito, manifestavano la loro indignazione e il loro disappunto per quelle parole e non mancavano di fare sentire la loro voce: "Perché mai cerca Devadatta di seminare discordia e divisione nella Comunità del Beato e fra i suoi fedeli?". Giunse alle orecchie dei monaci l'eco di questi malumori, ed essi ne informarono il Beato. Il Beato interrogò allora Devadatta: "È vero quel che si dice in giro, che tu, cioè, tenti di seminare discordia e divisione nella mia Comunità e fra i miei fedeli?" "Vero è quel che tu dici, signore", rispose Devadatta. "Ebbene", rispose il Beato, "non credere che a qualcosa ti gioverà la divisione della Comunità: grave è infatti questa divisione. Chi cerca di dividere la Comunità quando in essa regna la pace, di una grave colpa si rende responsabile, di una colpa che espierà per un intero evo cosmico (kalpa): per un intero evo cosmico rimarrà costui immerso nell'acqua bollente; chi invece ristabilisce la pace in seno alla comunità divisa, costui, Devadatta, acquista il più grande dei meriti, e per un intero evo cosmico godrà della felicità del cielo. Assai lontano è ormai giunto, Devadatta, il tuo ardimento: non credere che a qualcosa possa giovarti la divisione della Comunità, perché davvero grave è una tale divisione". Si abbigliò di buon'ora, quella mattina, il venerabile Ananda; prese poi il suo mantello e la sua ciotola ed entrò in Rajagaha per chiedere le elemosine. Devadatta vide il venerabile Ananda che girava per la città in cerca di elemosine, gli si fece incontro e gli disse: "Ho deciso di celebrare, a partire da oggi, la cerimonia dell'Upasatha, caro Ananda, e di ricercare i principi dell'ordine lontano dal Beato e al di fuori della sua Comunità". Giunse questo proposito alle orecchie del Beato, che subito espresse i suoi sentimenti: "Agevole per l'uomo buono è la buona azione, ma la buona azione è difficile per il malvagio; facile è per il malvagio la cattiva azione, ma difficile è la cattiva azione per il Beato". Quel giorno, il giorno dell'Uposatha, si alzò Devadatta dal suo giaciglio e a chi si trovava intorno a lui distribuì dei biglietti dicendo: "Siamo andati a far visita all'asceta Gotama, signori, e gli abbiamo sottoposto le nostre proposte, ma lui non le ha accettate. Noi, in ogni caso, a queste regole abbiamo deciso di rendere conforme la nostra vita. Chi fra voi, venerabili, approva questi cinque articoli, prenda allora un biglietto". Si trovavano lì in quel momento cinquecento monaci della tribù dei Vajji, abitanti in Vesali, nuovi arrivati nell'Ordine, i quali ignoravano quali fossero i pensieri di Devadatta: presero dunque ciascuno il suo biglietto, questi monaci, nella convinzione che quei cinque articoli fossero conformi al Dhamma, alla regola e agli insegnamenti del maestro. E così riuscì Devadatta nel SUO intento di dividere la Comunità, e subito si recò sulla vetta del monte Gaya seguito dai cinquecento monaci. Si recarono allora Sariputta e Moggallana a far visita al Beato, si inchinarono davanti a lui e si sedettero al suo fianco; poi Sariputta prese a dirgli: "Devadatta, signore, se ne è andato sul monte Gaya, e cinquecento monaci ha portato con sé". Questa fu la risposta del Beato: "Bisogna in effetti che voi, Sariputta e Moggallana, diate testimonianza dei vostri sentimenti di benevolenza nei confronti di questi monaci: andate allora, tutti e due, prima che sia troppo tardi". "Bene, signore", dissero i due; poi si alzarono dalle loro sedie, salutarono il Beato, e si misero immediatamente in viaggio per raggiungere il monte Gaya. E in quel mentre un monaco che se ne stava in piedi non lontano dal Beato si mise a piangere. "Perché piangi, o monaco?", gli chiese il Beato. "Anche loro" rispose il monaco, "loro che del Beato sono i primi discepoli, Sariputta e Moggallana, passeranno dalla parte di Devadatta e il suo Dhamma riterranno valido". "Non è possibile, monaco", gli disse il Beato, "che Sariputta e Moggallana accolgano quell'insegnamento: soltanto per ricondurre alla verità quei cinquecento monaci essi sono partiti." E intanto Devadatta predicava il suo Dhamma, standosene seduto in mezzo a un gran numero di monaci. Non appena scorse da lontano Sariputta e Moggallana, disse ai suoi monaci: "Vedete, o monaci quanto ben insegnata deve essere la mia dottrina: i due discepoli più importanti dell'asceta Gotama, Sariputta e Moggallana, stanno arrivando anch'essi per ascoltare la mia parola!". Di rimando gli disse Kolaka: "Non fidarti, venerabile Devadatta, di Sariputta e di Moggallana, perché essi sono inclini al male e malvagie sono le loro intenzioni". "Ebbene, amico, siano comunque essi i benvenuti, perché apprezzano la mia dottrina". E subito Devadatta invitò Sariputta a sedersi sulla sua stessa sedia: "Vieni, amico Sariputta, accomodati qui!" "No", rispose Sariputta, e gli si sedette accanto su un altro giaciglio. E fino a tarda ora, fino a notte fonda, rimase Devadatta ad istruire i monaci, e con un discorso intorno alla Legge eccitò il loro zelo e li ricolmò di gioia. Poi rivolse a Sariputta questa richiesta: "Ancora attenta, Sariputta, è l'assemblea, e ancora non sente il bisogno di dormire: perché allora non tieni anche tu un bel discorso intorno alla dottrina? Io, infatti, sono stanco, e voglio riposarmi un poco". "D'accordo, amico", acconsenti Sariputta, e Devadatta stese atterra la sua veste piegata in quattro e si coricò sul fianco destro: subito il sonno ebbe la meglio, e Devadatta si addormentò perdendo il senso e la nozione delle cose. Allora con un sermone espose Sariputta ai monaci gli effetti meravigliosi della predicazione della Legge, mentre il venerabile Moggallana parlò ai monaci degli effetti meravigliosi della potenza soprannaturale. E ascoltando questi sermoni ottennero i monaci la visione pura e senza macchia della Legge e compresero che soggetto all'annientamento è tutto ciò che è soggetto a nascita. Infine il venerabile Sariputta si rivolse ai monaci e disse loro; "Andiamo, amici, a rivedere il Beato: chi approva il SUO Dhamma mi segua!". E Sariputta e Moggallana tornarono a Veluvana, portando con sé anche i cinquecento monaci. Ma Kokkalika andò ad interrompere il sonno di Devadatta e gli disse: "In piedi, amico! I tuoi monaci si sono lasciati convincere da Sariputta e Moggallana, e se ne sono andati con loro: non ti avevo forse detto di non fidarti di Sariputta e di Moggallana, perché essi sono inclini al male e malvagi erano i loro intenti?" E dalla bocca di Devadatta uscì allora una gran quantità di sangue caldo. DEVADATTA, MISSIONARIO INCAPACE Giunsero intanto Sariputta e Moggallana al luogo dove si trovava il Beato; si inchinarono davanti a lui e al suo fianco presero posto su delle sedie, al che Sariputta prese a dirgli: "Bene sarebbe, signore, che di nuovo ricevessero l'ordinazione i monaci che hanno partecipato allo scisma". "No, Sariputta", rispose il Beato, "non credo che sia giusto ordinare di nuovo i monaci scismatici: si impegnino piuttosto a confessare l'infrazione che hanno commesso. Ebbene, Sariputta, come sei stato accolto da Devadatta?" "Quando, signore, Devadatta terminò il suo discorso, con il quale aveva istruito i monaci e li aveva riempiti di gioia eccitando il loro zelo, questa richiesta mi rivolse: "Ancora attenta è l'assemblea, e nessuno sente il bisogno di dormire; perché allora non provi tu ad intrattenere i monaci con un discorso religioso, dal momento che io sono stanco e vorrei riposarmi un poco?". Ecco, signore, come Devadatta si è comportato nei miei confronti. Allora il Beato si rivolse ai monaci e disse: "C'era una volta uno stagno, in una regione boscosa, e nei pressi dello stagno vivevano degli elefanti: quando questi entravano nell'acqua, afferravano con la proboscide gli steli commestibili delle piante di loto, li lavavano, li masticavano e li mangiavano, acquisendo così quella bellezza e quella forza che permise loro di evitare la morte e la sofferenza che alla morte è simile. E fra questi grossi elefanti ce ne erano, o monaci, alcuni più giovani che, seguendo l'esempio degli adulti, entravano anche loro nell'acqua per prendere con la proboscide gli steli delle piante di loto; ma essi, o monaci, non lavavano bene questi steli, e li masticavano e li mangiavano ancora pieni di fango e di lordura: così non acquisirono né forza né bellezza, ed è per questo che andarono incontro alla morte e alla sofferenza, che alla morte è simile. E allo stesso modo è morto Devadatta, povera creatura che voleva imitarmi! Proprio come il giovane elefante che mangiava il fango per imitare gli animali più grandi, quelli che invece scrollano via la terra dalle piante di loto, e fra le piante vegliano di notte, proprio come questo giovane elefante, morirà, povera creatura, chi imitarmi vorrà". Poi il Beato proseguì il suo discorso: "Degno è di compiere l'opera del missionario il monaco che possiede otto qualità; e quali sono, dunque, queste otto qualità? Bisogna che il monaco sappia ascoltare la Legge e farla ascoltare agli altri; egli deve poi studiare, ricordare, comprendere e far comprendere agli altri; ed è necessario, infine, che egli mostri abilità nei rapporti con gli amici e con i nemici, e che mai sollevi discussioni. Queste sono le otto qualità e degno è il monaco che le possiede di compiere l'opera del missionario. Sariputta, o monaci, le possiede queste doti, ed è quindi degno di essere missionario: colui che fa il suo ingresso in un'assemblea dove si sta discutendo violentemente e pur non prova timore, non esita a parlare e non tiene nascosto il suo pensiero, non si mostra ambiguo nelle sue parole e non si inquieta per le domande che gli vengono poste, costui è degno, senza ombra di dubbio, di essere missionario. Posseduto era invece lo spirito di Devadatta da otto propensioni malvagie, e per un intero evo cosmico egli è destinato a vivere nel dolore; e quali sono queste otto propensioni malvagie? Guadagno e sete di guadagno, prestigio e brama di prestigio, onori e sete di onori, desideri colpevoli e amicizia dei malvagi: ecco le otto propensioni malvagie che hanno divorato lo spirito di Devadatta e lo hanno spinto, per un intero ciclo cosmico, al suo destino di dolore e sofferenza. Capace deve essere il monaco di conservare il dominio di sé qualora si trovi di fronte a vantaggi o inconvenienti, fama o cattiva nomina, onore o anonimato, desideri colpevoli e l'amicizia del malvagio; e per quale motivo? Così deve essere, o monaci, perché sempre nascono queste corruzioni, e producono tormento ed inquietudine, nello spirito di chi sulle otto corruzioni non ha mantenuto il suo dominio, e non nascono, invece, nello spirito di chi questo dominio possiede ben saldo. Continuate dunque, o monaci, a conservare il dominio sulle otto corruzioni, e in questo modo grandi saranno i vostri progressi". E così il Beato concluse il suo discorso: "Non lasciate che alcun desiderio, qualsiasi desiderio, abbia a sorgere in voi, e guardate quale sia il risultato a cui conduce il desiderio: conosciuto per la sua saggezza e reputato per la sua sapienza era Devadatta, e coronato di gloria; trascinato dall'orgoglio ha teso insidie al Tathagata, e nell'inferno è precipitato, nel regno della custodia quadruplice e terribile, lui che ha offeso il buono e l'uomo che non compie il male. In lui abita il vizio, egli è uomo dal cuore crudele, sordo all'amore; chiunque con un vaso di veleno l'oceano vorrà insozzare, non potrà riuscirvi, perché grande e sconfinata è la distesa delle acque, e nessun effetto potranno avere allora le parole di chi con la sua bocca il Tathagata vuol ferire. Cerchi dunque il saggio mendico un amico nel quale porre la sua fiducia, un amico la cui dottrina alla fine delle sue pene lo conduca". ( Cullavagga, VII) XI Guerre fra i popoli [Gli ultimi mesi della vita del Buddha vengono narrati in un testo canonico chiamato Mahaparinibbanasutta (Il libro del Grande Parinirvana). Vi si racconta di eventi politici e militari già previsti dall'Illuminato, che condussero all'invasione del territorio Sakia ad opera del re Virudhaka, che aveva detronizzato dalla guida del Kosala il padre Prasenajit. Il Buddha, che già in passato aveva salvato Kapilavattu, la sua città natale, da un infausto karman, questa volta l'abbandona a sé. Ma ad Ajatasattu, che, pentitosi, del suo folle gesto contro il padre Bimbisara, gli chiede consigli riguardo alla propria spedizione contro i Vajji (sanscrito: Vrji), il Buddha rivolge sagge parole.] Ecco ciò che ho udito. Soggiornava il Beato a Rajagaha, sul Picco dell'Avvoltoio. In quel tempo Ajatasattu, re di Magadha, aveva preso la decisione di muovere guerra ai Vajji, e fra sé diceva: "Li attaccherò questi Vajji, nonostante la loro forza e il loro valore: alle radici li distruggerò, e li annienterò; sterminio porterò fra loro". Si rivolse poi il re al brahmano Vassakara, suo primo ministro: "Vai, o brahmano, a far visita al Beato, salutalo e rendigli omaggio e informati sulla sua salute. Digli poi che Ajatasattu, re di Magadha, è impaziente di muovere guerra ai Vajji, e ha deciso di attaccarli, nonostante la loro forza e il loro valore, deciso a distruggerli alle radici e ad annientarli, e a portare fra loro lo sterminio. Abbi poi cura, o brahmano, di rammentare esattamente la predizione del Beato, per potermela fedelmente riferire: nulla dicono infatti i Buddha che non sia la verità". Il brahmano ascoltò attentamente le parole del re: "Sia come tu dici", e con un grande seguito si allontanò da Rajagaha su uno dei carri reali che aveva fatto preparare, dirigendosi al Picco dell'Avvoltoio. In carrozza viaggiò finché il cammino fu praticabile, e proseguì poi a piedi fino al luogo dove si trovava il Beato. [Il brahmano comunica con precisione al Beato tutti i piani di guerra messi a punto dal re Ajatasattu.] In quel momento il venerabile Ananda stava in piedi davanti al Beato e agitava un ventaglio in segno di rispetto e per procurargli sollievo. A lui disse il Beato: "Hai mai sentito dire, o Ananda, che uniti vivono i Vajji, e di frequente tengono riunioni pubbliche del loro clan?". "Si, signore, l'ho sentito dire", rispose Ananda. "E fino a quando i Vajji, o Ananda", riprese il Beato, "vivranno uniti, e continueranno a tenere di frequente le pubbliche riunioni del loro clan, non ci si può aspettare la loro decadenza, quanto piuttosto la loro prosperità". Aggiunse poi il Beato: "Prosperità e non decadenza ci si può attendere per il regno dei Vajji, o Ananda, fino a quando essi vivranno nella concordia, nella concordia si svilupperanno, e nella concordia compiranno le loro l'imprese; fino a quando essi nulla stabiliranno che non sia già stato stabilito e nulla abrogheranno di ciò che già è stato decretato, e alle antiche istituzioni si conformeranno, tali e quali lasciandole come un tempo furono stabilite; fino a quando essi stimeranno e onoreranno i loro anziani, e loro dovere riterranno l'ascoltarli; fino a quando essi continueranno a non praticare il rapimento delle donne e a non detenere con la forza le figlie delle famiglie rispettabili; fino a quando onoreranno e venereranno i templi delle città e delle campagne e continueranno a vigilare perché non abbiano a cadere in disuso le pratiche degli antichi sacrifici e degli antichi riti; fino a quando protezione e difesa accorderanno ai saggi in modo tale che i santi che vengono da lontano possano entrare nel regno e comodamente possano viverci quelli che vi abitano; fino a quando, dunque, così sarà, prosperità e fortuna sorrideranno al regno dei Vajji e non vi sarà per loro ombra di decadenza". Si rivolse poi il Beato al brahmano Vassakara: "Mi trovavo un giorno a Vessali, nel santuario di Sarandada e ai Vajji ho esposto le condizioni perché prospero sia il loro regno. E fino a quando a queste condizioni i Vajji si atterranno, e queste condizioni ben comprenderanno, non la loro decadenza ci si può attendere, ma la loro prosperità". Comprese allora il brahmano: "È così, dunque, Gotama, non potranno i Vajji essere vinti dal re del Magadha; non potranno essere vinti in battaglia, vincerli non si potrà senza ricorrere all'uso della diplomazia, senza rompere la loro unione. Ebbene, o Gotama, io me ne vado: sono molto occupato, e molto mi resta da fare"; "Fai come meglio credi, o brahmano", fu la risposta del Beato. E il brahmano Vassakara, felice e soddisfatto per le parole del Beato, si alzò dalla sua sedia e si allontanò. Disse Ananda al Beato: "Il fratello Salha, signore, è morto a Nadika: dove è andato a rinascere? Qual è la sua sorte?" [Analoga informazione chiede Ananda riguardo ad altri fedeli che da poco sono morti.] Rispose il Beato: "In virtù della distruzione del male il fratello Salha ha, con i suoi mezzi e in questo mondo, conosciuto, realizzato ed ottenuto la liberazione del cuore e dello spirito, ed è giunto alla santità; la religiosa Nanda, invece, in virtù della distruzione completa dei cinque impedimenti che tengono legati gli esseri a questi mondi inferiori del desiderio, ha preso dimora in un altro mondo da dove è entrata nel Nibbana, e mai più ritornerà su questa terra; il fedele laico Sudatta, poi, con la distruzione completa dei tre impedimenti [raga, dvesa, moha, cioè passione, odio e offuscamento mentale] e con la diminuzione del desiderio, dell'offuscamento mentale e dell'odio, tornerà in questo mondo una volta soltanto, e durante questo soggiorno metterà fine alle sue sofferenze. Per quanto riguarda la fedele Sugata, possiamo dire che ella s'è convertita, con la distruzione completa dei tre impedimenti, e che quindi non è più soggetta a rinascere in una condizione miserabile, ed ha la certezza di giungere al Nibbana. Anche il fedele Kakudha ha distrutto i cinque impedimenti che tengono legati gli esseri a questo mondo di desideri, ed è passato in un altro mondo dove raggiungerà il Nibbana: più non ritornerà SU questa terra". Proseguì il Beato: "Più di novanta fedeli laici che sono morti dopo avere distrutto i tre impedimenti, e dopo aver prodotto in sé la diminuzione del desiderio, dell'offuscamento mentale e dell'odio, una volta sola torneranno in questo mondo, per mettere fine, durante questo soggiorno, alle loro sofferenze, mentre gli altri cinquecento fedeli laici che sono morti, in vita avevano distrutto i tre impedimenti e si erano convertiti: a rinascere in condizione miserabile più non sono soggetti ed hanno la certezza di giungere al Nibbana". Disse ancora il Beato: "Strano non è, Ananda, il fatto che un essere muoia, ma è triste il fatto che voi veniate da me per informarvi circa questi morti. Ti indicherò allora un mezzo per conoscere la verità, uno Specchio della Verità, possedendo il quale ogni fedele del Buddha potrà dire in ogni momento: "Finito è per me il purgatorio, e finita e per me ogni nascita sotto forma di animale o di persona dannata, o in qualsiasi luogo di sofferenza. Io sono un convertito, non sono più obbligato a rinascere in un'esistenza miserabile, e sono sicuro di raggiungere un giorno il Nibbana". Qual è dunque, Ananda, questo Specchio della Verità? Consiste questo specchio nella fede che il discepolo ha nel Buddha, nel credere che il Beato è veramente il Santo, l'Arhat, il perfettamente Illuminato, il Saggio e il Giusto che conosce il mondo, il Benefattore Supremo, colui che sa cambiare il cuore degli umani, il Precettore degli uomini e degli dei, l'Esaltato e lo Svegliato; specchio di verità è la fede del discepolo nella Verità, il credere che dal Beato la Verità è stata proclamata, Verità immediata ed accessibile a tutti, che dona la salvezza al saggio; specchio di verità è la fede del saggio nella Comunità, il credere alla folla dei discepoli del Beato che percorrono le quattro tappe del sentiero dalle otto ramificazioni [l'Ottuplice Sentiero], sentiero retto e giusto, e conforme al Dhamma, e il credere che degna di rispetto e di onore è la Comunità del Beato, degna di ricevere i doni e l'ospitalità dei fedeli, perché il campo più produttivo di meriti è in questo mondo la Comunità, che possiede in sé le virtù care agli dei, virtù costanti e imperiture, che davvero rendono libero l'uomo perché estraneo ad esse è il desiderio di vita futura e la convinzione che efficaci siano gli atti esteriori: si tratta di virtù che mirano alla concentrazione dello spirito". Concluse allora il Beato: "Questo è, Ananda, lo Specchio della Verità, con il possesso del quali ogni fedele può dire in ogni momento: "Finito è per me il purgatorio, finita è per me ogni rinascita sotto forma di animale o di persona dannata, o in qualsiasi luogo di sofferenza. Io sono un convertito, e non sono più obbligato a rinascere in un'esistenza miserabile, e sono sicuro di raggiungere il Nibbana". (dal Mahaparinibbana sutta, sezione XVI del Digha Nikaya) XII Gli ultimi giorni del Buddha LA MALATTIA PREMONITRICE Dopo avere soggiornato, per tutto il tempo che ritenne necessario, nel boschetto di Ambapali, disse il Beato ad Ananda: "Vieni, Ananda, andiamo a Beluva". "Bene, signore, così sia", rispose Ananda. E con numerosi monaci andò dunque il Beato a Beluva e si fermò all'interno del villaggio; disse allora il Beato ai suoi monaci: "Per tutta la durata della stagione delle piogge, prendete dimora, o monaci, intorno a Vesali, in un luogo dove possa ciascuno di voi avere degli amici, delle relazioni o delle conoscenze; a Beluva io passerò il primo periodo della stagione delle piogge". "Bene, signore, così sia", acconsentirono i monaci alle parole del Beato, e intorno a Vesali presero dimora per la stagione delle piogge, nel luogo dove ciascuno aveva degli amici, delle relazioni o delle conoscenze. Cominciata la stagione delle piogge, fu colpito il Beato da una grave malattia, con dolori violenti che lo portarono più volte in punto di morte. Ma energico e padrone di sé sopportò il Beato questi dolori senza un lamento, e nel suo spirito concepì questo pensiero: "Non conviene che io lasci questo mondo senza aver prima parlato ai miei discepoli e senza aver preso congedo dalla Comunità: con un grande sforzo della mia volontà voglio allora superare questa malattia e conservare in me la vita fino a un termine fissato". E con un grande sforzo della sua volontà resistette il Beato a quella malattia e in sé la vita conservò fino al termine prefissato. Ebbe fine dunque la malattia, e il Beato entrò nella fase della convalescenza; guari poi completamente, e allora uscì dalla casa dove si trovava, e si sedette su un giaciglio che per lui era stato preparato. Giunse in quel luogo Ananda, salutò con rispetto il beato, gli si sedette accanto e gli disse: "Il Beato ho visto in buona salute, e il Beato ho visto anche durante la malattia: debolezza estrema ha colto il mio corpo alla vista del Beato vittima della malattia, immerso nelle tenebre era per me l'orizzonte, e la nozione delle cose più non avevo; pur tuttavia ho provato sollievo al pensiero che il Beato questo mondo non avrebbe lasciato, prima di avere almeno dato le sue disposizioni alla Comunità". "Che si attende dunque da me la Comunità, Ananda? L'insegnamento della Legge ho esposto senza fare distinzione tra l'interiore e l'esteriore, perché non è stato il Tathagata, nell'insegnare la verità, un Maestro che per sé serba ciò che sa. Certamente darebbe istruzioni per tutto quanto concerne la Comunità chi si trovasse a dire: della comunità voglio essere il capo, oppure: sottomessa mi è la comunità; ma il Tathagata, o Ananda, questi pensieri non nutre, e perché, allora, dovrebbe lasciare disposizioni per quanto concerne la Comunità?". Proseguì poi il Beato: "Un vegliardo carico d'anni io sono, e il mio viaggio è arrivato alla sua fine; vicino sono all'ultimo dei miei giorni, per più di ottant'anni ho vissuto. E come un carro che molta strada ha percorso può proseguire il suo cammino solo grazie a ciò che insieme tiene le sue parti, allo stesso modo mi sembra, Ananda, non possa il corpo del Tathagata continuare il suo servizio una volta privo dei legami che lo tengono unito: solo, infatti, dopo aver distrutto in sé ogni desiderio per ciò che lo circonda ottiene il Tathagata, in virtù della soppressione delle sensazioni distinte, quella concentrazione di chi ha il cuore totalmente distaccato da ogni materialità, ed è solo allora che il corpo del Tathagata può sentirsi a suo agio". Ancora parlò il Beato: "Per questo motivo, Ananda, devi essere tu la fiaccola di te stesso: non cercare rifugio al di fuori di te stesso, e prendi il Dhamma come tua fiaccola, il Dhamma eleggi a tuo rifugio, e non in nessuna delle realtà che regnano al di fuori di te cerca rifugio. E in che modo, Ananda, può un fratello essere fiaccola per se stesso, e per se stesso rifugio? Come può un fratello non cercare rifugio in null'altro che in se stesso e il Dhamma prendere come sua fiaccola e il Dhamma eleggere a suo rifugio?". Così concluse il Beato: "In questo modo un fratello può ottenere tutto ciò: per quanto concerne il corpo, egli deve incessantemente sorvegliarlo, in modo da rimanere sempre energico e padrone di sé, dopo aver avuto ragione di ogni desiderio, e dello scoraggiamento che di questo mondo è il frutto. [Analoghe argomentazioni riserva, come di consueto, il Buddha, al trionfo sulle sensazioni, le idee, gli istinti.] "E tutti coloro che, ora e dopo la mia morte, saranno fiaccola per se stessi e per se stessi rifugio, altro rifugio non cercheranno e il Dhamma come fiaccola prenderanno, il Dhamma come proprio rifugio eleggendo, costoro, Ananda, raggiungeranno la Verità sublime, che da tempo desiderano conoscere". NEL SANTUARIO DI CAPALA Si vestì il Beato di buon'ora, prese la sua ciotola e a Vesali si recò per chiedere elemosine; quando poi fu di ritorno, consumato il suo pasto, disse al venerabile Ananda: "Prendi, Ananda, la mia stuoia, perché vado a passare la giornata al santuario di Capala". "Bene, signore, così sia", rispose Ananda, e passo passo lo seguì con la sua stuoia, finché al santuario di Capala insieme giunsero: si sedette allora il Beato sulla stuoia che per lui Ananda aveva steso, e vicino a lui prese posto rispettosamente lo stesso Ananda. Disse allora il Beato: "Vero sollievo per lo spirito è la città di Vesali, Ananda!". [Si dilunga il Beato a descrivere tutte le bellezze della città.] Poi proseguì il Beato: "Chi ha studiato, praticato e conservato nel suo cuore i quattro fondamenti della potenza soprannaturale [caturabhijna], chi in questi fondamenti si è stabilito e li ha fatti suoi al punto da poterli impiegare come veicolo o come base, costui, Ananda, può, se lo desidera, continuare a vivere senza passare per una nuova nascita, per tutto il volgere di un ciclo cosmico, o per il tempo del ciclo cosmico che ancora deve compiersi: questi fondamenti il Tathagata li ha studiati e praticati per intero, e dunque può, se lo desidera, vivere ancora per tutto intero il volgere di un ciclo cosmico, o per il tempo del ciclo cosmico che ancora deve compiersi". Ma non comprese il venerabile Ananda l'intento così evidente e l'allusione così chiara nelle parole del Beato, e non venne a lui l'idea di supplicare il Beato in questi termini: "Voglia il Beato rimanere con noi per tutto il tempo di questo ciclo cosmico, e per tutto questo tempo voglia vivere, per il bene e per la felicità di un gran numero di uomini, per la salvezza degli dèi e degli uomini; orsù, o Beato, abbi compassione per questo mondo, e resta con noi!". Ma queste parole non rivolse al Beato il venerabile Ananda, tanto il suo cuore era vittima dei poteri del Maligno. [Una seconda e una terza volta il beato ripete le sue parole, ma Ananda continua a non comprenderle.] Allora disse il Beato ad Ananda: "Lasciami solo per un po', Ananda, e vai a fare ciò che ti piace". "Bene, signore, così sia", rispose Ananda, e andò a sedersi lì vicino, all'ombra di un albero. E subito il Maligno, Mara, si accostò al Beato e, stando in piedi davanti a lui, prese a dirgli: "Entra, signore, nel Nibbana, lasciati cogliere dalla morte; questo è per te il momento di entrare nel Nibbana, conformemente alle parole che un tempo, signore, mi hai rivolto: "Morte non mi coglierà, o Maligno, prima che i fratelli e le sorelle della Comunità, prima che i fedeli laici dei due sessi non siano divenuti uditori sinceri, saggi e disciplinati, pronti ed istruiti, con la dottrina ben salda nella loro memoria, irreprensibili nella loro vita e illuminati dai giusti principi nel loro cammino, sicuri nella conoscenza della dottrina tanto da poterla esporre agli altri e agli altri poterla insegnare e predicare rendendola accessibile in tutti i suoi dettagli, capaci di resistere alla seduzione delle false dottrine che non resistono all'esame della verità, capaci di diffondere ovunque la verità miracolosa". E ora, signore, tutto ciò hanno raggiunto i tuoi fratelli, e tutto ciò possono compiere; entra allora, signore, nel Nibbana, lasciati cogliere dalla morte; questo è per te il momento di entrare nel Nibbana, conformemente alle parole che tu, signore, un tempo mi hai rivolto: "Morte non mi coglierà, o Maligno, prima che tutta intera la mia pura religione abbia trionfato, prima che prospera sia divenuta, lontano si sia diffusa e da tutti sia stata accolta, non prima che, insomma, ben insegnata sia la mia pura religione". Ebbene, signore, la tua pura religione ha ora raggiunto la prosperità che tu desideravi, e tutti l'hanno accolta, perché ben insegnata agli uomini è la tua dottrina; entra allora, signore, nel Nibbana, lasciati cogliere dalla morte; questo è per te il momento di entrare nel Nibbana". Così parlò Mara, il Maligno, e subito il Beato gli rispose: "Ben puoi essere felice ora, o maligno: imminente è la morte del Beato; fra tre mesi, a partire da questo giorno, entrerà il Beato nel Nibbana". Così si disfece il Beato, quel giorno, nel santuario di Capala, dei legami che all'esistenza lo tenevano legato; deliberatamente e con perfetta consapevolezza egli se ne liberò. E ci fu allora una forte scossa di terremoto, i tuoni rombarono in cielo al momento di questa liberazione, e questa sequenza pronunciò il Beato, tutto ricolmo di gioia trionfante, quello spettacolo contemplando: "Alla sua vita il Saggio ha rinunciato, alla vita breve o lunga nella quale per sua volontà si era lasciato racchiudere come in una corazza; tranquillo e colmo di gioia questa corazza egli ha spezzato. [Il Buddha riferisce ad Ananda l'apparizione di Mara e tutte le sue parole, comunicandogli infine la sua decisione di lasciare questo mondo per entrare nel Parinirvana.] Ascoltò Ananda le parole del Beato e poi prese a dire: "Voglia il Beato restare in mezzo a noi per il tempo di questo ciclo cosmico, voglia il Beato continuare a vivere, manifestando la sua compassione per questo mondo, voglia il Beato restare con noi, per il bene di tutti gli esseri, per la felicità degli dei e degli uomini". Al che rispose il Beato: "Basta, Ananda! Smetti di supplicare il Tathagata, perché troppo tardi giunge la tua preghiera". Ripeté Ananda la sua supplica, ma uguale fu la risposta del Beato; lo supplicò allora per la terza volta, ma con una domanda si sentì rispondere: "Hai tu fede, Ananda, nella saggezza del Tathagata?" "Si, signore", rispose. "E allora", riprese il Beato, "perché insisti tanto?" Rispose allora Ananda: "Dalla bocca del Tathagata ho udito dire che colui che ha studiato e praticato i quattro fondamenti della potenza soprannaturale, che in questi fondamenti si è stabilito e li ha compresi al punto di prenderli come suo veicolo e come sua base, costui può, se lo desidera, continuare a vivere, senza passare per una nuova nascita, per un intero ciclo cosmico, o per il tempo di un ciclo cosmico che ancora deve compiersi. Ebbene, questi fondamenti il Tathagata li possiede e quindi può, se lo desidera, continuare a vivere per tutto intero un ciclo cosmico o per il tempo del ciclo cosmico che ancora deve compiersi". "Hai tu la fede, Ananda?", chiese il Beato. "Si, signore", rispose Ananda. "Ebbene, Ananda", proseguì il Beato, "una colpa tu hai commesso, perché l'intento evidente, l'allusione che chiara dietro le mie parole si celava tu non hai compreso, e non mi hai supplicato di rimanere con voi finché abbia ad esaurirsi questo ciclo cosmico, non mi hai chiesto di restare per il bene di molti e per la gioia degli uomini e degli dei. Se tu in questi termini il Tathagata avessi implorato, sordo egli sarebbe rimasto alla prima preghiera e alla seconda, ma alla terza avrebbe accolto la tua richiesta e la sua compassione avrebbe manifestato per questo mondo. Hai sbagliato, Ananda, una colpa hai commesso". Così concluse poi il Beato: "Ma non ti ho forse detto, tante e tante volte, che tale è la natura delle cose che da ciò che ci tocca e da ciò che noi amiamo dobbiamo separarci, rimanendo privi di queste cose e da tutte allontanandoci? Come dunque può accadere, o Ananda, se tutto ciò che è nato porta in sé il germe della distruzione, come può accadere che un essere non sia annientato? Ciò non è possibile; e tutto ciò che il Tathagata ha abbandonato, rigettato, respinto e rinnegato il tempo della vita alla quale egli ha rinunciato tutto egli aveva previsto con piena coscienza, allorquando le seguenti parole pronunciò: "Fra poco ci sarà l'ingresso del Tathagata nel Nibbana, da qui a tre mesi il Tathagata sarà morto". "E non sarebbe saggio, da parte del Tathagata, ritornare su queste parole per continuare a vivere". IL PASTO VELENOSO Giunse il Beato a Pava, e si fermò nel bosco di manghi che apparteneva a Cunda: fabbro era Cunda, e fabbri erano stati anche i suoi avi. Giunse allora alle orecchie del fabbro Cunda la notizia che il Beato a Pava era giunto, e che in quel bosco si era fermato; subito si recò egli al cospetto del Beato, lo salutò rispettosamente e al suo fianco si sedette, facendosi istruire ed esortare, finché il suo cuore fu di gioia ricolmo. Disse poi Cunda al Beato: "Voglia il Beato concedermi l'onore di venire alla mia casa, domani, a prendere il suo cibo, con tutti i suoi fratelli". Con il silenzio il Beato lasciò intendere che l'invito era accettato, e felice tornò Cunda a casa sua. Passata che fu la notte, preparò il fabbro Cunda a casa sua riso e dolci, e una grande quantità di pietanze delicate; e poi andò ad annunciare al Beato l'ora del pasto: "L'ora del pasto è giunta, Signore, il tuo cibo è pronto". Al che il Beato, che già si era vestito al mattino presto, prese la sua ciotola e il suo mantello, e con i suoi fratelli si diresse alla casa del fabbro Cunda. Li prese posto sul giaciglio che per lui era stato preparato, e subito disse al fabbro Cunda: "A me darai solo queste fra le buone pietanze che hai preparate: quanto al riso e ai dolci e a tutto il resto, tutti questi cibi li darai ai miei fratelli". "Bene, signore", rispose Cunda, e al Beato servì le pietanze che lui gli aveva indicato, riservando invece agli altri membri della Comunità il riso, i dolci e tutto quanto aveva preparato. Disse poi il Beato a Cunda: "Tutto ciò che di queste pietanze delicate avanzerà, tu lo dovrai sotterrare, perché nessuno io vedo, o Cunda, sulla terra come nel cielo di Mara e di Brahma, nessuno io vedo, fra gli asceti e fra i brahmani, fra gli dei e fra gli uomini, che possa, al pari del Tathagata, digerire questo splendido cibo come si conviene". "Bene, signore", rispose il fabbro Cunda; e con un cumulo di terra copri tutto ciò che dalle sue pietanze delicate era avanzato. Tornò poi dal Beato, per ascoltare ancora le sue esortazioni e i suoi insegnamenti e farsi colmare il cuore di gioia finché il Beato si alzò dal suo giaciglio e da lui prese congedo. Dopo quel pasto consumato a casa del fabbro Cunda, fu colpito il Beato da un violento attacco di dissenteria, che gli provocò dei fortissimi dolori. Ma queste sofferenze il Beato le sopportò con pazienza e rassegnazione, e ad Ananda disse: "Vieni, Ananda, andiamo a Kusinagara". [Si manifesta così la malattia che rapidamente porterà il Beato alla dipartita da questo mondo; poco più tardi, ormai vicino al momento supremo, il Beato rivolgerà ad Ananda le seguenti parole.] "Può darsi il caso, Ananda, che qualcuno faccia sorgere dei rimorsi nel cuore del fabbro Cunda, col dirgli: Per colpa tua e per tua sventura il Tathagata è morto dopo aver consumato da te il suo ultimo pasto ed aver mangiato i cibi che tu gli hai preparato!". "Se dunque dovesse Cunda provare dei rimorsi, con queste parole, Ananda, lo si dovrebbe tranquillizzare: "Un bene è per te, Cunda, e tornerà a tuo merito, il fatto che, proprio dopo aver mangiato a casa tua i cibi che tu gli hai preparato, il Tathagata è stato colto dalla morte; dalla bocca stessa del Beato abbiamo udite, o Cunda, queste parole supreme, dalla sua bocca le abbiamo raccolte: 'Due offerte di cibo meritano, in ugual grado e più di tutte le altre, il massimo della ricompensa; e quali sono queste due offerte? L'offerta di cibo fatta al Tathagata proprio prima che ottenga l'illuminazione perfetta e suprema, e l'offerta da lui ricevuta prima di lasciare definitivamente questo mondo per entrare finalmente, ormai sciolto da ogni legame, nel regno del Nibbana. Queste sono le due offerte che meritano, in ugual grado e più di tutte le altre, il massimo della ricompensa'. E il fabbro Cunda ha dunque compiuto un opera che meritoria che gli varrà una lunga vita e una buona nascita in una vita futura, destino felice e allietato dal possesso del cielo e della sovranità". Con queste parole, Ananda, placherete il rimorso di Cunda". DAL GIACIGLIO FRA GLI ALBERI, UNO SGUARDO AL MONDO DEGLI DEI Si recò il Beato, in compagnia di numerosi monaci, al boschetto di alberi sala di Kusinara, che apparteneva ai Malla; colà giunto, disse il Beato al venerabile Ananda: "Preparami, Ananda, in mezzo ai due alberi sala gemelli, un giaciglio, un giaciglio con la testa rivolta a settentrione: sono malato, Ananda, e ho bisogno di coricarmi". "Bene, signore", rispose Ananda, e in mezzo ai due alberi Sala gemelli preparò un giaciglio con la testa rivolta a settentrione: vi si adagiò, allora, il Beato, sul fianco destro, con le gambe una sopra all'altra, tranquillo e rassegnato. Non era quella la stagione dei fiori, eppure di fiori i due alberi sala gemelli erano coperti, di fiori che cadevano dai rami e sul corpo del Beato andavano a depositarsi, grande onore rendendo al successore dei Buddha del passato. Fiori di mandarava celeste e polvere di sandalo celeste piovevano dal cielo e sul corpo del Beato andavano a depositarsi, grande onore rendendo al successore dei Buddha del passato. Disse allora il Beato al venerabile Ananda: "Pur fuori stagione sono coperti di fiori i due alberi gemelli, e si staccano dai loro rami i fiori, per depositarsi sul corpo del Tathagata, grande onore rendendo a chi dei Buddha del passato è il successore; dal cielo pure piovono fiori di mandarava e polvere di sandalo, e sul corpo del Tathagata si depositano, solenne onore rendendo a chi dei Buddha del passato è il successore; e una musica celeste pervade gli spazi eterei, per rendere onore a chi dei Buddha del passato è il successore; pure si odono canti divini, che dai cieli provengono, per rendere solenne onore al successore dei Buddha del passato." Con queste parole proseguì il Beato: "Ma non è così, Ananda, non è così che degnamente si serve, si onora e si adora un Tathagata, e che a lui si rende culto: il monaco e la religiosa, i fedeli laici, uomini e donne, che incessantemente compiono i loro doveri, vivono secondo la legge e seguono la via che conduce alla Verità, costoro, Ananda, onorano il Tathagata, degnamente lo adorano, e gli rendono il culto che a lui è dovuto. E allora, o Ananda, i vostri doveri portate incessantemente a compimento, e seguite il cammino che alla Verità conduce: ecco ciò che dovete fare!". Davanti al Beato stava il venerabile Upavana, che un ventaglio agitava davanti a lui, in segno di rispetto e per dargli sollievo. Ma il Beato manifestò il suo disappunto e gli disse: "Spostati, fratello, non rimanere davanti a me!". Questo pensiero si presentò allora allo spirito di Ananda: "Da lungo tempo il venerabile Upavana e al servizio del Beato e si prende cura di lui personalmente: come è possibile che, alla fine della sua vita, il Beato gli manifesti il suo disappunto e gli dica di non rimanere davanti a lui?" [Il venerabile Ananda manifesta al Beato questo suo pensiero.] Al che rispose il Beato: "Numerosi, molto numerosi sono i Deva dei diecimila mondi che per vedere il Tathagata si trovano riuniti: tutt'intorno a questo boschetto di Kusinara non vi è, per dodici leghe, nemmeno un punto piccolo come la punta estrema di un capello, che dai potenti Deva non sia occupato; e così, Ananda, mormorano i Deva: "Da lontano siamo venuti per vedere il Tathagata, perché rare sono in questo mondo le apparizioni dei Tathagata, dei Buddha perfetti e compiuti; e nella terza parte della notte a venire il Tathagata morirà; ed ecco, questo venerabile fratello davanti al Tathagata se ne sta e lo cela al nostro sguardo, e della visione suprema siamo noi privati". Così, Ananda, mormorano i Deva". "Ma di quali Deva parla il Beato?" "Ci sono dei Deva, Ananda, che vivono negli spazi celesti, ma sono comunque attaccati a questo mondo: perciò essi si strappano i capelli e si lamentano, levano le braccia al cielo e si gettano a terra; nella sabbia si rotolano in preda all'angoscia pensando: prematura è la morte del Beato, prematura è l'entrata del Benefattore nel Nibbana prematura è la scomparsa della luce del mondo". "Vi sono anche, Ananda, dei Deva che vivono sulla terra, in tutto attaccati a questo mondo: anch'essi, allora, si strappano i capelli e mandano lamenti, alzano le braccia al cielo e si gettano a terra; anch'essi si rotolano nella sabbia e in preda all'angoscia pensano: "Prematura è la morte del Beato, prematura è la sua entrata nel Nibbana; prematura è la scomparsa della luce del mondo". "Ma vi sono poi i Deva che da ogni passione si sono liberati, e che sopportano con tranquillità le sofferenze del tempo presente; con rassegnazione le sopportano, tenendo sempre ben salda nella memoria la massima che così comincia: "Periscono tutte le cose". LA DEVOZIONE DEL FUTURO: I PELLEGRINAGGI "Quando passata era la stagione delle piogge e i fratelli usavano venire a render visita al Tathagata, noi assistevamo il Beato mentre a questi fratelli dava udienza: quando invece il Beato nel Nibbana sarà entrato, più non potremo noi assisterlo nell'udienza a questi cari fratelli". "Quattro luoghi vi sono, che tutti i credenti devono visitare con spirito di devozione; e quali sono questi luoghi? "Prima di tutto, Ananda, il luogo dove il fedele può dire: qui il Tathagata è nato, questo luogo deve essere oggetto del più profondo rispetto da parte di ogni visitatore. "Il luogo, Ananda, dove il fedele può dire: qui ha ottenuto il Tathagata l'illuminazione suprema e perfetta, questo luogo deve essere oggetto del più profondo rispetto da parte di ogni visitatore. "E anche il luogo, Ananda, dove il fedele può dire: qui il Tathagata ha fondato il suo regno di giustizia con le sue regole sante, questo luogo deve essere oggetto del più profondo rispetto da parte di ogni visitatore. "E infine, o Ananda, il luogo dove il fedele può dire: qui il Tathagata per sempre ha lasciato questo mondo per entrare nel Nibbana, questo luogo deve essere oggetto del più profondo rispetto da parte di ogni visitatore. "Ecco, o Ananda, i quattro luoghi che con il più profondo rispetto ogni fedele dovrà visitare. E in questi luoghi affluiranno i fedeli, fratelli e sorelle della Comunità, laici devoti e laiche devote, e tutti diranno: qui il Tathagata è nato, qui il Tathagata ha ottenuto l'illuminazione suprema e perfetta, qui il Tathagata ha fondato il regno della sua Legge, qui il Tathagata ha lasciato definitivamente questo mondo, libero da ogni legame, per entrare nel Nibbana. E tutti, coloro, Ananda, che colmi di fede la morte sorprenderà durante questo pellegrinaggio, rinasceranno costoro dopo la morte, al momento della dissoluzione del loro corpo, nel regno felice del cielo". [Q] LE ULTIME PAROLE DEL BUDDHA Disse allora il Beato al venerabile Ananda: "Può darsi il caso, Ananda, che questo pensiero si presenti a qualcuno di voi: "Più non si farà udire la parola del Maestro, noi non avremo più un Maestro". Così però non dovete credere: quando io più non ci sarò, il Dhamma e la disciplina che vi ho insegnato saranno per voi Maestro. Più non dovranno i fratelli, quando io non ci sarò più, chiamarsi un l'altro con il titolo di "amico", come finora hanno fatto; un fratello giovane può essere chiamato "amico" da un fratello più anziano, o designato con il suo nome o COTI quello della sua famiglia, ma un fratello più giovane dovrà rivolgersi a un fratello più anziano con l'appellativo di "signore" o "venerabile signore". "Quando io non ci sarò più, Ananda, la Comunità abolirà, se lo desidera, i precetti minori e secondari. "Quando io non ci sarò più, Ananda, sarete voi ad imporre al fratello Canna la penitenza più severa." "Ma qual è, signore, la penitenza più severa?" "Qualsiasi cosa dica Canna, i fratelli non dovranno rispondere e più non dovranno rivolgergli la parola, ne per consigliarlo, né per rimproverarlo". Così proseguì poi il Beato: "Può darsi il caso, o fratelli che qualche dubbio voi nutriate o qualche incertezza, relativamente al Buddha, al Dhamma o alla Comunità, al Metodo o alla Via; interrogatemi allora in tutta libertà perché non abbiate più tardi a farvi questo rimprovero: "Davanti a noi era il nostro Maestro, faccia a faccia, e noi non abbiamo saputo interrogarlo, eppure era li con noi"". Così parlò il Beato, ma i fratelli rimasero in silenzio, e col silenzio risposero anche ad un secondo e ad un terzo invito del Maestro. Allora il Beato disse loro: "Se solo per rispetto verso il Maestro esitate a porgli le vostre domande, comunicatevi allora l'un l'altro i vostri pensieri". Ma anche dopo queste parole i fratelli mantennero il silenzio. Disse allora il venerabile Ananda al Beato: "Quale meraviglia, o signore, prodigioso è tutto ciò: proprio non credo, che vi sia, in tutta l'assemblea, qualcuno che provi dubbio o incertezza relativamente al Buddha, al Dhamma, alla comunità, al Metodo o alla Via". "La pienezza della tua fede ispira, Ananda, le tue parole, ma ben lo sa il Tathagata che non vi è nell'intera assemblea un fratello che provi dubbio o incertezza relativamente al Buddha, al Dhamma, alla Comunità, al Metodo o alla Via. Perché, infatti, fra questi cinquecento fratelli, Ananda, anche il meno istruito è perfettamente convertito, non è più soggetto a una nuova nascita nel dolore, ed è sicuro di raggiungere un giorno l'illuminazione perfetta". Poi il Beato esclamò: " Ricordate sempre queste parole, fratelli: periscono tutte le cose, lottate senza tregua". E queste furono le ultime parole del Tathagata. Entrò allora il Beato nella prima contemplazione e si innalzò poi alla seconda, alla terza e alla quarta. Giunto così alla quarta contemplazione, prese a vagare per la regione dello spazio infinito, per arrivare poi alla regione dell'intelligenza infinita. Da li pervenne quindi nella regione in cui non esiste più nulla, e dalla regione dove non esiste più nulla raggiunse la regione dove non vi è ne idea né assenza di idea. Tappa successiva fu la regione dove cessano l'idea e la percezione. Fu allora che il venerabile Ananda disse al venerabile Anuruddha: "Il Beato, Anuruddha, è morto." "No, Ananda, il Beato non è morto: è entrato nella regione dove cessano l'idea e la percezione." Da questa regione tornò il Beato in quella dove non si ha né idea né assenza di idea, e poi in quella dove non esiste più niente, per riemergere poi nella regione dell'intelligenza infinita, e ancora in quella dello spazio infinito; da qui entrò poi nel quarto grado della contemplazione, per discendere poi nel terzo, nel secondo, e nel primo. Per l'ultima volta passò di nuovo dal primo grado al secondo, dal secondo al terzo e dal terzo al quarto grado della contemplazione. Fu a questo punto che il Beato spirò. ALLA MORTE DELL'ILLUMINATO Alla morte del Beato, al momento in cui egli lasciava questo mondo ci fu un violento terremoto, terribile e spaventoso, e in cielo rombarono i tuoni. Alla morte del Beato, al momento in cui egli lasciava questo mondo, pronunciò Brahma questa sequenza: "Della loro forma complessa tutti gli esseri che hanno vita si spoglieranno, di questo aggregato di proprietà intellettuali e materiali che a loro dona, in cielo come sulla terra, la loro individualità transitoria. Così sarà di loro, proprio come per il Maestro, che, senza uguale fra gli uomini, successore dei veggenti di un tempo, dotato di saggezza e di scienza, dalla morte si è lasciato visitare". Alla morte del Beato, al momento in cui egli lasciava questo modo pronunciò Sakka, re dei Deva, questa sequenza: "Fuggevoli sono la forma e la facoltà di un essere, nella loro natura sono la crescita e il declino. Seguita da distruzione è la loro produzione, e nel padroneggiarle è l'essenza della felicità" Alla morte del Beato, quando egli lasciava questo mondo, pronunciò il venerabile Anuruddha questa sequenza: "Quando alla fine della sua vita arrivò colui che era stato liberato dalle passioni, e nella beatitudine del Nibbana era entrato, quando ebbe fine la vita del gran Saggio, l'agonia della morte non turbò il suo cuore. Imperturbabile e sicuro di sé, delle sofferenze della morte egli ebbe ragione, e come si spegne una fiamma vivida, così, per l'ultima volta, il suo cuore fu liberato". Alla morte del Beato, al momento in cui egli lasciava questo mondo, pronunciò il venerabile Ananda questa sequenza: "Di spavento l'anima fu ricolma, sul capo si drizzarono i capelli, quando colui che di tutte le qualità era dotato, fu colto dalla morte, quando morì il Buddha supremo". Alla morte del Beato, fra i fratelli che ancora alle passioni erano soggetti, piangevano gli uni e levavano le braccia al cielo; si gettavano a terra gli altri e nella sabbia si rotolavano in preda alla disperazione, gridando: "Troppo presto è morto il Beato! Troppo presto il Benefattore è entrato nel Nibbana! Troppo presto si è spenta la luce del mondo!" Con tranquillità e rassegnazione, invece, sopportavano il dolore i fratelli che dalle passioni erano liberi e fra sé pensavano: "Periscono tutte le cose: come potrebbero, dunque, esse non scomparire?". Queste parole allora pronunciò il venerabile Anuruddha: "Basta, fratelli! Non piangete e non disperatevi. Non vi aveva forse detto il Beato che tale è la natura delle cose, che da ciò che tocchiamo e da ciò che amiamo dobbiamo in ogni caso separarci, e di tutte queste cose rimanere privi, da esse rimanendo lontani? E allora, fratelli, come potrebbe accadere, se su tutto ciò che è nato incombe il germe della distruzione, come potrebbe accadere che un essere non venga distrutto? Ciò non è possibile e anche i Deva, fratelli, ci rimprovereranno, se mostreremo la nostra disperazione". [Anuruddha espone la reazione delle tre classi di Deva di fronte alla morte del Beato, servendosi delle medesime parole che il Buddha stesso aveva utilizzato al momento in cui decise di prendere congedo da questo mondo.] Il venerabile Ananda e il venerabile Anuruddha passarono il resto della notte esortandosi a vicenda con discorsi religiosi. Poi disse il venerabile Anuruddha al venerabile Ananda: "Vai a Kusinara, fratello Ananda, a dire ai Malla che il Beato è entrato nel Nibbana: facciano essi ciò che riterranno giusto" "Bene, signore" rispose Ananda. Si vestì poi di buon'ora, prese la sua ciotola e si recò a Kusinara, accompagnato da un altro fratello. I Malla di Kusinara si trovavano in quel momento riuniti nella sala dell'assemblea, e in quella sala si recò il venerabile Ananda, per dire ai membri del clan: "Il Beato è entrato nel Nibbana: fate ciò che ritenete giusto". Udite le parole del venerabile Ananda, si rattristarono e si afflissero i Malla, le loro mogli, i loro figli e le loro figlie: gli uni piangevano e si strappavano i capelli, altri piangevano e levavano le braccia al cielo, altri ancora si gettavano a terra e si rotolavano nella sabbia in preda alla disperazione, gridando: "Prematura è stata la morte del Beato, prematura è stata l'entrata del Benefattore nel Nibbana, prematura si è spenta la luce del mondo". Ordinarono allora i Malla ai loro servitori di raccogliere i profumi, i fiori, e gli strumenti musicali che si trovavano in Kusinara. Presero i Malla i profumi, i fiori, tutti gli strumenti musicali e cinquecento vesti e al boschetto degli alberi sala si recarono, laddove riposava il corpo del Beato e per tutta la giornata onorarono e adorarono i resti mortali del Beato, con danze, canti e musica, con offerte di profumi e di fiori, e delle loro vesti fecero un baldacchino, che ornarono di ghirlande. Pensarono allora i Malla: "Troppo tardi è oggi per cremare i resti del Beato: rinviamo a domani la cerimonia della cremazione". E ancora onorarono, venerarono e adorarono i resti mortali del Beato, con danze, canti e musica, con offerte di profumi e di fiori, e delle loro vesti fecero un baldacchino, che ornarono di ghirlande. E in questo modo passarono anche il secondo giorno, e poi il terzo, il quarto, il quinto e il sesto. Giunti dunque al settimo giorno, così pensarono i Malla: "Passando fuori dalla città trasportiamo il corpo del Beato in un luogo posto a sud, all'esterno della città: li noi lo onoreremo e lo adoreremo con canti e musica, con offerte di fiori e di profumi e li celebreremo la cerimonia della cremazione". E subito otto principi dei Malla si lavarono il capo, indossarono vesti nuove e si prepararono come si conviene per trasportare il corpo del Beato. Ma non riuscirono, essi, a sollevarlo. Allora dissero i Malla al venerabile Anuruddha: "Per quale motivo, signore, per quale ragione gli otto principi Malla che si sono lavati la testa, che le vesti nuove hanno indossato e che al meglio si sono preparati per trasportare il corpo del Beato, non riescono a trasportarlo?" "Ciò accade, signori, perché uno è il vostro progetto, ma un altro è quello dei Deva". "Qual è dunque, signori, il progetto dei deva?" "Questo, Malla, è il vostro progetto: passando fuori dalla città trasportiamo il corpo del Beato a un luogo situato a sud, laddove lo onoreremo e lo venereremo con danze, canti e musica, con offerte di fiori e profumi, per procedere poi alla cerimonia della cremazione. Questo, invece, è il progetto dei Deva: "Trasportiamo il corpo del Beato a nord della città e poi, passando per la porta settentrionale, deponiamolo al centro della città. Usciamo poi dalla porta orientale, il corpo del Beato sempre onorando ed adorando con danze, canti e musica, offerte di fiori e di profumi, trasportandolo infine al santuario di Makutabandhana, a est della città, dove poi procederemo alla cerimonia della cremazione". "Così sia fatto, signore, secondo il volere dei Deva". E tutta la città di Kusinara, comprese le fogne e i mucchi di immondizia, si trovò coperta di fiori per un'altezza pari a quella di un ginocchio, di fiori di mandarava caduti dal cielo: mentre i Deva del cielo, e i Malla sulla terra, il corpo del Beato onoravano e veneravano con danze, canti e musica e con offerte di fiori e di profumi, al nord della città il corpo era portato, poi, passando per la porta del nord, giungeva al centro della città e dal centro della città passava poi per la porta orientale per essere deposto, finalmente al santuario di Makutabandhana. Allora, dissero i Malla di Kusinara al venerabile Ananda: "Come dovremo trattare, dunque, i resti di un Tathagata?" "Come si trattano le spoglie mortali di un re dei re, così devono essere trattati i resti di un Tathagata". Allora fecero raccogliere i Malla dai loro servitori tutto il cotone che si trovava nella città, e in un lenzuolo nuovo avvolsero il corpo del Beato; lo avvolsero poi in uno spesso strato di cotone e poi ancora in un lenzuolo nuovo, e così via, finché il corpo del Beato si trovò avvolto in cinquecento panni nuovi, in cinquecento strati di cotone. Il corpo collocarono poi in una bara di ferro ricolma d'olio, coperta da un'altra bara, colma anch'essa d'olio. Con legni fragranti di varie essenze innalzarono poi una pira sulla quale distesero il corpo del Beato. Passava in quel tempo da Kusinara, diretto a Pava con un gruppo di cinquecento fratelli, il venerabile Mahakassapa, che deviò dalla strada principale e si mise a sedere ai piedi di un albero. Da quella strada passava anche un asceta nudo che veniva da Kusinara recando in mano un fiore di mandarava; il venerabile Mahakassapa vide da lontano l'asceta nodo, gli si avvicinò e gli disse: "Certamente tu conosci, amico, il nostro maestro". "Sì, amico, lo conosco: da una settimana l'asceta Gotama è morto, e per questo io reco in mano questo fiore di mandarava". A queste parole, alcuni tra i fratelli che ancora non erano liberi dalle loro passioni si misero a piangere e a levare le braccia al cielo, altri si gettarono a terra e i rotolarono nella sabbia in preda alla disperazione gridando: "Prematura è stata la morte del Beato, prematura è stata l'entrata del Beato nel Nibbana, prematura si è spenta la luce del mondo". Con impassibilità e rassegnazione, invece, sopportavano questo dolore i fratelli che dalle passioni si erano liberati, e pensavano: "Periscono tutte le cose: come si potrebbe allora sfuggire alla distruzione?". Si trovava fra i fratelli un monaco di nome Subhada, che era stato ammesso nella Comunità in età ormai avanzata; disse dunque Subhada ai suoi fratelli: "Basta, signori: non piangete, e non siate afflitti. Finalmente ci siamo liberati del grande asceta! A lungo siamo stati tormentati dai suoi consigli: "Fate questo, non fate quest'altro", ma ora finalmente potremo agire a nostro piacere e liberi saremo di non fare ciò che ci dispiace". Ma il venerabile Mahakassapa disse ai fratelli: "Basta fratelli: non piangete e non siate afflitti. Non vi aveva forse detto il Beato che nella natura delle cose è il germe della dissoluzione?" Quattro principi dei Malla, che il capo si erano lavati e le vesti nuove avevano indossato, tentarono di appiccare il fuoco alla pira funeraria del Beato, ma vana sembrava la loro impresa. Allora dissero i Malla al venerabile Anuruddha: "Qual è la ragione, signore, qual è il motivo di tutto ciò?" "Diverso dal vostro, o Malla, è il progetto dei Deva" "E qual è, signore, il progetto dei Deva?" "Ecco, o Malla, il progetto dei Deva: con un gruppo di fratelli, con cinquecento fratelli, è in viaggio il venerabile Mahakassapa alla volta di Kusinara, e non sarà accesa la pira funeraria prima che Mahakassapa ai piedi del Beato abbia reso omaggio". "Sia fatto dunque, signori, secondo il volere dei Deva". Giunse dunque il venerabile Mahakassapa al santuario di Makutabandhana, laddove si trovava la pira funeraria del Beato: colà giunto si mise la tunica sulla spalla, si inchinò, e per tre volte girò attorno alla pira, per poi scoprire i piedi del Beato e prostrarsi in adorazione. Anche i cinquecento fratelli si misero la tunica sulla spalla, si inchinarono a mani giunte, girarono per tre volte attorno alla pira, scoprirono i piedi del Beato e si prostrarono in adorazione. Non appena il venerabile Mahakassapa e i suoi cinquecento compagni finirono di rendere omaggio al Beato, la pira si incendiò da sé e il corpo del Beato fu avvolto dalle fiamme. Senza lasciare tracce di carboni o di cenere si consumarono la pelle, la carne, le viscere, i nervi e i liquidi del corpo del Beato: non rimasero che le ossa. Proprio come l'olio e il burro si consumano senza lasciare tracce di cenere o di carbone, allo stesso modo, senza lasciare tracce di cenere o di carbone, si consumarono la pelle, la carne, le viscere, i nervi e i liquidi del corpo del Beato. Non rimasero che le ossa, e dei cinquecento panni e dei cinquecento strati che avvolgevano il corpo, solo il primo e l'ultimo strato resistettero al corpo. Consumato che fu il corpo del Beato, una pioggia torrenziale cadde dal cielo e dalle viscere della terra uscirono torrenti d'acqua a spegnere il fuoco della pira funeraria. Ogni sorta d'acqua profumata portarono allora i Malla e sulla pira le gettarono. Poi i Malla deposero le reliquie del Beato nella sala dell'assemblea, e vi misero intorno una doppia schiera di guerrieri, armati gli uni di lancia, e gli altri di arco; e per sette giorni adorarono e venerarono le reliquie, con danze, canti e musica, offerte di fiori e di profumi. Anche alle orecchie di Ajatasattu, re del Magadha, era giunta la notizia della morte del Beato; inviò allora un messaggero per recare ai Malla queste parole: "Il Beato apparteneva, come me, alla casta dei guerrieri: dunque io ho diritto al possesso di una parte delle reliquie del Beato, e su questi resti uno stupa sacro innalzerò, istituendo anche una festa magnifica in loro onore". [Anche altri clan avanzano le stesse pretese sulle reliquie del Beato.] Congedati tutti i messaggeri, così proclamarono i Malla davanti alla folla: "In un villaggio del nostro territorio è il Beato: dalle sue reliquie noi non ci separeremo". A queste parole il brahmano Dona si rivolse alla folla e disse: "Da me ascoltate, signori, una sola parola: pazienza ha raccomandato il nostro Buddha. Poco onorevole sarebbe che disaccordo e violenza di guerre sorgessero a motivo della divisione dei resti di colui che fu il migliore degli esseri. Un accordo stabiliamo, signori, per farne amichevolmente otto parti; ovunque, poi, moltiplicate gli stupa, perché fede abbiano gli uomini nella luce del mondo". "Ebbene, o brahmano, fai tu stesso otto parti uguali delle reliquie del Beato". "Bene, signori", disse il brahmano Dona, e delle reliquie del Beato fece otto parti uguali. Disse poi ai Malla: "Datemi, signori, l'urna che le reliquie ha contenuto: su questa urna uno stupa innalzerò, e una festa in suo onore istituirò". E diedero l'urna al brahmano. Ma anche i Moriya di Pipphalivana avevano appreso la notizia della morte del Beato, e anch'essi inviarono subito dei messaggeri per recare ai Malla queste parole: "Come noi apparteneva il Beato alla casta dei guerrieri: nostro diritto è dunque possedere una parte delle reliquie del Beato; su; suoi resti uno stupa sacro innalzeremo e una festa in loro onore celebreremo". Dal momento che si rispose loro: "Sono state già distribuite tutte le parti delle reliquie del Beato", essi si accontentarono di portare con sé le ceneri. [Si narra, a questo punto, della costruzione di otto stupa da parte di tutti i clan che avevano ricevuto qualche porzione delle reliquie del Buddha, nonché della costruzione dello stupa per l'urna e di uno per le ceneri.] Ci furono così otto stupa per i resti mortali, uno per il vaso, e uno per le ceneri: ecco tutto ciò che fu fatto. Otto parti si fecero delle reliquie di colui che possiede la visione divina, del migliore degli uomini. Sette sono le reliquie che l'India venera; a Ramagama l'ottava è conservata, dai Re della stirpe dei serpenti. Un dente si venera nel mondo vicino, un altro nella città di Gandhara, un altro nel regno di Kalinga, e un altro ancora è venerato dalla stirpe dei serpenti. A gloria di queste reliquie generosa risplende d'offerte la terra, perché le offerte sono il modo migliore per onorare le reliquie del grande Precettore; con offerte devono onorare il grande Precettore coloro che dagli altri sono onorati: divinità, serpenti e re, che degli esseri umani sono i più nobili. Inchinatevi allora con le mani giunte! Perché è difficile, molto difficile vedere un Buddha per un lungo volgere d'anni, per un lungo volgere di secoli. Fine.